Locandina Mine

Mine (2016)

Mine
Locandina Mine
Mine è un film del 2016 prodotto in USA, di genere Thriller diretto da Fabio Guaglione, Fabio Resinaro. Il cast include Annabelle Wallis, Armie Hammer, Tom Cullen. In Italia, esce al cinema giovedì 6 Ottobre 2016 distribuito da Eagle Pictures. Al Box Office italiano ha incassato circa 1134536 euro.

Afghanistan: un soldato (Armie Hammer) sta tornando al campo base dopo una missione, ma inavvertitamente poggia il piede su una mina antiuomo. Non può più muoversi, altrimenti salterà in aria. In attesa di soccorsi per due giorni e due notti, dovrà sopravvivere non solo ai pericoli del deserto ma anche alla terribile pressione psicologica della tutt'altro che semplice situazione. Dal produttore di Buried – Sepolto, un altro thriller adrenalinico, questa volta diretto da due geniali registi italiani.

Info Tecniche e Distribuzione

Uscita al Cinema in Italia: giovedì 6 Ottobre 2016
Uscita in Italia: 06/10/2016
Genere: Thriller
Nazione: USA - 2016
Durata: N.d.
Formato: Colore
Produzione: The Safran Company
Distribuzione: Eagle Pictures
Box Office: Italia: 1.134.536 euro

Cast e personaggi

Regia: Fabio Guaglione, Fabio Resinaro

Cast Artistico e Ruoli:



Produttori:
Peter Safran (Produttore)

Recensioni redazione

Mine, la recensione
Mine, la recensione
redazione, voto 8/10
Grazie ad un' ottima regia e sceneggiatura, Mine, si rivela un thriller decisamente ben riuscito, in grado di unire in modo equilibrato ed accattivante tensione e dramma.

Immagini

[Schermo Intero]

LA GENESI

MINE è il primo film che vede Fabio Guaglione e Fabio Resinaro come registi oltre che sceneggiatori. È il loro esordio come autori ed è un progetto che li ha quindi molto coinvolti personalmente e per un lungo periodo.

Da tempo stavano cercando una storia che li rappresentasse e potesse metterli nelle condizioni migliori per esprimere la loro visione ed il loro modo di raccontare storie. Dopo diversi progetti non andati in porto, si sono focalizzati sul definire un progetto che avesse una forte idea di base e che permettesse di trovare un attore protagonista di richiamo, grazie alla scrittura di un ruolo principale molto impegnativo, che diventasse una sfida stimolante da accettare.

Dopo aver visto numerosi film ambientati in uno spazio chiuso sempre più angusto (una casa, una stanza, una seggiovia, una cabina telefonica), i due registi hanno sentito l'esigenza di trovare un concept che permettesse un'unità di tempo e luogo in maniera alternativa, soprattutto perché – rimanendo in questo genere – sarebbe stato impossibile essere più estremi e originali di Buried – Sepolto, un film ambientato tutto nello spazio chiuso per eccellenza, una bara.

Dicono: "Abbiamo pensato quindi di andare nella direzione opposta, un uomo bloccato in uno spazio infinito, desolato e ostile. È così che ci è venuta in mente l'idea di un soldato che ha messo un piede su una mina. Abbiamo subito capito che lo scenario avrebbe permesso la creazione di diverse situazioni interessanti, nonché un vero e proprio one-man-show che avrebbe attirato un attore di richiamo."

Questo film, che parla di un uomo bloccato in una condizione di sopravvivenza al limite, impossibilitato a proseguire nel suo percorso, è in qualche modo metafora della situazione dei due registi nel periodo in cui hanno iniziato a pensare a questa storia.

Spiegano: "Non pensiamo che si tratti di un semplice caso, come niente mai lo è. Cercare di crearsi un percorso, facendosi strada tra le insidie del mercato cinematografico internazionale, ci ha condotti in una situazione molto simile a quella del nostro protagonista, per cui ogni mossa può essere un passo falso. Capire come proseguire può essere molto difficile e snervante, se ci si fa prendere da ansie e paure. Per questo possiamo dire che si tratta di un lavoro molto personale, quasi autobiografico."

Proprio durante lo sviluppo della sceneggiatura, nelle vite personali di entrambi si sono succeduti tanti e tali avvenimenti da far convogliare sul progetto un'energia emotiva talmente potente che ha poi funzionato come propulsore anche nei momenti di maggiore difficoltà. Avevano evidentemente bisogno di mettere un piede su una mina per ritrovare il coraggio di andare avanti e comprendere in maniera più profonda il loro percorso come registi ed esseri umani.

Guaglione e Resinaro continuano: "Mine ci ha visti pionieri ed esploratori di un ambiente sconosciuto, proprio come il protagonista del film. La nostra intenzione, da sempre, è quella di raccontare storie universali ed è questo che ci spinge naturalmente ad affacciarci al mercato internazionale. Non si tratta di una scelta strategica ma è semplicemente il luogo naturale in cui le nostre storie, rappresentate sia attraverso strutture narrative evidenti ad una prima lettura che simboli diretti all'inconscio del fruitore, possono trovare casa."

Mine racconta di un uomo che, in virtù della situazione che lo tiene imprigionato, deve affrontare le sue paure. Ci rivelano: "In una lunga notte di telefonate transoceaniche e di Skype-call incrociate tra Los Angeles e Milano, ci siamo confrontati con i produttori, e abbiamo deciso di procedere. È così che è iniziato il viaggio."

LA VISIONE: REGIA, SCENEGGIATURA E SIMBOLISMO

Mine è la storia di un giovane soldato americano che, dopo una missione fallita, finisce in un campo minato dove rimane bloccato con un piede su una mina antiuomo.

Nonostante si trattasse di un film high concept, l'intento originario era quello di svilupparlo comunque in una storia che valesse la pena di essere raccontata. Bisognava capire quali fossero i temi che l'immagine simbolica dell'uomo bloccato tra la vita e la morte potesse suggerire, nel tentativo di creare una storia universale che potesse parlare al maggior numero di persone possibile, coinvolgendole in un vero e proprio viaggio dell'anima.

I due registi spiegano: "Per noi questo film rappresenta una metafora della condizione umana; a ognuno di noi è capitato di ritrovarsi in una situazione di stallo, un momento della vita in cui ci sembra di essere bloccati. 'Andare avanti' sembra impossibile, significherebbe rinunciare a tutto quello che abbiamo e in cui ci identifichiamo. Nel film abbiamo cercato di esplorare questa condizione mentale con un viaggio che si muove sempre di più dalle circostanze esterne di un ambiente ostile verso l'interno del personaggio, il suo subconscio. Il nostro obiettivo era quello di fare quasi dimenticare gradualmente allo spettatore la domanda che nei primi due terzi della pellicola è protagonista e fondamento della tensione che abbiamo messo sullo schermo, ovvero, "come riuscirà a cavarsela?" Nell'ultima parte del film la cosa che più ci interessava era quella di spostare l'attenzione sul conflitto interiore del personaggio di Armie Hammer, il conflitto che dà il senso ultimo al film, che narra molto di più della storia di un soldato bloccato su una mina."

Ai registi interessava infatti raccontare una storia in cui il mondo a cui danno vita, ed in cui lo spettatore si immerge, altro non è che il riflesso dello stato d'animo del protagonista e dello spettatore, che accetta di partecipare a questo viaggio attraverso un processo empatico che bisogna costruire con immagini, suoni e passaggi narrativi.
E continuano: "In questo senso, il nostro approccio alla regia si potrebbe dire quasi esoterico, nel senso originale del termine: cerchiamo sempre di affrontare una storia come un'indagine sulla natura interna dell'Uomo, che porta, attraverso l'introspezione, alla riscoperta del nostro 'io' più profondo, alla conoscenza della nostra natura interna, e quindi, della Verità. Per condurre questa indagine facciamo ricorso, oltre che ai 'normali' strumenti in ambito cinematografico, anche a una conoscenza inter-disciplinare volta a spiegare l'Uomo all'interno dell'universo e viceversa, attingendo a materie che vanno dal simbolismo alla fisica quantistica."

In quest'ottica, Mine è stato concepito, scritto e girato facendo molta attenzione all'uso dei simboli, poiché sono loro e soltanto loro che riescono a comunicare attraverso l'inconscio con gli spettatori, in ogni tipo di storia. Ecco allora che ogni elemento della storia assume un duplice significato: il soldato, la mina, il deserto, la linea tra cielo e terra, la sabbia, il giocattolo, l'uniforme, la missione, il pozzo, le creature nella notte. È un uso psicomagico della narrazione, che cerca così di raggiungere lo spettatore nel suo profondo, oltre al primo livello di lettura del film che sta guardando.

Il lavoro sulla sceneggiatura ha visto Guaglione e Resinaro coinvolti in prima persona in ogni dettaglio, in un processo di progettazione lungo e meticoloso. Hanno lavorato quasi un anno e mezzo sullo script. L'obiettivo era quello di applicare ad una premessa apparentemente così limitante tutta la struttura narrativa di un film normale: tre atti restaurativi, plot point, mid point, pinze, eccetera. Cercando inoltre di infondere la loro voce in quello che parte come un thriller per diventare un vero e proprio dramma.

Spiegano i due registi: "Per noi è molto importante la fase di scrittura, perché rappresenta le fondamenta della progettazione di tutti gli aspetti realizzativi e concreti del film. La nostra storia di filmmakers indipendenti e le nostre precedenti esperienze ci hanno sempre visti protagonisti in tutte le fasi della produzione: scrittura, preparazione, produzione, shooting, montaggio, postproduzione. Per questo siamo abituati a scrivere avendo già in mente tutte le fasi successive di lavorazione e pensiamo che questo rappresenti un nostro grande punto di forza, soprattutto in una produzione indipendente. Avere già in mente una visione sul risultato finale permette di abbattere i tempi e i costi che portano dalla sceneggiatura alla scena finita. Per noi la stesura del racconto, la scelta degli elementi visivi e narrativi e il modo specifico in cui essi prenderanno vita diventa un unicum, per questo a volte non è facile capire le nostre intenzioni a monte, se non si è dentro la nostra testa!"

La sfida più importante era quella di riuscire a intrattenere lo spettatore per l'intera durata del film, creando scena dopo scena una tensione crescente e mantenendo sempre vivo l'interesse verso il destino di Mike Stevens, il protagonista. Serviva un twist o un evento più o meno ogni 4 pagine.

Hanno quindi cercato di strutturare il film come ogni archetipico viaggio dell'eroe; in questo caso però gli eventi esterni influiscono sempre di più sull'anima del personaggio, dove si sposta progressivamente la narrazione.

Dicono: "La componente esistenzialista del film è sempre stata per noi essenziale, altrimenti ci saremmo trovati a lavorare ad un semplice survival movie che, per quanto interessante, non ci avrebbe permesso di esprimere appieno la nostra visione. Per noi è sempre stato importante che questa storia, in qualsiasi sua incarnazione, avesse avuto un senso. Nella nostra testa non è mai stato solo un thriller militare, ma una vera e propria storia che porta con sé un messaggio o quantomeno ponga una domanda allo spettatore. Questa nostra posizione ha definito fin dall'inizio la dicotomia del film, che si trova esattamente a metà tra un film di genere e un film d'autore. Ciò non ha sempre aiutato, poiché l'industria cinematografica tende a schematizzare i prodotti, ma lo ha sicuramente reso un prodotto unico."

È stato importantissimo il continuo confronto con il produttore Peter Safran. Sono state scritte 7 principali stesure dello script, più innumerevoli revisioni nei dettagli, che è iniziato a girare solo quando Peter era convinto fosse ben bilanciato e "pulito" da molti elementi secondari che all'inizio dovevano essere inseriti nel film. Hanno discusso a lungo sulla possibilità di cambiare il finale o di girare finali multipli, ma per i due registi c'era solo un finale possibile che desse significato a tutta la storia, ed è stato dall'inizio uno dei punti fermi del processo creativo.

Nella scrittura si sono soprattutto chiesti ogni volta quale fosse la situazione che potesse simboleggiare nel modo più efficace i diversi stati mentali del protagonista. Eseguendo questo complicato esercizio, pensavano al modo più semplice per metterlo in scena. Era assolutamente necessario che, nel suo complesso, risultasse abbastanza vario e molto spettacolare. L'obiettivo in ogni fase della realizzazione era di non far percepire mai il sentimento della noia allo spettatore (o al lettore), seppur si trattasse della storia di un soldato bloccato su una mina. Servivano quindi diversi elementi che agissero fuori e dentro Mike, diversi momenti chiave nell'arco del personaggio, diversi passaggi emotivi e simbolici.

L'allegoria dell'uomo bloccato da una condizione che non è solamente esterna è nata quasi spontaneamente. Spiegano: "Quando ci si è presentata l'immagine del soldato fermo, solo e senza speranza, nella vastità di un deserto sconfinato, lo sviluppo psicologico della storia, nella direzione della similitudine con questa comune condizione umana, è stato naturale: allo stesso modo tutti gli altri elementi, i personaggi secondari e tutti i momenti della vicenda si sono intrecciati in maniera armoniosa e sinfonica in questa allegoria in cui il protagonista impersona vari livelli della condizione umana."
A una prima lettura, Mike è un soldato freddo e meticoloso che ha abbandonato qualcosa di importante e di valore, per compiere il suo dovere. Si trova catapultato in una condizione di sopravvivenza estrema e farà affidamento al suo addestramento e alle sue qualità per sopravvivere ma, mano a mano che la storia prosegue, le prove a cui lo sottopone il deserto lo costringono a spogliarsi della sua veste rigorosa e a mettere in dubbio non solo la sua attitudine mentale, bensì tutta la sua storia, tutto quello che lo ha condotto fino alla mina, fino a quello che è solo uno dei diversi passi falsi della sua vita. Il suo percorso di vita assume quindi un senso proprio in virtù di quest'ultimo passo, che potrebbe essergli fatale.

Parlando di simboli, ad esempio, lo "spogliarsi" delle vecchie convinzioni in virtù dell'addentrarsi sempre di più nella propria anima, visivamente diventa il processo che porta il soldato a disfarsi progressivamente della sua uniforme e dei suoi attrezzi. Da apparenti mezzi essenziali alla sopravvivenza, man mano che il tempo passa, sembrano diventare solo un'ingombrante e pesante corazza di cui il cavaliere si vuole liberare una volta per tutte. 

Per l'esplorazione di questo aspetto, come in tutte le storie archetipiche, è stata fondamentale l'introduzione di una figura di mentore che fosse diametralmente opposta a quella di Mike: il Berbero, un personaggio nomade, qualcuno abituato a vivere in quell'ambiente, con una cultura ed una mentalità completamente diversa da quella del soldato. A un secondo livello di lettura quindi, l'incontro tra i due personaggi rappresenta lo scontro filosofico di due culture e modi di pensare opposti, che nella storia del genere umano hanno rappresentato una diatriba fondamentale. Da una parte abbiamo il soldato Mike che rappresenta l'Occidente materialista, alla conquista di nuove terre e risorse, che riflette un modo di essere e pensare legato al possesso e alla conservazione di quello che ha, del passato, dei ricordi e che soprattutto vede l'ambiente esterno, la Natura, come separato da sé ed ostile. Dall'altra parte abbiamo un nomade, una figura anche visivamente opposta al protagonista.

Nel film vediamo il Berbero muoversi con scioltezza all'interno del campo minato, a differenza di Mike che rimane completamente immobile. La sua mentalità è quella di chi non ha legami con il passato, ha fiducia nell'ambiente che lo circonda ed è sempre proiettato verso il suo prossimo passo. L'incontro tra i due, per un pubblico occidentale, è assimilabile a quello tra un esploratore dello spazio e un rappresentante di una razza aliena. L'alieno è fondamentale per instillare in Mike il seme del dubbio su tutto quello che crede di conoscere della realtà e di se stesso.

Esiste quindi un Mike 'soldato' ed un Mike 'uomo dell'occidente', ma c'è anche un terzo livello molto interessante. Spiegano così: "Noi stessi lo abbiamo riscoperto mentre lavoravamo alla sceneggiatura, in cui la storia sembra parlare della vicenda di Mike come simbolo della coscienza umana, come se tutto il racconto stesse in realtà costruendo un'allegoria del percorso che l'io più profondo deve fare per scoprire la verità su se stesso. Ovviamente sappiamo che la presa di coscienza è un elemento imprescindibile di ogni buona storia, e che è facile ritrovarla in qualsiasi buon lavoro di narrazione, spesso al di là della volontà degli autori stessi. In questo caso però, è stato molto divertente ed emozionante riscontrare come nella storia fossero comparse, quasi di loro spontanea volontà, tutte quelle figure archetipiche dei più antichi e importanti racconti d'iniziazione."

Esistono diversi celebri racconti iniziatici travestiti da fiabe, le cosiddette 'fiabe alchemiche', e uno dei più celebri è senz'altro Pinocchio di Collodi, in cui il burattino protagonista affronta una serie di prove iniziatiche per prendere coscienza di sé e diventare 'un bambino vero'.

E continuano: "È stato per noi affascinante riscontrare come, per diventare 'un uomo vero', Mike trovi sul suo percorso in Mine i corrispettivi del Grillo Parlante, della Fatina, del Ventre della Balena, della ribellione e ritorno al Padre, l'oro, la dimensione onirica. Ci piace quindi pensare a Mine come un solido thriller psicologico ma anche, per chi avrà voglia di esplorarlo in tal senso, come un archetipico racconto d'iniziazione: un viaggio della coscienza alla scoperta di se stessi."

IL PROTAGONISTA: ARMIE HAMMER

Una volta raggiunta una versione della sceneggiatura che convincesse sia i registi che Peter, il produttore, la prima mossa è stata quella di coinvolgere nel progetto un attore di richiamo e talentuoso che potesse impersonare il protagonista.

Raccontano Guaglione e Resinaro: "Ci è arrivata una lista di attori potenzialmente interessati…e a dire la verità, inizialmente l'idea di Armie Hammer non ci convinceva molto. Avevamo dei pregiudizi nati dal fatto che, prima di Mine, lo avevamo visto sempre in ruoli molto solari, di personaggi bellocci, brillanti e molto espansivi…tutto il contrario di quello che avevamo in mente per il personaggio di Mike. Saggiamente, Peter ci ha semplicemente detto "se registi come Clint Eastwood, David Fincher, Gore Verbinski, Tarsem e Guy Ritchie lo hanno voluto nei loro film, questo ragazzo deve avere qualcosa di speciale." Ci siamo sentiti un po' stupidi e abbiamo deciso di incontrarlo…per fortuna."

E continuano: "Sin dal primo incontro siamo stati travolti dall'energia di Armie. Era appassionato alla sceneggiatura quasi più di noi! Aveva capito in pieno lo spirito della storia e del protagonista, e parlando con lui abbiamo capito quanto fosse straordinariamente intelligente e dedito al lavoro. La complessità del suo carattere e le sfaccettature che avrebbe potuto dare al personaggio sarebbero potute andare ben oltre i ruoli dei blockbuster in cui lo avevamo visto recitare. Anzi, abbiamo capito che, se avessimo lavorato insieme a lui per creare il personaggio di Mike Stevens, sarebbe potuto venire fuori qualcosa di ancora più interessante e tridimensionale di quanto avevamo in testa."
Armie non era minimamente spaventato dal doversi sobbarcare in pratica tutto il film sulle sue spalle, anzi era letteralmente eccitato all'idea di poter mostrare la sua ampia gamma di doti recitative in un one-man-show di 100 minuti. I due registi avevano bisogno di qualcuno che potesse facilmente stabilire una relazione emotiva con la macchina da presa, e quindi con il pubblico, e che potesse far piangere o ridere con lui in una circostanza tanto estrema. Il fatto che fossero due registi italiani esordienti non lo fece esitare un attimo, anzi, forse alimentò la sua voglia di percorrere territori inesplorati. Dopo il primo incontro capirono subito che Armie era la persona giusta. 
Armie ha svolto un meticoloso lavoro di documentazione sulla sceneggiatura: ha letto diverse centinaia di pagine e ha parlato con diversi consulenti per quanto riguarda la preparazione del personaggio nei Marines, la situazione psicologica dovuta al suo travagliato background personale, la reazione del corpo umano in seguito a disidratazione o a immobilità superiore alle 24 ore.

Insieme hanno cercato di far diventare Armie in tutto e per tutto un'altra persona. Hanno lavorato molto sulle espressioni facciali di Armie e sull'emissione della sua voce, rendendola più scura e spezzata – che è il contrario esatto della sua voce naturale. Armie è infatti una persona solare ed espansiva, al contrario di Mike Stevens, che invece è in uno stato di perenne contrazione e tensione difensiva. È ricoperto da un'armatura al di là della quale è impossibile entrare o uscire, per cui emette poco fiato quando parla.

Ovviamente, durante il film la trasformazione del personaggio si riflette anche nel modo in cui si esprime, si muove, ragiona.

Altra trasformazione importante è stata quella del look. Hanno avuto subito l'idea di rasare Armie con i capelli cortissimi, e lui non ha battuto ciglio. Hanno lavorato anche su tantissimi dettagli subliminali, come due cicatrici sulla testa, collegate concettualmente al passato del protagonista. Il reparto trucco ha lavorato così bene che Elizabeth, la moglie di Armie, pensava fossero vere!

I registi spiegano: "Quando ci chiedono 'com'è stato lavorare con una star Hollywoodiana?' Sembra una risposta di circostanza ma la verità è che non avremmo saputo immaginarci un partner di lavoro migliore. Da un punto di vista umano, Armie si è rivelato sempre entusiasta, pieno di energia e umile come pochi. Basti pensare che a fine giornata, dopo essere stato in piedi sotto al sole tutto il tempo ed aver recitato scene molto impegnative, Armie ci aiutava a portare nell'accampamento le sedie della troupe. Era in grado di creare sul set un clima sempre molto positivo…forse troppo, a volte dovevamo richiamare all'ordine tutti quanti perché si stavano divertendo troppo con lui!"

E aggiungono con entusiasmo: "Da un punto di vista professionale, è stato un sogno lavorare con lui. Il suo punto di partenza recitativo è sempre ottimo: capisce il senso della scena e lo fa trasparire. Ed è in grado di seguire le direzioni della regia in maniera veloce e chirurgica. In pochi take riesce a concentrare tutto ciò che serve al regista, tenendo a mente punti macchina e blocking, senza che questo infici sulla memoria del testo. Una macchina. Armie, così come tutti gli altri membri del cast, ci ha regalato diversi momenti di performance straordinaria. Molti di essi, purtroppo, abbiamo dovuti tagliarli in montaggio. Speriamo di aver reso loro giustizia con il film che abbiamo fatto."

LA PRODUZIONE

All'inizio si pensava che sarebbe stato un film abbastanza semplice da realizzare: un attore, una location e poco altro. Mano a mano si è capito che la realizzazione di questo film avrebbe comportato l'affrontare moltissime insidie, proprio come attraversare un campo minato. Condizioni climatiche estreme, ritmi di produzione serratissimi, animali ammaestrati, bambini, sparatorie, tempeste di sabbia, lunghe sessioni di trucco e sabbia, sabbia ovunque.
La realizzazione di questo progetto, un film con delle ambizioni importanti che fosse anche l'esordio di due italiani in campo internazionale, non è stata priva di ostacoli. Tutt'altro. Guaglione e Resinaro hanno seguito lo sviluppo in tutte le sue fasi, coinvolti in prima persona.

Spiegano: "Mentre il cast del film veniva chiuso e il film finanziato, noi ci siamo dati da fare progettando con gli storyboard ogni singolo shot. È stato chiaro fin da subito che le nostre ambizioni erano molto alte e che, benché si trattasse di un concept molto semplice, avremmo voluto conferire al film una portata narrativa ed immaginifica molto ampia."

Fino al momento dello storyboard, una sceneggiatura è solo un punto di partenza, da cui possono partire infinite linee il cui disegno finale è sconosciuto. Da una sceneggiatura possono nascere infiniti film. Il loro scopo in fase di storyboarding era di dare la miglior forma in immagini alla sostanza contenuta nello script. Erano convinti, infatti, che ogni momento della storia rappresentasse un significato ben preciso, e che quindi ogni angolatura della camera, scelta della lente, movimento o composizione dell'immagine rappresentasse qualcosa.

Dicono: "Il racconto migliore è quello in cui forma e sostanza comunicano simbolicamente esattamente la stessa cosa allo spettatore: in quell'istante la comunicazione rivolta al fruitore sta agendo su molteplici fronti, razionali e spirituali.  Non avremmo potuto quindi affrontare gli storyboard se non in maniera molto simbolica.

Quindi ore e ore di discussione su ogni singolo frame per capire se un personaggio dovesse occupare la parte sinistra o destra del frame, o dove dovesse essere rivolto. Cosa significa se Mike guarda a sinistra? Vuole dire che la sua anima è rivolta al passato? E se guarda a destra, sta metaforicamente guardando al futuro mentre compie quest'azione in questo momento del film? Mike deve essere in piedi o in ginocchio qui? La camera sta ferma e lo osserva da lontano o gli si avvicina lentamente? Per suscitare empatia in questa scena usiamo un'ottica che 'stringa' sul soggetto e ci faccia entrare nella sua testa o una più larga che ce lo mostri nella sua interezza facendoci percepire così la sua solitudine? Che ritmo dovrà avere questa sequenza quando la monteremo? E via così per ore e ore."

Prima di tutto hanno cercato un significato che fosse visivamente chiaro, facendo attenzione al linguaggio dell'inconscio, rispetto al momento che si stava raccontando. E al contempo si sono chiesti come realizzarlo tecnicamente. E man mano che si procedeva con lo storyboard, ciò che era una sceneggiatura che porgeva diverse domande, diventava una lunga sequenza di risposte. Ciò che era un insieme di idee, prendeva corpo e diventava una visione chiara da condividere.

Fu subito chiaro che per girare questo film avrebbero avuto bisogno di uno dei suoi veri e propri protagonisti: il deserto. Serviva un deserto che avesse un senso sia da un punto di vista logistico che finanziario. L'idea originaria è sempre stata quella di un deserto sabbioso, sub-sahariano. L'unico deserto sabbioso all'interno dei confini europei è presente su una porzione dell'isola di Fuerteventura, che si trova nell'arcipelago delle Canarie, parte del territorio spagnolo. È così che è stato coinvolto nel progetto il produttore esecutivo Miguel Faura e la sua Roxbury. I registi si sono quindi spostati in Spagna, dove hanno iniziato la preparazione.

A causa di meccanismi di co-produzione internazionale tra Italia e Spagna, non hanno potuto portare a lavorare il loro solito team. Hanno potuto scegliere solo una figura professionale italiana e hanno optato per Andrea Bonini, il loro storico compositore musicale, poiché la musica è un altro dei linguaggi con cui il film parla allo spettatore. Così, appena atterrati a Fuerteventura, hanno conosciuto gli Head of Department che avrebbero lavorato con loro, accuratamente scelti da Miguel.

Raccontano: "Ci siamo trovati di fronte quindi al cuore della crew che avrebbe dato vita al film, che però per noi in quel momento erano dei perfetti sconosciuti! Abbiamo stretto la mano al Direttore della Fotografia, l'aiuto regia e lo scenografo. I primi secondi sono stati ovviamente di impaccio e imbarazzo. Eravamo completamente sconosciuti, messi insieme all'ultimo secondo per lavorare insieme giorno e notte per lungo tempo.

Fortunatamente si sono tutti rivelati collaboratori eccelsi e personalità con cui è stato un piacere e un onore lavorare. Non solo riuscivano a interpretare perfettamente ogni nostra richiesta, ma il loro appassionato apporto creativo ha migliorato il progetto in ogni suo ambito."

L'entusiasmo e la professionalità di tutte le persone coinvolte, tutti quanti innamorati della sceneggiatura, delle potenzialità e delle sfide che proponeva, sono stati gli elementi fondamentali che hanno permesso di ovviare a tutte le difficoltà logistiche e fisiche incontrate, che hanno solitamente a che fare con una produzione su una piccola isola sperduta, con un set principale fra le dune di un deserto, sotto un sole cocente e tra le raffiche di un vento che non lasciava mai tregua.

Una delle cose più impegnative e determinanti è stata trovare la location perfetta, dove si sarebbe speso praticamente tutto il tempo del film. Ricordano: "Disegnando gli storyboard avevamo immaginato una serie di situazioni ambientali in base al racconto e alle inquadrature che avremmo voluto fare. Quindi abbiamo dovuto cercare la 'nostra duna', il che ha voluto dire, non esistendo una 'mappa delle dune', camminare per ore e ore sotto il sole cocente, senza mai dimenticarsi di portarsi dietro da bere e di fare delle foto per orientarsi, in modo da non perdersi come il protagonista del film. Le variabili che abbiamo tenuto in considerazione erano tante: il look a 360 gradi, le inquadrature che avremmo potuto fare in termini di sfondi e posizione del terreno in compatibilità con lo storyboard, l'agibilità con cui la troupe e i veicoli del set avrebbero potuto raggiungere il posto, la distanza tra le varie location, la continuità visiva. È stato emozionante trovarlo, riconoscere il posto che abbiamo avuto sempre in testa. Lo spiazzo perfetto sotto ogni punto di vista. La nostra duna."

Le condizioni di shooting sono state particolarmente impegnative. Girare sulla sabbia e per di più in una location isolata ha comportato continue complicazioni logistiche, come jeep che rimanevano incastrate nella sabbia o come l'attrezzatura da pulire continuamente.  

Fuerteventura è l'isola in cui avvengono i campionati mondiali di windsurf, per cui c'è sempre moltissimo vento. Questo ha inciso sulla presa diretta, che è stata ripulita in postproduzione (non volendo ridoppiare il film a favore delle interpretazioni degli attori sul set) e soprattutto sulla fotografia. Soffiando fortissimo il vento, le nuvole si spostano in maniera molto rapida, cambiando la luce da un momento all'altro. Nell'arco di un'ora si poteva passare da una giornata assolata, a nuvolosa, a piovosa, per poi tornare assolata. Questo ha complicato parecchio la fase di shooting e, conseguentemente, di montaggio, volendo limitare al minimo la discontinuità fotografica.

Raccontano: "Abbiamo cercato di supervisionare ogni reparto, cercando di bilanciare le richieste per soddisfare la nostra visione e far esprimere il talento dei membri dello staff. Una menzione speciale va sia al meticoloso reparto costumi sia alla squadra del make up. Con loro abbiamo studiato una serie di 'livelli di deterioramento' dello stato fisico di Mike. Abbiamo creato un'evoluzione per quel che concerneva la scottatura della pelle, la disidratazione delle labbra, la coagulazione delle ferite."

E continuano: "Le riprese, sia nella più lunga fase nel deserto, sia i giorni girati in interni a Barcellona, sono state un'esperienza emozionante. Dopo anni di scrittura e di progettazione su storyboard, vedere prendere vita i nostri pensieri e i nostri disegni è stato un processo surreale ed eccitante. Le difficoltà fuori e dentro il set hanno unito il gruppo e la collaborazione di tutti ha reso possibile questo miracolo produttivo. Ogni giorno la mole di inquadrature che ci eravamo pianificati di girare era altissima. Javi, l'aiuto regia, coniò per tale mole di lavoro una definizione che ricordava in maniera inquietante ed esilarante il genere porno barely legal, ovvero barely doable. Quando abbiamo fatto il piano di lavoro insieme, era molto scettico. Ci guardò nella sua maniera da spagnolo duro, quasi da sfida, e ci disse 'Per portare a termine questo piano di lavorazione, dovrete essere velocissimi sul set. Siete veloci?' Noi gli rispondemmo 'Sì, siamo veloci', lui ci squadrò come un cowboy consumato e disse 'Lo capirò dal primo giorno se siete veloci, e se questo piano di produzione ha senso o se dobbiamo tagliare un terzo del film'. Alla fine del primo giorno di riprese, in cui girammo tutto quello che ci eravamo prefissati di girare, venne da noi e disse con un mezzo sorriso 'Ok, siete veloci. Questo film si può girare'."

IL LOOK

Per questo film si è subito immaginato un approccio all'immagine che fosse il più possibile realistico. Insieme a Sergi Vilanova, il Direttore della Fotografia, i due registi hanno subito convenuto che la soluzione perfetta fosse quella di usare il più possibile la luce naturale. Così è stato, anche se le condizioni climatiche di Fuerteventura, in cui il vento soffia fortissimo e le nuvole si muovono velocissime, hanno reso più difficile la coerenza fotografica.
Lo scenario desertico è stato un alleato fondamentale per ampliare la portata epica del film. La combinazione tra lo sfondo di una vastità desertica su cui si stagliavano pochi elementi o per la maggior parte del tempo un unico personaggio immobile, ha dato la possibilità di creare delle composizioni molto iconografiche, simboliche e quasi stilizzate. L'idea era quella di rendere l'ambiente un vero e proprio personaggio, e trattare Mike come un astronauta bloccato in un paesaggio alieno. Ci sono alcune inquadrature del film, in cui Armie non è che un puntino nell'inquadratura in grado solamente di ascoltare un militare via radio, che è stato chiamato il Man on the Moon shot.
Raccontando il film di una situazione molto statica, si è cercato di inventare non solo stratagemmi narrativi ma anche visivi per intrattenere lo spettatore di continuo, grazie ad una varietà di linguaggio cinematico. Nel film quindi, a seconda della situazione, sono state utilizzate macchine a mano, steadycam, carrelli, stacchi tra camere fisse, piani sequenza, jump cut. Il tutto sempre cercando di tradurre in immagini l'emozione che Mike stava provando e che quindi il pubblico avrebbe dovuto provare.

Il film è stato girato con l'Alexa, ma per girare una serie di inquadrature integrative (ad esempio rallenty a framerate elevato) è stata utilizzata la Epic, e con quest'ultima è stato costruito una sorta di casco per permettere di realizzare un effetto 'Punto di vista' di Armie. Il casco però era molto pesante, e Armie doveva indossare un collare per attutirne il peso. Inoltre, essendo il corpo macchina particolarmente ingombrante, la lente non era posizionata esattamente di fronte ai suoi occhi. Quindi è stato messo di fronte agli occhi di Armie uno schermino che gli facesse vedere cosa stesse filmando la camera. In questo modo, per simulare il punto di vista del protagonista e far combaciare la lente della camera al suo presunto sguardo, Armie, tenendo d'occhio il monitor, doveva compensare tutti i suoi movimenti muovendosi come se la camera fosse il suo occhio.
Anche in questo è stato straordinario, e l'effetto risultante è un vero POV che fa sentire lo spettatore assieme a Mike, con il piede sulla mina.

Durante la sua permanenza sulla mina, Mike deve far conto, come da manuale, con alcuni miraggi del deserto, che nella sceneggiatura originaria erano presenti in maniera molto più ampia. Anche per quelle che possiamo definire 'visioni', è stato scelto un approccio iperrealistico.

Raccontano i registi: "Ci piaceva l'idea innovativa per cui le visioni si comportassero come oggetti o persone reali nel deserto. In questo modo, avremmo evitato soluzioni visive goffe e iperboliche, e avremmo aumentato l'immedesimazione con Mike, confondendo i contorni di cosa è reale e cosa non lo è, abbattendo la separazione netta tra interiorità del personaggio e condizione del mondo reale esterno."

L'altro elemento su cui si è lavorato molto è quello dei flashback. Non volendo che si trattasse semplicemente di un espediente narrativo, di un elemento infilato nel film a mo' di Deus Ex Machina, perché potesse tradire le aspettative del pubblico che avrebbe voluto vedere la storia di un uomo intrappolato su una mina. Usando i flashback in maniera 'classica', sarebbe stato come usare una scorciatoia per raccontare la storia.

Il rischio di un uso indiscriminato dei flashback era quello di allontanare il pubblico dalla tensione della situazione che vede Mike con il piede sulla mina. Si è cercato di trattare i flashback, ogni volta, come il riflesso di ciò che stava accadendo dentro la mente del protagonista, creando di scena in scena un legame visivo analogico tra quello che si vede nelle immagini mentali e le inquadrature nel deserto.

I due registi spiegano: "Era tutto già pianificato sin dalla fase di storyboard, per cui, in montaggio, abbiamo avuto la possibilità di creare degli stacchi tra i differenti ambienti mantenendo però un'unità di azione ed emozione. Il legame emotivo tra i flashback e ciò che sta accadendo nel deserto è quindi amplificato, così come la tensione della situazione. Stiamo con Mike sulla mina e sempre di più anche nella sua mente, siamo proprio in quegli episodi che la fatica del deserto e la paura della bomba sotto il suo piede stanno facendo riaffiorare dal suo inconscio, in un vero e proprio collasso di probabilità tra passato, presente e futuro. Tutto diventa Qui e Ora, non esiste più separazione tra gli elementi della vita di Mike, e in questo Qui e Ora tutto viene vissuto e deciso."

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