Locandina Everest

Everest (2015)

Everest
Locandina Everest
Everest è un film del 2015 prodotto in USA e UK, di genere Avventura e Drammatico diretto da Baltasar Kormákur. Il film dura circa 121 minuti. Ispirato agli eventi riguardanti il tentativo di raggiungere la vetta della montagna più alta al mondo, Everest. Il cast include Jake Gyllenhaal, Josh Brolin, Jason Clarke, Sam Worthington, Keira Knightley, Robin Wright, Emily Watson, John Hawkes. In Italia, esce al cinema giovedì 24 Settembre 2015 distribuito da Universal Pictures. Disponibile in homevideo in DVD da mercoledì 20 Gennaio 2016. Al Box Office italiano ha incassato circa 4635292 euro.

Gli esperti alpinisti Rob Hall e Scott Fischer guidano due spedizioni alla scalata dell'Everest, la cima più alta del pianeta. La sfida diventa sempre più pericolosa con l'avvicinarsi di una spaventosa bufera di neve: in un habitat così estremo, la resistenza fisica e psicologica degli alpinisti sarà messa a durissima prova. Epico e sconvolgente, basato su eventi realmente accaduti.

Ispirato agli eventi riguardanti il tentativo di raggiungere la vetta della montagna più alta al mondo, Everest documenta il formidabile viaggio di due diverse spedizioni spinte oltre i loro limiti da una delle tempeste di neve più feroci mai viste dal genere umano. Con la loro tempra e il proprio coraggio messi a dura prova dagli elementi più impietosi del pianeta, gli scalatori dovranno superare ostacoli quasi invalicabili e la loro eterna ossessione diventerà una lotta all’ultimo respiro per la sopravvivenza.

Info Tecniche e Distribuzione

Uscita al Cinema in Italia: giovedì 24 Settembre 2015
Uscita in Italia: 24/09/2015
Data di Uscita USA: venerdì 25 Settembre 2015
Prima Uscita: 02/09/2015 (Venice Film Festival)
Genere: Avventura, Drammatico, Thriller
Nazione: USA, UK - 2015
Durata: 121 minuti
Formato: Colore
Produzione: Cross Creek Pictures, Universal Pictures, Walden Media
Distribuzione: Universal Pictures
Budget: 55.000.000 dollari (stimato)
Box Office: USA: 42.321.175 dollari | Italia: 4.635.292 euro
Soggetto:
Ispirato agli eventi riguardanti il tentativo di raggiungere la vetta della montagna più alta al mondo, Everest.
In HomeVideo: in DVD da mercoledì 20 Gennaio 2016 [scopri DVD e Blu-ray]

Passaggi in TV:
• domenica 10 Dicembre ore 10:55 su Sky Cinema Suspense

Recensioni redazione

Everest, la recensione
Everest, la recensione
Giorgia Tropiano, voto 7/10
Everest è un film solido, che non ha paura di raccontare una storia vera senza aggiungere fatti per poter creare scene più cinematografiche. Se vi aspettate un kolossal hollywoodiano sbagliate film.
Recensione Blu-ray di Everest
Recensione Blu-ray di Everest
Redazione, voto 1/10
Everest è un'avventura epica disponibile in alta definizione in blu-ray con video e audio ottimi, pochi extra ma molto interessanti.

Immagini

[Schermo Intero]

EVEREST, ciak ad alta quota!

Everest, presentato da Universal Pictures International e Walden Media da un adattamento per lo schermo di William Nicholson e il vincitore del premio Oscar Simon Beaufoy, è diretto da Baltasar Kormákur e prodotto da Working Title Films e Cross Creek Pictures. La BLS – Film Fund & Commission ha sostenuto il film in fase di produzione e ha ampiamente supportato la troupe in Alto Adige durante le riprese, svolte prevalentemente sul ghiacciaio della Val Senales, a oltre 3.000 mt di altezza. La location è stata scelta per girare diverse scene ambientate sull’Everest. La squadra di lavoro in Alto Adige era composta da circa 180 elementi provenienti da tutto il mondo: americani, inglesi, australiani, tedeschi, italiani, islandesi… A far parte di questo team internazionale anche circa 60 altoatesini, coinvolti in tutti i reparti tecnici.

LA PRODUZIONE
Una Giornata Nera della Storia: La Scalata del 1996

Era una splendida mattina soleggiata del 10 Maggio 1996 quando Rob Hall, il capo prudente e meticoloso di Adventure Consultants con sede in Nuova Zelanda, e Scott Fischer, un alpinista di comprovata esperienza e team leader di Mountain Madness di Seattle, hanno guidato le loro squadre sulla salita finale verso il punto più alto della Terra: la vetta dell’Everest, 29.029 piedi (8.848 metri) sopra il livello del mare … ossia la quota di crociera di un 747. Le squadre negli ultimi due mesi si erano preparati attentamente per affrontare il percorso che porta alla montagna colossale: a come adattarsi al ​​freddo estremo ed all’aria sottile proprie di queste altitudini elevate, così come a gestire il livello di ossigeno, così basso in quei posti che anche la semplice camminata può diventare assolutamente estenuante.
Quel giorno, tre alpinisti di Hall e due Sherpa hanno raggiunto la vetta ma, al di là delle previsioni, si è abbattuta su di loro una violenta tempesta che soffiava con la forza di un uragano, inghiottendo gli avventurieri durante la discesa dalla montagna. Mentre continuava ad infuriare la bufera, e cominciavano a calare le tenebre, Hall cercò invano di assistere un cliente esausto, il postino e scalatore Doug Hansen, che si trovava giù per una parete a 40 piedi nota come Hillary Step (28,840 ft. / 8.790 m), che prende il nome del leggendario alpinista neozelandese, Sir Edmund Hillary.
In serata, Hall aveva esaurito tutte le sue energie negli sforzi per salvare Hansen. Non essendo in grado di continuare la discesa, è rimasto da solo, esposto alle intemperie sul versante Sud (28,752 ft. / 8764 m) passando due notti inimmaginabili, mentre la tempesta infuriava senza sosta. I venti spaventosamente forti, hanno paralizzato gli sforzi dei soccorritori ormai esausti, che non erano più in grado di trovare la strada nel buio, o perché accecati dal riflesso della neve. I tentativi di salvataggio dal basso erano stati sventati.
Andy “Harold” Harris, una guida neo zelandese di Adventure Consultants, scomparso anch’egli sulla cima della montagna, è stato visto l’ultima volta risalire eroicamente fino alla Cima Sud, nel disperato tentativo di soccorrere Hall e Hansen. Pur avendo raggiunto Hall sulla vetta, dove hanno trascorso la notte in condizioni climatiche assurde, con un di vento di 80 mph a  -40 gradi Fahrenheit, Harris scomparve nel buio della notte, non è mai più stato visto.
Anche Fischer, che aveva raggiunto la cima con le sue guide, Anatoli Boukreev e Neal Beidleman e sei dei loro clienti, ha avuto serie difficoltà durante la discesa. Anche se accompagnato dallo Sherpa Lopsang, il capo Sherpa di Mountain Madness, poco sotto la cima Balcony (27.600 ft. / 8412 m), Fischer è crollato e ha convinto Lopsang a scendere senza di lui. Lopsang l’ha fatto, con la speranza di mandare qualcun altro nella tempesta con delle scorte di ossigeno supplementare per aiutare Fischer a scendere.
Da parte sua Boukreev, essendo sceso con i suoi clienti nella prima parte della giornata, fece diversi tentativi per raggiungere Fischer, ma è stato costretto a tornare indietro a causa delle avverse condizioni climatiche. Più tardi, nella notte, riuscì a salvare altri alpinisti dispersi e rimasti bloccati a valle della montagna a 26.000 ft. (7.925 m) sotto la Cima Sud (chiamata così perché è il punto più basso di una cresta o di una sella tra due picchi).
Nel frattempo, un altro scalatore stava lottando per la sopravvivenza a 2,789 ft. (850 m) in fondo alla montagna della Cima Sud: Beck Weathers, un patologo texano, che faceva parte del team di Adventure Consultants, colto da cecità da neve, durante la sua ascesa verso la cima. Anni prima, aveva subito un intervento chirurgico correttivo agli occhi, e durante la sua scalata attraverso la “Zona Morta” dell’ Everest -un luogo in cui l’ossigeno è così scarso che il corpo umano spegne tutti i sistemi vitali dell’organismo – l’altitudine ha iniziato ad offuscare il suo campo visivo, impedendogli di vedere tutto ciò che si trovava a un metro da lui.
Hall fece promettere a Weathers di non proseguire la sua scalata, dicendogli di sedersi e aspettare il suo ritorno dalla cima in modo da poter scendere insieme. Poche ore dopo l’interruzione della sua scalata però, Weathers si trovò nel bel mezzo della tempesta, ed iniziò a lottare per proteggersi dai suoi effetti devastanti.
Infine, un gruppo di compagni scalatori che scendevano dalla vetta raggiunsero il punto in cui si trovava Weathers e lo aiutarono. Si è così aggiunto alla cordata della Adventure Consultants guidata da Mike Groom che tentava disperatamente di trovare il Campo Quattro a circa 26.000 piedi (7.925 m), sulla Cima Sud. Ma la neve alzata dal vento ed il buio della notte che oscuravano anche il terreno sotto i loro piedi, non ha permesso loro di scorgere le tende sull’ ampia distesa informe del colle Sud. Esausti, si sono stretti insieme cercando di scaldarsi l’un l’altro con l’ultimo calore residuo, nella speranza di sopravvivere e superare le condizioni climatiche e le temperature sotto lo zero, e attendere una migliore visibilità per trovare i loro rispettivi campi base.
Non appena la tempesta si è pacata, Groom sapeva di avere una piccola finestra per andare a chiedere aiuto. Ha lasciato Weathers ed altri quattro alpinisti, i quali erano in uno stato di incoscienza, per tornare al Campo Quattro e chiedere i soccorsi. A questo punto, tutti i soggetti coinvolti erano profondamente indeboliti. Quella giornata era iniziata 27 ore prima, e avevano finito le bombole di ossigeno, cibo e acqua. Assiderati, senza ossigeno ed affamati erano completamente esausti, ai margini della volontà di vivere.
Gi aiuti arrivarono poche ore dopo. A tarda notte, Boukreev portò in salvo i restanti tre clienti della Mountain Madness. Ha amaramente constatato che i clienti di Hall, Weathers e Yasuko Namba, un’alpinista giapponese impegnata nel suo settimo dei Seven Summit, erano prossimi alla morte – praticamente assiderati e non più in grado di muoversi o parlare.
In quello che fu poi descritto come un miracolo nel mondo dell’alpinismo, Weathers è riuscito a rianimarsi e – nonostante la sua visita rovinosamente offuscata, morto di freddo con le mani congelate fino ai polsi – barcollando ha trovato la strada per tornare alla tenda del Campo Quattro, il pomeriggio seguente. Il giorno dopo, è stato scortato giù dalla montagna al Campo Uno (19.800 ft. / 6035 m) da una squadra di soccorso formata da alpinisti di altre spedizioni. Chi lo ha visto, ha descritto Weathers come un cadavere ambulante.
Nella stessa regione a quel tempo anche Guy Cotter, un’altra guida per Adventure Consultants, guidava una spedizione sull’adiacente Monte Pumori. Cotter era rimasto in contatto via radio con Hall durante il giorno del raggiungimento della vetta, e quando si è scatenata la bufera, ha subito capito la situazione disastrosa, e che il suo amico di lunga data era in serio pericolo di vita. La mattina seguente ha intrapreso la strada più breve per raggiungere il Campo Base dell’Everest (17.500 ft. / 5534 m) per prestare soccorso alla squadra.
Invano, Cotter ha tentato di organizzare il salvataggio di Hall, ma due Sherpa salendo verso Hall sono stati costretti a tornare indietro a 350 ft. (106.7 m) sotto la sua posizione, esausti ed impossibilitati a continuare. Era evidente che la fatica e la tempesta stessa avevano preso il sopravvento su tutti. Semplicemente non c’erano persone in grado di aiutare Hall a scendere giù per i pendii scoscesi della montagna, e tutti i tentativi di portarlo in salvo sono stati vani. Alla fine, i sopravvissuti assediati sul Colle Sud, faticosamente hanno intrapreso la discesa dalla montagna con l’aiuto dei loro compagni Sherpa.
Peach Weathers, e Lisa Choegyal  ormai residente da tempo a Kathmandu, hanno lavorato al fianco dell’ambasciata americana per assicurare un elicottero militare nepalese per la ricerca del marito della Weathers, Beck, e di un altro scalatore all’altezza di 19.685 ft. (6.000 m), sulla cima dell’Icefall. Questo è stato considerato uno dei salvataggi più audaci mai effettuati sulle montagne Nepalesi.
Weathers è sopravvissuto, ma la tempesta ha provocato la morte di Hall, Fischer, Harris, Hansen e Namba, così come di altri tre alpinisti di un gruppo composto da poliziotti di frontiera indo-tibetani – la prima squadra indiana a raggiungere la vetta del Colle Nord (23.031 ft. / 7020 m). A quel tempo, è stata la giornata più nera della storia del Monte Everest.
Una storia di resistenza umana, resilienza e ambizione sfrenata: gli eventi occorsi hanno affascinato i media e l’immaginario del mondo intero. Il racconto dei sopravvissuti coraggiosi e degli avventurieri scomparsi, è fuori dall’ordinario, e ancora oggi continua ad avere una certa risonanza.

Il Richiamo della Montagna:
Dalla Storia Vera al Grande Schermo

La vetta del Monte Everest, la montagna più imponente della Terra, è a più di cinque miglia sul livello del mare, cioè alla quota di crociera di un jumbo 747. Il suo picco più temibile e spietato ha ospitato migliaia di scalatori audaci, pronti ad affrontare la sfida più grande per l’alpinismo. I tragici eventi del Maggio del 1996 hanno rappresentato, a quel tempo, la scalata più letale nella storia dell’Everest. Questa è stata una storia di resistenza umana che ha infatuato i media di tutto il mondo, diventando oggetto di libri e documentari bestseller, spesso con racconti contraddittori degli eventi.
Il produttore della Working Title, Tim Bevan, si è appassionato alla storia leggendo “Into Thin Air” (nell’edizione italiana “Aria Sottile”) di Jon Krakauer, subito dopo la sua pubblicazione nel 1997. Krakauer è un giornalista che aveva fatto parte del team Adventure Consultants di Rob Hall quel mese di Maggio, e aveva documentato gli eventi per un articolo sulla rivista Outside. Il partner di produzione di Bevan, Eric Fellner, ha condiviso il suo entusiasmo per il progetto e, per coincidenza, hanno scoperto che la Universal Pictures, con la quale la Working Title ha un accordo di distribuzione a lungo termine, aveva acquisito la proprietà della documentazione relativa a quegli eventi.
Tra questi, Left for Dead: My Journey Home from Everest” (nell’edizione italiana “A Un Soffio dalla Fine) scritto da Beck Weathers, da cui il film ha preso ispirazione, oltre alla trascrizione della conversazione finale via radio tra Rob Hall e sua moglie, Jan Arnold. Mentre le famiglie degli scalatori coinvolti nel corso degli anni erano rimasti per lo più silenziosi riguardo quei tragici eventi, in virtù di questo progetto hanno invece instaurato un dialogo costante con i filmmaker, lavorando adeguatamente su un lungometraggio che rivisitasse e raccontasse correttamente gli eventi.
Riflette Bevan: “Tanto per cominciare abbiamo convocato DAVID BREASHEARS, che ha scalato la stessa montagna nel 1996, e ha girato il primo film IMAX sull’ Everest. Ho scoperto che in definitiva che era in possesso della documentazione più idonea riguardo al caso. E’ una di quelle storie talmente avvincenti, che il fatto che moltissime persone abbiano scritto o raccontato gli eventi di quella missione, l’hanno resa una sorta di cubo di Rubik. Ogni volta che se ne parla si aprono nuove incognite. Per questo motivo c’era il pericolo che diventasse una di quelle storie inenarrabili, ma il progetto era troppo appassionante per la Working Title”.
Mentre sembrava che il film avrebbe potuto prender vita già nei primi anni ’90 con il regista Stephen Daldry, di fatto solo nel 2011 tutti gli elementi finalmente hanno iniziato a convogliare per portare questa storia sul grande schermo. Gli sceneggiatori cinematografici di film campioni d’incassi, William Nicholson e Simon Beaufoy, hanno lavorato a lungo per realizzare uno script profondamente commovente e potente, mentre nel frattempo i progressi in termini di effetti visivi avrebbero permesso una rappresentazione mozzafiato delle condizioni di quella giornata sulle alte quote dell’Everest… senza necessariamente mettere a rischio la vita del cast e della troupe.
A questo punto Bevan e Fellner hanno iniziato ad accordarsi con il regista Baltasar Kormákur, mentre si trovava a Los Angeles per le riprese dell’action-thriller della Working Title Contraband, interpretato da Mark Wahlberg e Kate Beckinsale. Nicky Kentish Barnes, che ha prodotto Everest insieme a Bevan e Fellner, afferma: “Baltasar era assolutamente l’uomo giusto per questo lavoro.  Aveva l’impegno di portare in vita questa storia, in maniera autentica”.
Acclamato dalla critica nella sua nativa Islanda, Kormákur è un regista esperto tanto nell’ azione quanto nel dramma, e le sue radici hanno una certa familiarità con il freddo. I film di Kormákur includono: 101 Reykjavík, A Little Trip to Heaven, Jar City e Inhale. Dopo Contraband, ha diretto The Deep, che narra la tragica storia vera dell’unico sopravvissuto di una barca da pesca capovolta al largo della coste ghiacciate islandesi. In lizza per l’ Oscar del 2012, il film mette in mostra il talento del regista nel rappresentare la lotta contro il più duro degli elementi della natura.
Quando gli è stato chiesto di leggere Everest, la reazione di Kormákur è stata di pura emozione. “I paesaggi ed il clima sono parte di me”, riferisce. “In Islanda, la natura è sempre attiva e presente. I vulcani in eruzione e le valanghe che minacciano regolarmente i villaggi, ci fanno sempre ricordare la potenza di Madre Natura. Avendo viaggiato a cavallo attraverso gli altipiani islandesi per settimane, senza mai incontrare nessun segno di civiltà, ho sempre voluto raccontare la storia di persone che devono sfidare la natura, mettendo in luce le loro personalità in maniera sottile – facendosi un profondo esame introspettivo, e studiandosi a fondo. Per esperienza dico che non si conosceranno mai totalmente i propri amici se non in certe condizioni – come sono realmente fatti – se non in circostanze reali. Quindi, avermi dato l’opportunità di raccontare una storia particolare sulla montagna più alta del mondo, è stata un’occasione più unica che rara, che proprio non potevo rifiutare”.
Kormákur ammette che questa opportunità lo ha colpito profondamente: “Ho voluto rifarla nel modo più autentico possibile. Portare le persone in un viaggio sull’ Everest, e mostrar loro la montagna come non è stato possibile fare fino ad ora … e allo stesso tempo creare una grande affinità ed empatia tra i personaggi, cosa rara per un film di un grande studio”. Fa una pausa, considerando che questa storia al tempo stesso è una realizzazione ed un ammonimento. “L’Everest è una metafora per qualsiasi forma di ambizione, e chiunque abbia un’ambizione deve necessariamente inserirla ed adattarla nell’ambito della propria vita familiare. C’è la montagna e c’è la propria casa, e la distanza tra le due è immensa, e vanno in due direzioni opposte”.
Il regista è rimasto affascinato dai molti che hanno tentato la scalata, interessati alla gloria di questa esperienza unica o al desiderio di raggiungere l’obiettivo di tutta una vita. E riflette: “Verrebbe da chiedere: ‘Perché hanno bisogno di scalare l’Everest?’ E nessuno troverebbe realmente la giusta risposta. Ma, si potrebbe anche chiedere: ‘Perché avete bisogno di vivere la vita? Perché avete bisogno di fare carriera? ‘Anche le persone con un sacco di soldi, hanno sempre bisogno di fare carriera. Quindi, è una di queste domande a cui è difficile trovare una risposta”.
Kormákur si è dedicato totalmente alla scoperta di che cosa sia esattamente accaduto quel giorno sulla montagna più alta del mondo, riconoscendo le immense sfide del progetto, sia emotive che fisiche. “La storia è ben nota e ben documentata”, spiega Kormákur. “Ma ci sono molte versioni differenti, che spesso si contraddicono a vicenda”.
Lavorando con i suoi colleghi produttori e con gli sceneggiatori, il regista ha insistito nel voler plasmare la storia del film nel rispetto di tutte le persone coinvolte. Era di fondamentale importanza che venissero onorate quelle otto persone le cui vite sono andate perdute sul monte quel mese di Maggio, e che la storia fosse bilanciata, senza voler giustificare o criticare qualunque delle decisioni prese prima o dopo la salita e la discesa.
Per definire un po’ il contesto, i rallentamenti che hanno causato affollamento e congestione sono stati da sempre un problema grave per gli scalatori dell’ Everest; c’erano 34 scalatori divisi in varie spedizioni intenti a scalare fino alla cima in quel fatidico giorno. Ma nessuno ha potuto prevedere l’arrivo improvviso di una tempesta del genere, dato che c’erano le condizioni ideali per toccare la cima del mondo.
Il co-produttore Breashears lavora con la Working Title su tale argomento da oltre un decennio, ed è stato consulente in materia di arrampicata e riprese in Nepal. Era su quella montagna nel 1996, in veste di co-regista e co-produttore di quello che sarebbe diventato l’acclamato film del 1998 in IMAX, Everest, quando è avvenuta la tragedia. A sua volta, Breashears è stato in grado di istruire il cast e la troupe sulle esatte condizioni all’epoca degli eventi. “Tutti coloro che avevano a che fare con questo film e con cui ho lavorato, sono stati scrupolosamente attenti a dare autenticità, ed onorare i personaggi coinvolti”, dice.
Ha contribuito a tradurre gli eventi di quella giornata anche GUY COTTER, il consulente alpinista del progetto che ora gestisce l’Adventure Consultants, e ha contribuito a coordinare le operazioni di soccorso per il suo amico Rob Hall il giorno in cui perse la vita. Cotter e Hall si arrampicavano insieme da quando erano adolescenti. “La nostra fratellanza ci ha guidato fino alle alte quote della montagna” dice, “gli eventi del 1996 ci hanno insegnato molto. Ci siamo posti moltissime domande al termine di questa tragedia: su come si possano evitare nuovamente questo genere di cose, ed evitarne il ripetersi. Penso che in questo settore, se vogliamo, tutto ciò ci ha fatto crescere”.
“Rob era sicuramente al culmine del suo operato”, continua Cotter, “ma evidentemente non aveva ancora maturato tutte le qualità necessarie ad una guida di alta quota, e talvolta i pionieri non sempre sopravvivono alla scoperta dei parametri dell’ambiente in cui si trovano”.
La ricerca e la preparazione per ciò che Kormákur descrive come “la cosa più difficile che abbia mai fatto nella mia vita”, ha cominciato a realizzarsi nel concreto appena Kormákur ha iniziato a leggere ogni libro e documento scritto sugli eventi che aveva a disposizione, e ha avuto innumerevoli conversazioni con persone che avevano scalato l’Everest, cercando di capire la mentalità di uno scalatore. Ha fatto un viaggio sull’Everest in fase di pre-produzione, e poi si è recato in Nuova Zelanda per incontrare le famiglie del soggetti coinvolti.
Kormákur riflette su ciò che ha imparato: “Sono infinitamente grato di aver avuto l’opportunità di andare sull’Everest, di viaggiare per arrivare in una parte del mondo che onestamente non avrei mai pensato di visitare. Ho sempre sognato l’Everest, ma non faceva parte delle mie mete di viaggio”.
Si sono uniti al team dei produttori, Brian Oliver e Tyler Thompson della Cross Creek Pictures, che l’ultima volta hanno collaborato con la Working Title nel 2013, per portare sul grande schermo la straordinaria avventura epica di Rush. “La produzione è stata un’enorme collaborazione  su grande scala, e siamo orgogliosi di ciò che abbiamo creato”, dicono Oliver e Thompson della Cross Creek. “Basta sentir parlare del Monte Everest che immediatamente si prova un gran senso di avventura, ammirazione e profondo rispetto – non solo per le persone che hanno conquistato la montagna, ma anche per coloro che hanno perso la vita per realizzare quel sogno. Questo film offre un ritratto intimo di cosa vuol dire aggrapparsi alla vita nelle condizioni più estreme sulla faccia della terra, e Baltasar è uno dei pochi registi che riesce a spingersi quanto basta per catturare sulla pellicola l’effettivo pericolo e l’eccitazione mista all’ansia della sopravvivenza a 30.000 piedi (circa 9000 m)”.
Pronto il team di produzione, era giunto il momento di dedicarsi al casting. Questo team di fatti doveva trovare il set perfetto di attori -un ensemble eclettico ed estremamente talentuoso – in grado di affrontare fisicamente ed emotivamente la sfida di raccontare la storia dell’Everest in tutti i suoi sorprendenti dettagli.

Sognatori ed Eroi:
Il Casting degli Scalatori

Considerando i nobili obiettivi che Kormákur e gli altri produttori avevano stabilito per coloro che sarebbero stati scelti per il cast di Everest, i realizzatori sapevano che non c’era modo migliore per testarli se non coinvolgendo gli attori stessi in quel viaggio.
Il regista spiega ciò che è stato determinante per la scelta del talento ideale: “Avevo bisogno che il cast affrontasse gli elementi naturali e facesse i conti con le proprie paure. Per tirare fuori tutto ciò non c’erano molte alternative. Per girare ai piedi dell’Everest ad alta quota, abbiamo dovuto migrare noi stessi lassù: girando a -30° C in Val Senales, dalle 12 alle 14 ore al giorno per sei settimane. La creazione di un congelatore gigantesco sul set ci ha permesso di coprire gli attori con della neve autentica. Queste sono solo alcune delle cose che abbiamo fatto per dare il massimo. Ma se questo dovesse apparire un trattamento ingiusto, basta ricordarsi che delle persone hanno realmente vissuto in quelle condizioni”. E riflette: “D’altronde, tutte queste battaglie non varrebbero molto se la storia di Rob Hall e Jan, Beck, Doug, Scott Fischer, Anatoli e tutti gli altri non fosse stata gestita in modo veritiero”.
L’ attore australiano Jason Clarke, noto per i suoi ruoli da protagonista in Apes Revolution – Il Pianeta delle Scimmie, ed il premiato Zero Dark Thirty, interpreta il neozelandese Rob Hall, uno scalatore di tutto rispetto, che ha scoperto l’alpinismo crescendo vicino alle Alpi Meridionali, a South Island. Nel 1980 ha raggiunto il suo primo vertice himalayano, la cresta nord dell’Ama Dablam a Sola Khumbu alta 6.856 metri, all’età di 19 anni. Nel 1990, ha scalato l’ Everest con il suo compagno di cordata, Gary Ball, ed il figlio di Sir Edmund Hillary, Peter; il gruppo ha catturando l’attenzione della nazione in occasione di una telefonata satellitare fatta dalla cima – trasmessa in diretta televisiva in Nuova Zelanda.
Hall e Ball hanno subito sviluppato le loro capacità imprenditoriali, cercando una sponsorizzazione per finanziare la loro sfida internazionale dei “Seven Summits” – la scalata delle sette vette più alte di ogni continente. Hanno alzato la posta tentando la sfida nell’arco di sette mesi. La coppia ha raggiunto il proprio obiettivo diventando personaggi famosi in tutta la Nuova Zelanda. Hanno investito i profitti dalle loro avventure in una società di guide internazionali d’alta montagna, la Adventure Consultants, nel 1992.
Mentre per molti alpinisti amatoriali il concetto commerciale di avventura era ripugnante, Hall ha creduto che le montagne fossero per tutti, e se i clienti erano disposti a pagare per una guida esperta, gliel’avrebbe fornita. La Adventure Consultants è diventata rapidamente una società di guide per spedizioni, leader nel settore. Ball è stato stroncato da un edema cerebrale, una tipica malattia d’alta quota, in cima ad una montagna in Nepal nel 1993, lasciando il solo Hall a seguire l’Adventure Consultants per conto suo. Fino al 1996, riuscì a portare con successo 39 alpinisti fino alla cima dell’Everest. Anche se il prezzo di una spedizione guidata con la sua società costava decine di migliaia di dollari, quindi notevolmente più costosa di quelle offerte da altre spedizioni, la reputazione di Hall per affidabilità e sicurezza ha attirato clienti provenienti da tutto il mondo.
Clarke ci dà qualche informazione riguardo al suo personaggio: “Rob era un grande appassionato della montagna e dei luoghi selvaggi della Terra. Una cosa è voler andarci da soli, ma un’altra è volerla condividere e portarci altre persone. Dall’idea che mi sono fatto documentandomi, Rob amava veramente accompagnare la gente, permettere a tutti di ammirare quel che lui stesso ha visto, e raggiungere i propri obiettivi”.
Come molte persone, anche Clarke conosceva gli eventi tragici di quella scalata, molto prima che i realizzatori gli proponessero di interpretare Hall, ed è stato onorato di assumere il ruolo. “Conoscevo la storia. Mi ricordo esattamente dov’ ero quando ho sentito ciò che stava accadendo, e siccome il tutto si è svolto nell’arco di alcuni giorni, la gente ha avuto tutto il tempo per pensarci ed immaginare l’orrore. La storia è molto toccante, e mi ha coinvolto emotivamente”.
Kormákur, che all’inizio della sua carriera è stato un attore, riconosce che Hall non è un personaggio particolarmente facile da interpretare. “Era un conservatore”, dice. “Lo chiamavano ‘Il sindaco del Campo Base’, perché voleva pianificare e controllare tutto, e queste caratteristiche a volte possono anche dar fastidio. Mentre alcuni attori si sarebbero allontanati da queste sfumature caratteriali, cercando di rendere il personaggio più affascinante o simpatico, Jason invece ha veramente assimilato queste qualità, le ha approfondite, e si è impegnato a fondo per ritrarre la persona che interpretava, per come era”.
L’impegno dell’attore del volersi calare totalmente nel personaggio di Hall, ha significato approfondire dalle conversazioni intime che il suo personaggio ha avuto con la moglie, la collega scalatrice Jan Arnold. Riflette il regista: “Allo stesso modo, Jason è stato in grado di ritrarre perfettamente il lato tenero di Rob nel suo rapporto con la moglie, e la decisione fatale che ha preso con Doug Hansen sulla montagna, che rispecchia la sua bontà. La dolcezza del suo carattere emerge dal ritratto di Jason”.
Una volta coinvolto, Clarke si è approcciato al ruolo con molta devozione, assumendosi tutte le responsabilità che derivano dal ritratto di una persona reale, ed insieme a Kormákur ed al produttore Bevan, si è recato in Nuova Zelanda per incontrare la vedova di Hall, Jan e la loro figlia Sarah. Questo incontro è stata la vera chiave di volta per l’attore. “E’ stato straordinario”, dice Clarke. “Abbiamo passato due o tre giorni insieme; non avevo mai sentito la loro versione dei fatti – come l’hanno vissuta – e questo è avvenuto dopo 17 anni. Durante quei due giorni, abbiamo condiviso molte cose, anche se ovviamente aleggiava un certo nervosismo, a cominciare da loro”.
Man mano che parlavano, il loro rapporto diventava più confidenziale, e Clarke ha cominciato ad intravedere come affrontare la sfida che gli si proponeva. “E’ stata la fase preliminare del mio lavoro: iniziavo a capire come dovevo interpretare quest’uomo, prendendomi tutte le responsabilità dovute per poter rendergli giustizia. Era diventata una questione personale: volevo assicurarmi di aver capito esattamente lo svolgimento dei fatti, perché rimane comunque uno dei grandi misteri dell’ Everest. Gli scalatori di tutto il mondo lo sanno, ed ognuno ha una propria opinione sulle cause ed i motivi che hanno portato a quei tragici eventi”, aggiunge.
La preparazione di Clarke per il ruolo, implicava un’arrampicata con Cotter, che ha preso in mano la gestione della Adventure Consultants dopo la morte di Hall, ed ha collaborato al film in veste di Key Alpine Advisor. Il legame di Clarke con Cotter è andato oltre del mero rapporto istruttore/allievo di arrampicata. “Guy è stato uno dei migliori amici di Rob, lo conosceva bene, e si sono arrampicati insieme per molto tempo”, dice Clarke. “Instaurare un’ amicizia con Guy, e cogliere il modo giusto per capire il senso dell’umorismo neozelandese, molto diverso da quello australiano, mi ha aiutato moltissimo”.
L’attore ha continuato a fare delle arrampicate fino all’inizio delle riprese, imparando tutto quel che poteva su gli aspetti tecnici del caso e sulle attrezzature che portano al seguito gli alpinisti. Quando è stato selezionato MARTIN HENDERSON per la parte di Andy “Harold” Harris, hanno iniziato a scalare insieme, ovunque: da Ben Nevis in Scozia al ghiacciaio di Tasman in Nuova Zelanda. E’ stato di fondamentale importanza per entrambi gli attori capire le azioni che sarebbero poi state simulate in uno studio, con macchine per il vento e gli effetti neve.
Clarke voleva capire cosa si provava nel rimanere esposti agli agenti esterni per ore: “Volevo contare totalmente sulla mia attrezzatura e sulle mie competenze, per rendermi veramente conto di ciò che si prova, e che cosa passa per la mente in quei momenti. Sapevo che prima di ottenere degli ottimi risultati ci saremmo dovuti impegnare moltissimo – sia in uno studio che a quote sotto i 29.000 ft.(8839 m)”. Clarke ha anche osservato attentamente le fotografie di Hall, ha ascoltato le interviste radiofoniche a cui aveva partecipato per poter imparare il suo accento, ed ha anche smesso di bere caffè perché gli alpinisti sono grandi bevitori di tè.
Cotter rimase colpito dal rispetto che Clarke mostrava nei confronti del personaggio di Hall. “Jason teneva molto alla credibilità ed alla reputazione di Rob”, dice Cotter. “Voleva assicurarsi che il film non semplificasse la drammaticità della storia, e non si discostasse dalla verità, perché Jason si sentiva particolarmente vicino al personaggio, e ha svolto un lavoro straordinario per mettere in luce i punti di forza di Rob ed il suo modo di fare le cose”.
L’attore candidato all’Oscar Jake Gyllenhaal, che si è affermato come uno dei migliori della sua generazione – con una serie di ruoli emotivamente e fisicamente impegnativi che definiscono la sua mole di lavoro – interpreta Scott Fischer. Fischer era un alpinista americano ed una guida, nonché il primo americano a raggiungere la cima Lhotse a 27.940 ft (8.516 m), la quarta montagna più alta del mondo.
Fischer è cresciuto nel Michigan e nel New Jersey, frequentando corsi di arrampicata dopo essere stato ispirato da uno spettacolo trasmesso in televisione. A partire dal 1970, ha scalato le cime più alte e più impegnative del mondo, e ha trasmesso la passione della montagna a tante altre persone. Istruttore di arrampicata e guida per più di 25 anni, Fischer ha capito che la scoperta e la sfida dell’ arrampicata avrebbero potuto trasformare la vita delle persone.
Nel 1984, Fischer ha fondato la Mountain Madness, fornendo la possibilità ai clienti di raggiungere i vertici delle montagne più alte del mondo. Ha guidato una spedizione per la pulizia delle pendici dell”Everest nel 1994, quando ha raggiunto per la prima volta la vetta. Il Maggio 1996 ha effettuato la sua prima spedizione commerciale, guidando altri appassionati sulla cima.
Fischer era noto per il suo approccio spensierato e divertente alla vita, ed aveva uno stile lavorativo diverso da Hall. Gyllenhaal tuttavia ha assunto il ruolo e la responsabilità conseguente, con la stessa quantità di zelo di Clarke. “Il mio interesse in questo film si è focalizzato sempre sulle persone che hanno scalato l’Everest in questa spedizione, ed il perché lo hanno fatto”, afferma Gyllenhaal. “Penso che solo l’idea di scalare l’Everest sia già di per sé eccitante. Ma la cosa più affascinante di tutto, è la motivazione che spinge la gente a farlo. L’Everest stimola la domanda che è dentro di noi: Cosa vogliamo realizzare nella nostra vita? Cosa dà senso alla vita?. Questa montagna, letterale o figurata, pone questa questione a tutti. E’ una metafora per molti versi: Madre Natura può sopraffarci quando vuole”.
Gyllenhaal ha scoperto quello che molti alpinisti prima di lui sapevano da tempo: “Non si tratta solo di raggiungere la cima; è la comunità la cosa fondamentale, come si interagisce con gli altri scalatori. La vetta non ha solo un senso letterale. Credo che la vetta la raggiungiamo con i rapporti che instauriamo. Non ci rendiamo conto che la cima l’abbiamo già raggiunta nei rapporti umani che abbiamo improntato. A volte, come nel caso di questa storia, ce ne rendiamo conto troppo tardi”.
Gyllenhaal apprezza la sfida di adattare ed interpretare una storia vera senza stravolgerne i fatti. “Ci si sente legati ad essi”, insiste. “Ma allo stesso tempo, è necessario apportare la nostra versione alla situazione. Penso che tutti noi stiamo cercando di diventare queste persone, la loro essenza, pur rimanendo fedeli a ciò in cui crediamo”.
Per approfondire il ruolo, Gyllenhaal è entrato in contatto con i figli di Fischer, ed ha compreso l’enorme rispetto che la comunità alpinistica provava per il padre. Dice l’artista: “Hanno parlato di un viaggio in Nepal, verso la base della montagna, per incontrare molte delle persone che conoscevano il padre. Molto spesso, la risposte di questi ragazzi erano piene d’ amore nei confronti del padre – quanto fosse comprensivo, quanto fosse divertente, e quanto fosse affettuoso. Credo che l’atteggiamento di Scott fosse attento e positivo, tanto da contagiare chi aveva intorno. Non temeva la morte, e questo atteggiamento generale che ha avuto per la maggior parte della sua vita – soprattutto quando scalava – lo rendeva una persona piacevole da frequentare”.
Kormákur crede che Gyllenhaal condivida lo stesso spirito di Fischer. “Per me è tutta una questione di energia”, dice. “La sua energia era diversa da quella di Jason, e ha reso questa esperienza ancora più piacevole e divertente. Anche Scott è stato un grande alpinista, ma sicuramente affrontava la scalata in modo diverso da Rob, e Jake ha mostrato questa differenza”.
A Gyllenhaal è molto piaciuto il contrasto tra le personalità dei due uomini. “Scott credeva che Rob fosse un ‘supporto’ “, osserva l’attore; “pur sempre considerando che il punto di vista di Scott era quello di lasciare che le persone seguissero la propria strada. Li paragono a diverse tecniche di genitorialità, in un certo senso. Uno dice: ‘Non toccare la stufa perché ti bruci’, e l’altro invece lascia che ti scotti almeno una volta, affinché tu non ripeta lo stesso errore”.
Anche se Gyllenhaal è fermo nella convinzione che entrambi gli approcci erano giusti, ha capito molto bene il motivo per cui i due uomini avevano fondato due società. “Erano entrambe validissime, dato che sia Rob e che Scott erano degli scalatori straordinari, ma sarebbe stato difficile per loro lavorare insieme. Inevitabilmente, si sarebbero scontrati a causa degli stili differenti, pur essendo tutti e due uomini saggi e preparati”.
Alla fine però, il loro rispetto reciproco li ha portati ad unire le forze per salvare i loro clienti durante quel fatidico giorno. “Penso che sia questo a rendere il film così affascinante”, aggiunge Gyllenhaal. “Queste due tecniche diverse devono lavorare assieme per arrivare in cima alla montagna. Spesso pensiamo che la nostra strada sia l’unica, e tuttavia, quando testiamo il massimo, dobbiamo adottare le tecniche di altre persone per sopravvivere. Scoprire che quella che pensavamo fosse la strada giusta, in realtà non è l’unica, potrebbe essere umiliante”.
Essendo stato impegnato in un altro progetto Gyllenhaal non ha avuto molto tempo a disposizione per prepararsi: ma avendo un fisico atletico ha comunque trovato il modo per allenarsi per l’esposizione ad alta quota. L’attore ricorda un’esperienza con Josh Brolin, che gli ha dato una vaga idea della situazione che gli scalatori avrebbero affrontato.
“Abbiamo fatto un test di altitudine in un simulatore a 30.000 ft. per 10 minuti”, osserva Gyllenhaal. “Josh ed io abbiamo deciso di rimanere più a lungo. Ci sentivamo di poter gestire la cosa, e stavamo bene. Scherzavamo e parlavamo del fatto non era poi così pericoloso, e poi tutto ad un tratto siamo usciti dal simulatore, e ci siamo sentiti male. Siamo passati dalle risate alla stanchezza ed alla tristezza. E’ stata una sensazione incredibile. Abbiamo veramente capito cosa si prova a stare così in alto, e come influisce nella mente. Non riesci a pensare come sempre, al di là delle migliori intenzioni, e non riesci a recitare come faresti normalmente. Ora era molto chiaro quanto fosse difficile sopravvivere a quelle altitudini elevate”.
L’attore candidato all’Oscar Brolin, uno dei migliori di Hollywood, è noto per i suoi ruoli impegnati sia per le grandi produzioni, che per film stimolanti indipendenti. Interpreta Beck Weathers, il patologo Texano sopravvissuto alla spedizione, che ha perso il suo braccio destro, le dita ed il pollice della mano sinistra, ed il naso per congelamento. E’ l’autore di un libro nel quale racconta la sua esperienza, sul quale il film si basa, e continua ad esercitare la professione medica ed a pronunciare discorsi motivazionali.
Per Brolin, ciò che lo ha attratto al progetto è stata la montagna stessa: “Quando leggi un copione, non vedi l’ora di iniziare”, osserva l’attore. “Quello che mi è piaciuto di Everest è stato il grande protagonista ed antagonista: l’Everest stesso. Mi piaceva l’idea di questo ignoto incommensurabile. Si arriva con grandi intenzioni – e forse anche con una dose di arroganza, una certa voglia di evasione, o incapacità di affrontare i problemi familiari o le questioni personali – e poi ci si trova di fronte qualcosa che è molto più grande di qualsiasi altra che si possa concepire. Eppure non si sa davvero di cosa si tratta, fino a quando non ci consuma”.
Kormákur ha apprezzato la complessità di Brolin, e sottolinea: “Josh ha una personalità serissima, ma allo stesso tempo può essere molto divertente ed imprevedibile. Queste sue caratteristiche calzano perfettamente con il personaggio che interpreta. Pur trattandosi di una storia straziante per quel che è successo a Beck, Brolin apporta una certa leggerezza. E’ un Texano che parla a voce alta, ed a cui piace scherzare. Dopo averlo incontrato di persona, questa sua doppia personalità mi ha molto intrigato”.
Kormákur ammette che Brolin è stata la sua prima scelta per questo ruolo: “Sono stato fortunato ad avere la sua disponibilità a farlo, perché bisogna sentirsela. Bisogna avere un vissuto, e aver affrontato degli eventi specifici per far si che facciano parte del proprio vocabolario. Ebbene, rappresentava tutto ciò appieno”.
Una volta reclutato Brolin, anche lui ha cominciato a scalare, partendo dal Monte Whitney ed il Mount Shasta, entrambi in California,… oltre a scalare le cime intorno all’ Eiger, in Svizzera con i compianti Dean Potter e Graham Hunt. Sentiva che questo gli avrebbe permesso di scoprire cosa spingesse veramente gli alpinisti. “Ho pensato: ‘Non potrò mai farlo di nuovo’, e poi ho scoperto che era proprio questa la chiave per tutti questi ragazzi”, chiarisce Brolin. “Di fronte a queste situazioni estreme, anche loro penseranno lo stesso; e nel giro di un’ora, mentre sono a casa a recuperare, si metteranno già alla ricerca della prossima montagna. Si tratta di una dipendenza di sorta”.
Nell’approfondire l’argomento, ha notato che Weathers, nelle condizioni estreme che ha dovuto sopportare quel giorno, ha accettato l’idea che fosse l’ultima volta, e non solo a causa delle lesioni subite. “Ho avuto la sensazione che avesse trovato una sorta di pace e tranquillità in seguito a quella spedizione, o avesse trovato quel che da tempo cercava, e quindi era soddisfatto. Non posso parlare al suo posto, ma era come se non gli importasse più di tornare a scalare”.
Kormákur concorda: “Dal libro che ha scritto, si capisce che Beck soffriva da lungo tempo di depressione. Era alla ricerca di un cambiamento, e ha iniziato a scalare le montagne piuttosto tardi. Quella spedizione, è stata illuminante: ha capito di non vedere l’ora di tornare a casa. Voleva sistemare delle cose, ed era stato troppo tempo lontano dalla sua famiglia. Alla fine si rende anche conto che non aver bisogno di raggiungere le cime, perché quel che desiderava l’aveva già trovato nella sua famiglia”.
Nel corso della produzione, Brolin non si capacita di come Weathers sia sopravvissuto contro tutte le probabilità. “Il pensiero della sua famiglia lo ha tenuto in vita”, ipotizza l’attore. “Come abbia potuto resistere, è totalmente inspiegabile! Come ha fatto a sopravvivere esposto a condizioni climatiche impossibili, con un vento che soffiava a 80 miglia l’ora ed a temperature sotto lo zero per 18 ore?!. Non potrò mai capirlo”.
L’attore veterano John Hawkes, che ha interpretato alcuni dei personaggi più complessi del cinema negli ultimi due anni – tra cui il suo ruolo candidato all’Oscar ne Il Gelido Inverno; nei panni di un seducente leader in La Fuga di Martha, e nel più recente dramma The SessionsGli Incontri – in Everest ritrae il postino americano Doug Hansen.
Hansen aveva scalato l’Everest nel 1995 con Hall, ma a poca distanza dalla vetta è dovuto tornare indietro. Nel 1996 tenta nuovamente l’impresa ancora più desideroso di portarla a termine, e da alcune testimonianze emerge che il desiderio di Hall fosse proprio garantire questa volta ad Hansen il raggiungimento della cima, cosa che entrambi hanno pagato con la vita.
Come i suoi co-protagonisti, Hawkes ha riconosciuto la responsabilità che proviene dal ritratto di una persona reale. “E’ una cosa unica, e si sente un peso maggiore di responsabilità nel farlo bene, per rispetto dei parenti e degli amici di quel dato personaggio”, dice Hawkes. “Si scava un po’ nella sua intimità. Si impara a conoscere il personaggio a fondo, e al contempo si deve seguire una sceneggiatura: bisogna quindi bilanciare le due cose. Tutti noi abbiamo cercato di scovare tutte le verità che potevamo su questi personaggi, per poi ritrarli nel modo migliore. Speriamo di esserci riusciti”.
Hawkes ha letto attentamente la vita di Hansen, e ha parlato con persone che lo conoscevano. “Era uno scalatore atipico: un impiegato delle poste”, osserva Hawkes. “Rob Hall in realtà quell’anno gli aveva fatto uno sconto visto che era la seconda volta che tentava la scalata. A detta di tutti, era una persona socievole e simpatica. Un abile scalatore, malgrado avesse avuto dei problemi di salute quello stesso anno, che lo hanno un po’ rallentato. Ma viene ricordato come un grande membro della squadra; un ragazzo che amava la gente, divertente”.
Avendo a disposizione meno informazioni su Hansen rispetto agli altri personaggi, Kormákur ha parlato ad Hawkes di un suo amico carpentiere che pensava potesse essere simile all’Hansen che avevano scoperto. “Tutti consideravano Doug un ragazzo spensierato e disponibile”, spiega Kormákur. “John è molto meticoloso ed ha fatto delle ricerche mirate, ed il mio amico mi ricordava molto il personaggio di Doug”.
Michael Kelly, meglio conosciuto per i suoi ruoli in film come Changeling, L’alba dei Morti Viventi, Giustizia Privata, I Guardiani Del Destino, Chronicle e Now You See Me – I Maghi del Crimine, oltre per il suo ritratto di Doug Stamper in House of Cards – Gli Intrighi del Potere della Netflix, interpreta lo scrittore e scalatore americano, Jon Krakauer.
Krakauer, uno scalatore provetto e giornalista che quell’anno si è unito alla spedizione della Adventure Consultants per scrivere un articolo sul proliferare delle scalate a pagamento per la rivista Outside, ha raggiunto la vetta quello sfortunato Maggio. Cinque settimane dopo, l’autore consegnato un manoscritto alla rivista, per poi scrivere un libro sulla spedizione dal titolo “Into Thin Air” (Aria Sottile). Dopo la tragedia, Krakauer ha criticato pubblicamente la commercializzazione del Monte Everest.
Kelly racconta il suo personaggio: “Era un alpinista con molta tecnica che, ovviamente si sentiva a proprio agio sulle altitudini. E’ uno scrittore che apprezzo, e poterlo ritrarre è stato un vero onore”. Riguardo il suo ruolo, Kelly aggiunge:” Ho letto i libri di Jon, e mi sono documentato sulla sua vita cercando di cogliere più informazioni possibili su di lui. Ho guardato molte interviste che ha rilasciato in seguito all’evento del ’96, e hanno fatto luce sulla persona che è realmente”.
Nel riconoscere la grande responsabilità di ritrarre persone reali, Kelly si è chiesto se in un qual modo la presenza di Krakauer come giornalista abbia influenzato le decisioni prese dalle persone che stava descrivendo nei suoi articoli, durante la scalata. Krakauer inizialmente aveva previsto di scalare con la Mountain Madness, e di descrivere i viaggi di gruppo, ma finì invece per arrampicarsi con la Adventure Consultants. “Credo che sia Rob che Scott fossero pienamente consapevoli di avere un giornalista al seguito”, osserva Kelly. “E allora mi chiedo: ‘Questo fatto potrebbe aver fatto andare un po’ oltre i propri limiti questi due uomini? Forse la squadra di Scott si è più esposta ma non quella di Rob, e Jon poteva metterlo nero su bianco. La domanda sorge spontanea”.
L’attrice giapponese NAOKO MORI, meglio conosciuta come Toshiko Sato nella serie televisiva della BBC Torchwood, interpreta Yasuko Namba, famosa in Giappone per esser stata la seconda donna giapponese ad aver raggiunto tutte le Sette Cime, tra cui l’Everest, dove morì durante la sua discesa nel 1996. Namba era una donna d’affari, che lavora a Tokyo per la FedEx, e per praticare l’hobby dell’alpinismo ha girato il mondo. A 47 anni è stata la donna più anziana a raggiungere la vetta dell’Everest (il suo record è stato poi battuto dalla polacca Anna Czerwinska, che ha raggiunto la vetta a 50 anni).
Mentre Mori ricordava vagamente gli eventi come riportati, quando ha letto la sceneggiatura ne è immediatamente rimasta coinvolta emotivamente. Ha preso in mano lo script una sera, intenzionata a recuperava le ore di sonno del jet lag, pensando di leggerne giusto un paio di pagine prima di andare a dormire. “Eppure non riuscivo a smettere di leggerla”, racconta. “In verità, dopo non riuscivo a dormire. Ero completamente scossa da tutta la tragedia. Mi ha catturato fin dall’inizio. Era tragica ma stimolante allo stesso tempo, e mi è venuta una gran voglia di celebrare la vita di Yasuko, ed il suo spirito di avventura e determinazione”.
MARTIN HENDERSON, un attore neozelandese che ha catturato l’attenzione del pubblico internazionale per il suo ruolo da protagonista al fianco di Naomi Watts in The Ring, interpreta la guida della Adventure Consultants Andy “Harold” Harris, che ha perso la vita sull’ Everest a seguito dei terribili eventi che si sono svolti quel giorno. Per Henderson, il film ha rappresentato l’occasione di fare un po’ di chiarezza su ciò che è realmente accaduto ad Harris. Infatti, le circostanze della morte della guida rimangono sconosciute.
“E’ stata la prima esperienza di Harold come guida sull’Everest, e in realtà la sua prima volta come guida ad alta quota, quindi aveva un certo peso quella spedizione per lui”, spiega Henderson. A detta di tutti, era un tipo entusiasta ed affabile, un buon insegnante ed una guida paziente, molto disponibile con i clienti. Abbiamo evinto che lui fosse tornato indietro per aiutare Rob, ed abbiano trascorso un po’ di tempo insieme, e quindi in ultima analisi, probabilmente a causa di uno shock ipotermico, sia caduto dalla montagna”.
Henderson ha incontrato la famiglia e gli amici di Harris, per approfondire le sue ricerche per il ruolo, e seppur conscio del peso di interpretare una persona reale, spera che il film riconosca una responsabilità più ampia. L’attore nota: “Il film che siamo riusciti a fare non è uno di quelli che punta il dito, ma un film che mostra un evento, un capitolo importante nell’evoluzione degli sforzi umani. Come tutte le specie, vogliamo sempre andare avanti. Ma in ogni sforzo umano, c’è un punto in cui qualcosa va storto, ed è da lì che dobbiamo imparare, anche se è una cosa tragica. Ma è anche così che ci evolviamo. Questo evento ha segnato un momento importante nella storia dell’Everest, e ha dato spunto alle persone su come evitare e prevenire questi eventi drammatici”.
Henderson ha accettato di sottoporsi alle sfide ed alle fatiche fisiche dell’arrampicata con Clarke in Scozia ed in Nuova Zelanda, per prepararsi al ruolo, e ha gradito l’opportunità di approfondire il mondo dell’alpinismo – apprezzandolo pienamente solo quando si è trovato sul lato di una montagna con Clarke. “Eravamo in piedi su una montagna in una situazione inquietante”, ricorda. “Non si riusciva a vedere il fondo, e quella sensazione di ansia e di terrore puro era molto travolgente. L’alpinismo ti fa percepire il senso di fervore e di terrore, ma non si può cedere alla paura per poter arrivare all’ obiettivo. Bisogna combattere costantemente con le proprie emozioni, al fine di rimanere lucidi e prendere le decisioni giuste”.
L’attore australiano THOMAS M. WRIGHT, conosciuto per il suo lavoro nella serie americana televisiva The Bridge, interpreta la guida della Adventure Consultants, Mike Groom, uno dei più “grandi” alpinisti di tutto il mondo. Nel 1995, Groom era la quarta persona ad aver scalato le quattro montagne più alte del mondo senza l’ausilio di bombole di ossigeno, e nel 1999 ha scalato con successo il Makalu, l’ultima delle “big-five” – la quinta montagna più alta al mondo.
Wright ha capito da cosa sono motivati gli scalatori, per gran merito dal rapporto istaurato con Groom. E dice: “John Hawkes ed io stavamo parlando dei motivi che ci hanno spinto a fare il film, quando David Breashears l’aveva già spigato, e molto bene, nel documentario Storm Over Everest. Penso che sia in virtù del fatto che con un lungometraggio, si possono portare le persone in quelle situazioni e far viver loro quelle emozioni. Si può dare loro l’impressione di cosa volesse significare rimanere intrappolati sulla Cima Sud, quella notte, in balia dei venti gelidi”.
L’attore coinvolto nella produzione a ritrarre Guy Cotter, è stato Sam Worthington, noto per il suo grande lavoro nel film Avatar di James Cameron. Ora, divenuto il CEO e leader della Adventure Consultants, dopo la morte di Hall, Cotter è una guida di grande esperienza che stava scalando la vicina vetta Pumori quando si è verificata la tragedia di quel fatidico giorno di Maggio del 1996. Fino a che la tempesta non si scatenasse, Cotter era regolarmente in contatto via radio e visivo con la squadra di Hall che si trovava sull’Everest.
Dato che Cotter ha partecipato al film in qualità di consulente chiave, Worthington ha potuto conoscerlo di persona. “Non volevo usarlo come la carta carbone”, dice l’artista. “Non volevo essere la copia conforme di Guy. Ma è stato utile capire quali fossero le sue sensazioni quel giorno, quali emozioni provasse un uomo, e quale è stato il suo approccio alla vita ed al suo lavoro. E’ un uomo estremamente valido. Crede nell’organizzazione”.
Worthington ha capito molto bene cosa spinge la gente a scalare queste montagne straordinariamente complesse. “Non sono così amante degli sport estremi come questi ragazzi”, osserva, “ma posso capire perché, quando la gente ha chiesto ad Hillary il motivo per cui volesse scalare l’Everest, ha risposto: ‘Perché è lì’.  E credo che siano in molti a pensarlo”.
Naturalmente, per Cotter rivivere gli eventi del 1996, è stato difficile. “Mi riporta a quei momenti, e dato che ormai sono passati 20 anni, pensavo di aver archiviato e superato quegli eventi”, riflette. “Ma è una storia talmente potente che vale la pena raccontare, perché descrive il comportamento delle persone in situazioni estreme, e come si rivelano quando vengono spinti al limite”.
Durante la pre-produzione, Cotter ha insegnato a tutti gli attori le tecniche di arrampicata, e ha lavorato soprattutto a stretto contatto con gli attori che interpretavano gli alpinisti esperti, affinché mostrassero al meglio le loro abilità sul grande schermo. E’ rimasto molto colpito da quanto il cast si sentisse responsabile per la produzione. E commenta: “Non sono mai stato coinvolto in un progetto come questo prima d’ora, dove ho visto degli attori totalmente calati nei personaggi… al punto che erano molto coinvolti nella sceneggiatura e preoccupati di ritrarre al meglio i personaggi interpretati. Tutti erano coscienti di dover interpretare persone realmente esistite, e non personaggi di fantasia”.
Per i ruoli di supporto, i realizzatori hanno scelto delle attrici eccezionali come Emily Watson, nei panni della manager del Campo Base, Helen Wilton; ed ELIZABETH DEBICKI, il medico del Campo Base, Caroline McKenzie. A ritrarre la moglie di Rob Hall, Jan Arnold, e la moglie di Beck, Peach Weathers, sono state scelte rispettivamente le famose interpreti Keira Knightley e Robin Wright.
Kormákur riguardo le due artiste afferma: “E’ fantastico poter fare un film sulla montagna dove si possono inserire anche delle figure femminili. Non è come quelle storie un po’ maschiliste dove le donne hanno un ruolo cuscinetto. In questo caso fanno parte della storia, e questa è la realtà. Il dramma che si stava verificando al Campo Base, ed al tempo stesso nelle case delle famiglie, è parte integrante della storia”.
Riguardo Kormákur invece, il cast era unanime nel credere che fosse l’uomo giusto per condurli alla vetta. “Mi piace lavorare con Balt,” loda Clarke. “Mi ha permesso di apportare la mia energia, e io sono ossessionato dall’ordine e dalla pianificazione. E’ stato sensazionale nel moderarmi e nel dirigermi. Ci ha fatto strada, con delle escursioni sull’ Himalaya: quindi è decisamente stata la persona giusta per realizzare tutto questo”.
Gyllenhaal fa eco all’encomio del suo co-protagonista: “Baltasar ama muoversi; ha voluto farci stare nell’ambiente naturale, e ci ha spinto in quella direzione. Mi piace questo atteggiamento nella realizzazione di un film; avvicinarsi il più possibile alla realtà è sempre affascinante. E’ implacabile, determinato, coraggioso e un po’ folle, a volte. Mostra coraggio, ma  allo stesso tempo è estremamente sensibile e comprensivo”.
Hawkes ritiene che il trascorso del regista lo rende una persona altamente qualificata per portare Everest sullo schermo. “Viene dall’ Islanda, ed ama la sfida”, riassume l’attore. “Scherzando l’abbiamo definito un Vichingo. E’ formidabile. E’ stato forte, tenace ed instancabile, durante tutto il difficile processo di una produzione cinematografica svolta in condizioni estreme”.

Un Viaggio Epico:
Dal Nepal a Pinewood (Passando dalle Alpi Italiane)

Naturalmente, tutte le riprese cinematografiche rappresentano sempre una sfida, ma il lavoro su Everest ha sfiorato lo sfinimento, dato che il cast e la troupe si sono imbarcati in una produzione epica che è diventata essa stessa una spedizione a tutti gli effetti. Con le unità di ripresa piazzate in luoghi lontani come il Nepal, le Alpi italiane, gli studi di Cinecittà di Roma ed i Pinewood Studios nel Regno Unito, le sfide della realizzazione di questa avventura epica hanno oltrepassato le aspettative.
La maggior parte degli spettatori conoscono l’Everest attraverso i documentari, quindi è stato fondamentale per Kormákur rimanere legato al principio di ‘cinéma vérité’. Il regista voleva che Everest fosse girato in maniera autentica in modo che il cast e la troupe, così come il pubblico, comprendessero l’immensità della montagna e fossero emotivamente coinvolti nelle storie di queste persone realmente esistite. A tal fine, non ha mai chiesto alla sua squadra di fare qualcosa che non aveva previsto, e tendeva a dirigere accanto alla telecamera – il più vicino possibile agli attori – invece di starsene seduto in una tenda di fronte ad un video.
Durante le riprese, il braccio destro di Kormákur è stato il direttore della fotografia Salvatore Totino, che ha collaborato con il regista Ron Howard nei suoi blockbuster Il Codice Da Vinci e Angeli e Demoni, e negli altri suoi lungometraggi Frost / NixonIl Duello, e Cinderella Man – Una Ragione per Lottare. Insieme, per questo film epico miravano a delle riprese che mostrassero la maestosità della montagna … ed il pericolo che era sempre in agguato.
A causa del compito titanico di spostare un’enorme quantità di attrezzature durante la produzione, Totino ha avuto non pochi problemi per trasportare il suo equipaggiamento nelle varie località. Inoltre, bisognava scampare il pericolo del congelamento della telecamera, fortunatamente superato grazie ad apposite coperture termiche.
La programmazione del film era ambiziosa, ed è iniziata il 14 Gennaio 2014, quando una piccola unità ha preso il volo per dare il via alle riprese principali a Kathmandu. Le scene sono state girate all’altezza di quasi 5000 metri (16.000 ft)., dando al cast il senso dell’intensità delle sfide della vita ad alta quota. “L’altitudine ti colpisce per davvero”, replica Clarke. “Ti incammini e ti ci ritrovi in mezzo; l’acclimatazione inizia già al Campo Base. Come attori, siamo stati benedetti, muovendoci dentro ed intorno l’Himalaya, e siamo diventati un gruppo molto unito”. Pur essendo più abituato a hotel a cinque stelle e roulotte di lusso, il cast di Everest -e la troupe – ha dovuto cogliere rapidamente la realtà della vita in montagna, camminando attraverso le colline pedemontane.
Kormákur descrive alcuni dei problemi che hanno riscontrato: “L’acqua era gelida; il nostro alloggio era privo di riscaldamento. Abbiamo dormito con delle coperte elettriche. Difficilmente ci si poteva alzare dal letto per andare in bagno dato il freddo che faceva. Il cast non aveva assistenti o aiuti. Hanno dovuto camminare molto per le riprese portandosi appresso tutta la loro attrezzatura”.
Brolin ricorda quei momenti: “Balt voleva che tutto fosse il più reale possibile. Abbiamo lavorato a qualunque ora ci fosse bisogno, perciò il tempo convenzionale della giornata di riprese – i tempi di chiamata, la sistemazione del trucco e così via – semplicemente non esisteva. Ricordo che quando ero a letto fuoriuscivano delle enormi nuvole di respiro, e stentavo a credere quanto freddo potessi sentire. Ma ci siamo prestati a tutto. Per quanto ci siamo lamentati, ci è comunque piaciuto, e ci siamo uniti moltissimo come gruppo”.
Breashears, che ha speso la sua vita a riprendere luoghi estremi, nota: “Ci siamo ritrovati tutti lì, non avendo mai lavorato insieme prima, eppure ci siamo immediatamente gettati in questo vortice di attività, fuori dal caos di Kathmandu tra le colline dell’Everest. Abbiamo dovuto affrontare e condividere le sfide di tutta la troupe, molti dei quali non erano mai stati a 15.000 ft (4572 m) e oltre di altitudine. Non potevamo permetterci il lusso di rallentare, come fanno i gruppi di trekking o di arrampicata, perché sentiamo la pressione di dover portare a termine la mole della nostra giornata lavorativa.
“Ci sono stati dai 190 ai 200 singoli atterraggi per sistemarci sul monte Everest, per spostare la troupe e gli enormi carichi di attrezzi per le riprese, posizionandone alcuni a distanza sulla montagna”, continua. “Così facendo, per evitare lunghe camminate a piedi, posizionare tutte le attrezzature è stato molto più difficile. Ha totalmente eclissato qualsiasi altro sforzo logistico in cui sono stato coinvolto nell’ Himalaya”.
Il produttore Kentish Barnes riassume l’esperienza della troupe: “E’ stata un’esperienza brutale ma fantastica in termini di unione della squadra”.
Dal Nepal, l’unità di riprese si trasferì in Val Senales, nell’Italia settentrionale, per effettuare delle riprese esclusivamente sul ghiacciaio della Val Senales, con una squadra di circa 180 membri provenienti dal Regno Unito, dalla Nuova Zelanda, dall’Australia, dalla Germania, dall’Italia, dagli Stati Uniti, dall’Islanda e dal Nepal. Una scena si è resa ancora più impegnativa del dovuto, quando la produzione è stata colpita da una delle nevicate più intense della storia, che ha sepolto il set sotto metri di neve.
Spiega lo scenografo Gary Freeman: “Stavamo montando delle tende su una montagna con una pendenza di 45 gradi. Siccome Balt ama gli ambienti estremi, ci siamo tornati dopo due giorni e le tende erano sparite, sommerse dalla neve fitta. La mia squadra ha fatto un lavoro incredibile, hanno dovuto scavare per tirare fuori il set e ricostruirlo daccapo”.
Oltre all’allarme valanghe, che ha stravolto la tabella di marcia della produzione, il ghiacciaio del Senales è stato anche chiuso per alcuni giorni. Una volta riaperto, il cast, la troupe e le attrezzature sono stati trasportati in loco con l’ausilio di gatto delle nevi, snow quad, motoslitte ed elicottero fino alle pendici, mentre altre persone hanno scelto di salire in funivie e seggiovie.
Breashears ricorda quei giorni complessi: “E’ stata un’occasione unica per gli attori di imparare che cosa voglia dire trovarsi in un ambiente freddo e ventoso ad alta quota. Erano esposti per otto o nove ore al giorno, a volte anche 10 e, occasionalmente, abbiamo lavorato nel buio”.
Il Sud Tirolo delle Alpi italiane ha fornito un paesaggio fantastico e drammatico, perfetto per riprodurre l’Everest, anche se ha costretto il cast e la troupe ad affrontare delle sfide estreme, tra cui il lavorare ad alta quota con temperature che arrivavano a -30° e vento gelido.
Gyllenhaal ci racconta questa esperienza: “Guardare la troupe a 12.000 ft (3657 m) di altezza sulla montagna sotto una tempesta di neve, mentre spostavano i macchinari, gli Sherpa che trasportavano dei grandi ventilatori sulla schiena, le macchine da presa appese agli elicotteri, e tutti noi che trasportavamo in cima le nostre cose – ripassando i dialoghi 15 minuti prima di una ripresa, e posizionando le telecamere su rocce differenti per le diverse angolazioni – ebbene  l’organizzazione di tutto ciò, insieme all’intensità di girare questo film, sono assolutamente straordinarie”.
Per contribuire a dare autenticità, la produzione ha selezionato 11 veri scalatori Sherpa per il film. Di fatto, hanno lasciato per la prima volta il loro paese di origine, il Nepal per raggiungere le Alpi italiane e, infine, gli studi di Cinecittà ed i Pinewood studios. Breashears descrive la loro reazione di fronte alla riproduzione del Campo Base negli studi: “Erano sbalorditi. Il fatto che gli Sherpa si sentissero come se fossero realmente al Campo Base, la dice lunga sulla riuscita del lavoro svolto”.
Il produttore Bevan riflette sul contributo degli Sherpa alla produzione: “Semmai la montagna dovesse appartenere a qualcuno, appartiene a loro. Sono parte integrante della mitologia dell’Everest e, soprattutto, della scalata dell’Everest. Sono anche i nostri eroi non celebrati, perché svolgono i lavori più pesanti”.
Gli Sherpa hanno contribuito a completare la progettazione dei set, allestendo la cucina come avrebbero fatto al vero Campo Base. L’hanno addirittura utilizzata per prepararsi da mangiare, quando la produzione lavorava fino a tardi e la stanchezza li assaliva. Non era insolito vederli cucinare il dal bhat, il piatto tipico Sherpa composto da uno stufato di lenticchie con il riso.
Da lì la produzione si è spostata ai Pinewood Studios di Londra, dove il team di progettazione ha ricreato molti luoghi familiari delle facciate dell’Everest, compreso la cascata di ghiaccio Khumbu, il Colle Sud, e la cima, al famoso 007 Stage. Girare questi filmati in un ambiente controllato era essenziale, e ha permesso a Kormákur di ottenere le riprese che voleva senza mettere nessuno degli attori o dei membri della troupe, in pericolo.
Creare i costumi per il cast non era così semplice. Gli eventi della storia si sono verificati quasi 20 anni fa, e la tecnologia si è evoluta rapidamente nel settore dell’abbigliamento dell’ alpinismo.
Il costumista Guy Speranza descrive tre modelli: un abbigliamento casual; uno adatto da indossare tanto al Campo Base quanto al Campo 3 (24.500 ft / 7468 m), l’uniforme con attrezzatura per la cima, che implica degli abiti più pesanti. “Questa è stata la nostra sfida più grande”, osserva Speranza. “Abbiamo dovuto trovare delle tute termiche dell’epoca in grandi quantità, perché nel film ci sono molte acrobazie e teatri di posa, che coinvolgono molti singoli personaggi”.
Un altro fattore da tenere in considerazione era il calore: o meglio, il surriscaldamento. Mentre molte scene sono state girate in esterni ed in quota, lo 007 Stage ai Pinewood Studios è servito come controfigura per le scene ad alta quota (cioè, il punto più alto della cascata di ghiaccio Khumbu, il Colle Sud e la vetta). Le tute termiche adatte a 29.000 ft. (8839 m) sarebbero state troppo calde per gli attori da indossare nei teatri di posa a temperatura ambiente. “Alla fine, le abbiamo praticamente create noi”, dice Speranza. “Abbiamo abbinato un colore ad ogni attore, per renderlo riconoscibile anche quando indossavano le maschere di ossigeno, gli occhiali ed i  cappelli”.

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