Hannah (2017)

Hannah
Locandina Hannah
Hannah è un film del 2017 prodotto in Italia e Francia, di genere Drammatico diretto da Andrea Pallaoro. Il film dura circa 95 minuti. Il cast include Charlotte Rampling, André Wilms, Jean-Michel Balthazar, Luca Avallone, Stéphanie Van Vyve, Simon Bisschop.

Hannah è il ritratto intimo di una donna che perde la sua identità e non riesce ad accettare la realtà che la circonda. Rimasta sola, alle prese con le conseguenze dell’arresto del marito, Hannah inizia a sgretolarsi. Attraverso l’esplorazione della sua identità frantumata e della perdita di autocontrollo, il film indaga l’alienazione della modernità, la difficoltà di avere relazioni, il confine tra identità individuale, rapporti umani e pressioni sociali.

Info Tecniche e Distribuzione

Genere: Drammatico
Nazione: Italia, Francia, Belgio - 2017
Durata: 95 minuti
Formato: Colore
Produzione: Partner Media Investment, To Be Continued, Lorand Entertainment, Rai Cinema (in associazione con), Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MiBAC) (con il supporto di), Regione Lazio (con il supporto di), Centre du Cinéma et de l'Audiovisuel de la Fédération Wallonie-Bruxelles (con il supporto di), Fonds Eurimages du Conseil de l'Europe (con il supporto di), Solo Five Productions
Distribuzione: I Wonder Pictures

COMMENTO DEL REGISTA

HANNAH esplora il tormento interiore di una donna intrappolata dalle proprie scelte di vita, paralizzata da insicurezze e dipendenze, dal suo stesso senso di lealtà e devozione. La disperazione di Hannah mi tocca profondamente, forse perché sono consapevole di quanto il mondo possa essere spietato nei suoi confronti, o forse perché in lei riconosco alcune parti di me stesso. Ciò che so per certo è che con questo film ho voluto sentirmi vicino a lei, tenerle la mano, incoraggiarla, rassicurarla. Più di ogni altra cosa ho voluto che il mondo la vedesse, percepisse il suo dolore e che assistesse al suo sforzo di ridefinirsi e riconoscersi, da sola, prima di scomparire.

Il film nasce dalla convinzione che l'osservazione intima di un singolo personaggio, o persino di un singolo stato d'animo, possa riflettere la nostra condizione di essere umani e permettere a chiunque di "specchiarsi" nel personaggio e nella storia. È questa la catarsi a cui aspiro: dare allo spettatore l'opportunità di riconoscersi, e magari di capire qualcosa in più di sé stesso. Inoltre, HANNAH prosegue una sorta di indagine sul confine tra l'identità individuale e quella sociale (in questo caso di coppia): una ricerca che credo faccia parte di uno studio più ampio, un mio interesse personale che già si affacciava in Medeas, dove la tragedia nasceva dall'impossibilità del protagonista, un padre, di affermare il proprio bisogno di controllo, e quindi il ruolo in cui si auto-identificava all'interno della famiglia. È da questo tipo di fratture, dovuto a pressioni interpersonali o autoimposte, che nascono i grandi conflitti. Rispetto a Medeas, in HANNAH il conflitto è ancora più interiore, e culmina nel momento in cui la protagonista sente venir meno la propria identità e quella del mondo che la circonda.

Fin dalla sceneggiatura, già dalla prima parola che ho scritto insieme a Orlando Tirado, ho sempre avuto in mente Charlotte Rampling: è stata lei la mia musa, ma pensare che avrebbe accettato di girare il film era un sogno. La prima volta che ho visto Charlotte al cinema avrò avuto 14 anni, e fu un colpo di fulmine: La caduta degli dei di Luchino Visconti, quello sguardo pronto a trafiggerti…

Le ho fatto avere una copia di Medeas e la sceneggiatura di HANNAH, quindi ci siamo incontrati a Parigi. Un incontro in cui ci siamo "riconosciuti": lavorare con lei, accanto a un'artista che cerca la verità con l'integrità di Charlotte, è stata un'esperienza di grandissima ispirazione per me.

La balena spiaggiata che vediamo nel film non è solo una metafora: infatti più che simboleggiare, evoca. È il riflesso di qualcosa che sta per morire, o forse è già morto. Eppure, nonostante il mondo intorno a lei ne parli, anche quando infine la vede con i propri occhi, non siamo mai certi se Hannah si riconosca nella balena, se quella consapevolezza le appartenga davvero: d'altronde, la risposta all'arresto del marito è un crollo emotivo e psicologico il cui effetto è proprio la perdita di ogni consapevolezza, l'avvilupparsi in una spirale in cui la vediamo barcollare, e poi scivolare, fino a non riconoscersi più, fino a perdere la propria identità.

Ho scelto di non "esplicitare" il reato di cui è accusato il marito di Hannah, perché non volevo che distogliesse l'attenzione dal cuore del film: il suo allontanamento, l'arresto, sono infatti il catalizzatore che costringe Hannah a fare i conti con sé stessa. Credo sia fondamentale che si percepisca la gravità dell'accusa, ma è altrettanto importante che il centro del racconto resti il mondo interiore della protagonista, il suo disorientamento e la sua disperazione, senza la distrazione fuorviante che una maggiore attenzione al reato avrebbe portato con sé.

La scelta di girare in 35mm, come già per Medeas, nasce dal mio desiderio di instaurare un rapporto "sensoriale" con lo spettatore: la pellicola possiede una fisicità che il digitale non ha,

almeno per ora. Con il direttore della fotografia, Chayse Irvin, abbiamo cercato di riflettere il dialogo costante che c'è tra Hannah e il mondo circostante, prestando molta attenzione al concetto stesso di spazio, in un gioco dialettico tra interno ed esterno, fisico e psicologico, dove elementi come i corridoi e gli specchi – e soprattutto il fuoricampo – acquistano un ruolo fondamentale. Credo che tutti gli elementi del film, dalla sceneggiatura alla fotografia al montaggio, cerchino di andare in un'unica direzione condivisa: un lavoro di sottrazione che "ecciti" l'immaginazione dello spettatore nascondendo piuttosto che mostrando.

Se devo pensare a dei modelli, penso ad alcuni nomi che con i loro film ci interrogano, non danno risposte ma fanno domande: in primis Antonioni, ma anche Buñuel, Haneke, Fassbinder, Lucrecia Martel, Chantal Akerman, Carlos Reygadas, Tsai Ming-liang, John Cassavetes, Michelangelo Frammartino, Bela Tarr. Autori dal linguaggio molto personale, attenti a mettere in luce la verità della condizione umana, che con il loro cinema mi hanno permesso di conoscere meglio me stesso e il mondo. Senza contare che ad alcuni tra questi registi dobbiamo alcuni dei ritratti femminili più complessi e affascinanti della storia del cinema: penso a Monica Vitti nell'Avventura o in Deserto rosso, a Gena Rowlands in Una moglie, a Delphine Seyrig in Jeanne Dielman.

Probabilmente possono sembrare nomi poco "mainstream" per un regista italiano che ha scelto di vivere negli Stati Uniti: ma vivo a Los Angeles non per una fascinazione nei confronti del cinema americano, ma per quel senso di libertà che mi trasmette, al pari di New York. E poi con gli anni mi rendo sempre più conto di quanto a mio agio mi senta nella condizione di "straniero": una condizione in cui mi riconosco sempre di più.

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