Locandina A Testa Alta

A Testa Alta (2015)

La tete haute
Locandina A Testa Alta
A Testa Alta (La tete haute) è un film del 2015 prodotto in Francia, di genere Drammatico diretto da Emmanuelle Bercot. Il film dura circa 120 minuti. Il cast include Catherine Deneuve, Benoît Magimel, Sara Forestier, Ludovic Berthillot, Marie Piémontèse, Diane Rouxel. In Italia, esce al cinema giovedì 19 Novembre 2015 distribuito da Officine Ubu. Disponibile in homevideo in DVD da giovedì 26 Maggio 2016.

Malony, abbandonato dalla madre all’età di sei anni, entra ed esce ininterrottamente dalle aule del tribunale dei minori, ma allo stesso tempo, intorno a questo giovane problematico, cresce una sorta di famiglia adottiva, formata da Florence, una giudice sulla soglia del pensionamento specializzata nei casi riguardanti i minorenni, e Yann, un assistente sociale che è a sua volta sopravvissuto a un’infanzia molto difficile. I due adulti seguono il percorso del ragazzo e cercano in tutti i modi di salvarlo dalla perdizione. Malony viene poi mandato in un centro educativo molto rigido, dove fa la conoscenza di Tess, una ragazza veramente speciale, dalla quale il giovane vedrà sprigionarsi un nuovo barlume di speranza.

Info Tecniche e Distribuzione

Uscita al Cinema in Italia: giovedì 19 Novembre 2015
Uscita in Italia: 19/11/2015
Genere: Drammatico
Nazione: Francia - 2015
Durata: 120 minuti
Formato: Colore
Produzione: France 2 Cinéma, Les Films du Kiosque
Distribuzione: Officine Ubu
Note:
Film d'apertura del Festival di Cannes 2015, dove viene presentato Fuori Concorso. Presentato in Concorso a Giffoni Experience 2015.
In HomeVideo: in DVD da giovedì 26 Maggio 2016 [scopri DVD e Blu-ray]

NEWS E ARTICOLI

Immagini

[Schermo Intero]

Dichiarazioni della regista

“La mia idea di partenza era quella di fare un film sul sistema di assistenza che ruota attorno all’infanzia, ma quando ho avuto quell’idea sapevo poco di questo tipo di lavoro. Sono stati gli anni di ricerca da me compiuta prima di girare questo film che mi hanno permesso di capire quanta tensione vivano coloro che lavorano in questo ambiente, quanta abnegazione, quanta pazienza e quanta capacità di non arrendersi infondano nel loro compito. In realtà, il vero punto di partenza del film è radicato in circostanze molto precise. Ho uno zio che è un educatore e, quando ero piccola, gli feci visita un’estate in Bretagna, dove si occupava di un campo per giovani delinquenti. Uno di loro era addirittura un bambino. Da bimba proveniente da un ambiente benestante, abbiente e decoroso, ero affascinata dal comportamento di questi ragazzi che non erano stati fortunati come me, ero incuriosita dalla loro insolenza, dalla loro ribellione contro l’autorità e contro le convenzioni sociali. Allo stesso tempo, ero catturata dal lavoro svolto da mio zio e dagli altri educatori per rimettere i ragazzi sulla strada giusta, come si usa dire, per educarli, per insegnare loro ad amare se stessi e ad amare gli altri, per mostrare rispetto verso gli altri ma, prima di tutto, per avere rispetto verso se stessi. Questo ricordo è rimasto sempre molto presente nella mia mente, tanto che da ragazza volevo diventare un giudice minorile, e ho finito per farne un film.

“La prima cosa che ho fatto è stata quella di passare del tempo con mio zio. Gli ho chiesto di parlarmi della sua esperienza di educatore. Lui mi ha presentato a un altro educatore e a un giudice minorile di Valencia. Ho avuto così l’opportunità di assistere alle udienze in tribunale, ho trascorso del tempo in un centro di detenzione minorile, ho letto tantissimi libri sul tema, ho visto tutti i servizi giornalistici e i documentari sulla questione che sono riuscita a trovare, e ho preso molti appunti. Questo approccio iniziale è stato profondamente sconvolgente e terrificante. Come non provare compassione e comprensione per questi ragazzi che sono stati danneggiati da terribili drammi familiari, dalla povertà e spesso dall’abdicazione dei genitori alle proprie responsabilità, e poi da carenze del sistema scolastico, e dalla devastante assenza d’amore che li abbandona a loro stessi, senza valori, senza speranza, senza prospettive per il futuro, alla deriva, trascinati in una spirale che solo gli educatori e i giudici possono contribuire a fermare? E come si può non ammirare l’energia, la dedizione e la pazienza che gli educatori e i giudici mettono nel cercare di tirare questi giovani fuori dal baratro, a tutti i costi, nonostante gli ostacoli, l’ingratitudine, la crudeltà e i loro miseri stipendi, per offrire semplicemente a questi ragazzi l’attenzione di cui hanno disperatamente bisogno? “Come si può salvare la società se non attraverso l’educazione, nel senso più largo del termine? La giustizia minorile si basa sull’idea che niente sia già stato totalmente scritto per un ragazzo, e che attraverso i programmi di educazione e di sostegno si possa arrestare il crollo. Come si può fare tutto questo senza arrendersi, dal momento che i risultati, se si raggiungono, sono lenti da ottenere? Il film parla proprio di questo. “Mio zio è stato molto legato a un giovane delinquente di cui si era occupato per diversi anni, insieme a un giudice minorile, una donna, che stava per andare in pensione. Mi sono ispirata direttamente a quella storia. Il ragazzo si era attaccato tanto a mio zio quanto al giudice. Mio zio mi ha raccontato di aver detto un giorno al giudice: ‘Per lui, tu sei sua madre e io sono suo padre’. Lei ha risposto: ‘No, tu sei sua madre e io sono suo padre’. Da allora ho deciso che il giudice del mio film sarebbe stato una donna e che doveva essere Catherine Deneuve, che ha interpretato il ruolo. “Il contributo della sceneggiatrice Marcia Romano ha reso il film ciò che è oggi. Ero molto legata a questa idea del trio di personaggi – l’educatore, il giudice e il delinquente – ma in un primo momento avevo immaginato una trama più romantica, più fittizia, più frammentata. Nella mia mente, il film doveva anche seguire il ragazzo nei suoi reati. Marcia Romano mi ha convinto a lasciarli fuori dal film, fondando la struttura narrativa su una concezione radicale, ponendo il massimo dell’attenzione sul processo educativo, mantenendo il più possibile tutto all’interno delle varie istituzioni di assistenza che un delinquente minorenne incontra lungo la sua strada. Così l’azione si svolge perlopiù in interni, in casa, negli uffici. È così che il film ha trovato la sua giusta direzione e quel che lo ha reso ciò che è oggi. Tutto questo ha naturalmente sollevato altri problemi di drammatizzazione, e altre sfide, perché, nel cercare di non annoiare gli spettatori, era importante trasmettere la tensione di questi incontri faccia a faccia, di queste udienze nel corso delle quali la bilancia può pendere ogni volta da una parte o dall’altra. Questo ha reso tutto ancora più emozionante”.

intervista a EMMANUELLE BERCOT

Dopo aver visto il film, il primo pensiero va agli assistenti sociali e ai giudici minorili il cui lavoro scrupoloso, la cui perseveranza, pazienza, devozione e abnegazione suscitano grande ammirazione. È molto diffuso oggi puntare il dito contro i fallimenti delle istituzioni e i difetti e limiti del sistema giudiziario, tu invece fai esattamente il contrario. È stato questo il motivo che ti ha spinto a girare A testa alta cioè rendere omaggio a queste figure professionali che operano lontano dai riflettori?
Sì e… no! La mia idea iniziale era realizzare un film sul sistema di sostegno che ruota intorno ai bambini, ma quando ho avuto quest’ idea conoscevo molto poco quel mondo. Sono stati gli anni di ricerca che ho condotto prima di iniziare le riprese che mi hanno permesso di capire quanto questi operatori fossero motivati, di conoscere la loro abnegazione, pazienza e capacità di non mollare mai. In verità, il punto di partenza del film ha radici molto specifiche. Ho uno zio assistente sociale e da bambina ero andata a trovarlo in Bretagna dove era responsabile di un campo estivo per giovani delinquenti. Uno di loro era un bambino. Da ragazza di buona famiglia, sempre protetta e incoraggiata, ero affascinata dal comportamento di questi adolescenti che non avevano avuto la mia stessa fortuna, ero attratta dalla loro insolenza, dal loro atteggiamento ribelle nei confronti dell’autorità e delle convenzioni sociali. Allo stesso tempo ammiravo il lavoro di mio zio e degli altri assistenti sociali per rimetterli in carreggiata, educarli, insegnar loro ad amare se stessi e gli altri, portare rispettare ai propri simili, ma soprattutto a se stessi. Il ricordo è rimasto in me così presente che da adolescente volevo diventare un giudice minorile. Alla fine questo ricordo mi ha spinto a fare un film sull’argomento. Quando François Kraus e Denis Pineau-Valencienne di Les Films du Kiosque, con i quali avevo fatto Mes Chères Etudes per Canal +, mi dissero nel 2009 che avrebbero voluto lavorare ancora con me, gli ho parlato di questo progetto che mi portavo dentro da tanto tempo, e loro vi hanno immediatamente aderito.

Qual è stato il tuo approccio? Da quale punto di vista sei partita?
Per prima cosa ho passato del tempo con mio zio. Gli ho chiesto di parlarmi della sua esperienza. Mi ha fatto conoscere altri assistenti sociali e un giudice minorile di Valence. Ho avuto l’opportunità di osservare le udienze, ho trascorso del tempo in un centro di detenzione minorile, e ho letto un’enorme quantità di libri e guardato ogni film o documentario trovassi sull’argomento, prendendo molti appunti. Questo approccio iniziale era molto sconvolgente e terrificante. Come si può non provare compassione e comprensione per questi bambini rovinati da terribili drammi famigliari, dalla povertà e spesso dalla mancanza di responsabilità dei genitori, cui fa seguito il fallimento del sistema scolastico, e una devastante mancanza di affetto che li ha lasciati in balia di se stessi, senza valori né prospettive per il futuro, alla deriva, presi in una spirale che solo gli assistenti sociali e i giudici possono tentare di arrestare? Come si può non ammirare l’energia, la devozione, la pazienza che questi giudici e assistenti sociali dispiegano per rimettere in carreggiata questi ragazzi, ad ogni costo, nonostante tutti gli ostacoli, l’ingratitudine, la crudeltà, i loro bassi salari, offrendo in pratica a questi ragazzi quell’attenzione di cui tanto acutamente soffrono la mancanza?
La sceneggiatura inizia con questa epigrafe: “Tutti i bambini hanno diritto a un’educazione. Questa dovrebbe essere gestita dalla famiglia, e se la famiglia è carente, allora la società ha il dovere di intervenire”.
Ho letto quella frase in un libro scritto da un giudice. Evidenzia perfettamente l’argomento del film. La ritengo folgorante. Certe cose dovrebbero essere ovvie, ma, sfortunatamente, non sono sicura che sia una cosa scontata per tutti. Nonostante l’educazione sia un diritto fondamentale. Tornando alla frase, riassume il cuore del lavoro a favore di questi giovani. È un compito essenziale, vitale. Come si può salvare una società se non attraverso l’educazione, nella più ampia concezione del termine?  La giustizia minorile poggia sull’idea che nulla sia del tutto scolpito nella pietra per un bambino e che attraverso i programmi educativi e di sostegno, la discesa senza fine possa essere fermata. Com’è possibile mettere in pratica tutto ciò, senza arrendersi – perché i risultati, se arrivano, ci mettono molto tempo ad essere raggiunti? Questo è il senso del film.

Così hai scelto di seguire un terzetto – un giovane delinquente, il suo assistente sociale e il suo giudice. La scelta di un giudice donna è venuta dal desiderio di dirigere di nuovo Catherine Deneuve dopo Elle s’en va?
L’idea del film mi è venuta prima di Elle s’en va, ma avevo già in mente Catherine Deneuve per il ruolo del giudice minorile. Oppure… Gerard Depardieu! Nessun altro. Per questo personaggio avevo bisogno di una figura attoriale per antonomasia. Mio zio si era molto affezionato a un giovane criminale che aveva seguito per molti anni, insieme a un giudice minorile, una donna, ormai vicina alla pensione. Mi sono ispirata a questa storia in maniera diretta. Il ragazzo si era molto attaccato a mio zio e al giudice. Mio zio mi ha raccontato di aver detto un giorno al giudice: “Per lui, tu sei sua madre ed io suo padre”. Lei aveva risposto: “No, tu sei sua madre ed io sono suo padre”. Da quel momento ho deciso che il giudice nel mio film sarebbe stata una donna e doveva essere Catherine Deneuve a recitare quella parte. È stato solo dopo questa prima fase di ricerca documentaria che ho contattato Marcia Romano per scrivere insieme a lei la sceneggiatura.

Perché lei?
Abbiamo frequentato la stessa scuola di cinema (La Fémis a Parigi), ma non eravamo nello stesso anno. All’epoca, avevo già notato il suo grande talento, ed è stato con lei che ho scritto il mio primo cortometraggio: Les Vacances.  Dopo questa esperienza ci siamo perse di vista per dieci anni finché non mi ha scritto lei dopo aver visto un mio film per la televisione, dicendomi che voleva lavorare ancora con me. Avevo in mente questo progetto e pensavo fosse la persona giusta. È una donna che ha molte convinzioni e le difende con le unghie e con i denti. Ha anche un approccio piuttosto radicale al cinema. Il suo contributo ha reso il film quello che è oggi. Ero molto legata a questa idea del terzetto – l’assistente sociale, il giudice e il giovane criminale – ma inizialmente immaginavo una storia più romantica, più di finzione e più frammentata. Nella mia testa il film seguiva il ragazzo anche nei suoi crimini e nelle sue malefatte. Lei mi ha convinto a lasciarli fuori e a sviluppare la storia in una struttura radicale, concentrandomi principalmente sul processo educativo, e mantenendo lo sguardo all’interno delle varie istituzioni di sostegno che un delinquente minorile incontra nel suo percorso. Così l’azione ha luogo soprattutto in interni, negli uffici. È così che il film ha preso la sua direzione e lo ha reso quello che è. Naturalmente questo ha fatto sorgere problemi di drammatizzazione e sfide di altro tipo, perché per non annoiare lo spettatore era fondamentale trasmettere le tensioni degli incontri faccia a faccia, delle udienze nel corso delle quali, ogni volta, l’ago della bilancia può pendere da un lato o dall’altro. Ciò ha reso tutto molto più emozionante.

Qual è stata la parte più difficile della fase di scrittura?
Di tutte le fasi della realizzazione di un film, trovo che quella di scrittura sia la più difficile. Per questo film è stata più complicata del solito. Non credo di aver mai lavorato così sodo per un film! O così a lungo. Mi ci sono voluti anni! La cosa forse più difficile è che a volte ho idee puramente intuitive e ci rimango aggrappata ad ogni costo. Ad esempio, volevo che il giovane delinquente avesse un figlio alla fine. Questo non poteva accadere in un film puramente documentaristico. Abbiamo dovuto aggiungere un elemento romantico, di finzione.

Perché questa idea era così importante per te?
Non lo so! Una sorta d’intuizione, una convinzione profonda. Forse perché c’è qualcosa di bello nel raccontare la storia di un bambino non amato dalla madre, che non ha ricevuto educazione e attenzioni, e che all’improvviso si deve assumere la responsabilità di amare e crescere un bambino. Volevo ottenere questo effetto di rispecchiamento. Questa parte più romantica del film era anche un modo per raccontare quanto mi hanno detto gli assistenti sociali: il 95% delle volte, innamorarsi è lo stimolo che spinge i giovani a farcela. Questi ragazzi non hanno stima di se stessi. Hanno problemi ad amare e a farsi amare, è dura per loro, ma quando capita, salva la vita.

Come hai lavorato con Marcia Romano?
Per prima cosa ho radunato tutto il materiale che avevo accumulato. Poi abbiamo lavorato insieme nel solito modo: ci siamo incontrate spesso, in modo regolare, abbiamo parlato, scambiato idee, costruito la linea narrativa e delineato i personaggi. Mentre ero via per girare Elle s’en va, Marcia ha fatto esperienza per diverse settimane presso il Tribunale dei Minori di Parigi dove ha assistito a molte udienze – sia per questioni di delinquenza che per misure di sostegno ai minori – negli uffici dei vari giudici e in aula. Ha incontrato anche gli assistenti sociali e li ha accompagnati in una serie di visite presso varie strutture per minori.
Ci siamo sforzate si rendere tutto convincente e accurato, che è poi la mia principale preoccupazione quando si tratta di un’opera di finzione. Ho poi abbozzato e scritto i dialoghi per la prima versione. Il giudice Thierry Baranger, presidente del Tribunale dei Minori di Parigi, ci ha aperto le porte della sua aula. Ha poi accettato di farci da consulente per la sceneggiatura in modo che tutto fosse credibile, coerente e realistico. Io stessa ho fatto esperienza per un mese presso il Tribunale dei Minori di Parigi con vari giudici, osservando da vicino cosa avviene fisicamente, concretamente nell’ufficio di un giudice e nell’aula di un tribunale. Naturalmente, ciò mi ha consentito di arricchire la sceneggiatura, di delineare meglio alcuni personaggi e situazioni, sempre seguendo la struttura narrativa già sviluppata. Se avessi fatto questa esperienza prima di aver definito la storia e il personaggio, avrei cercato di inserire tutte le scene incredibili di cui sono stata testimone.

Come hai trovato Rod Paradot, che interpreta il giovane delinquente, Malony?
È stata Elsa Pharaon, una nota direttrice casting di strada, che lo ha trovato a Stains, in una scuola professionale dove stava studiando per il suo diploma in falegnameria. Ma è stato dopo una lunga ricerca. Un sacco di gente ha lavorato con i ragazzi. Marcia e io avevamo deliberatamente scelto di non stigmatizzare il personaggio del giovane delinquente e di andare contro i soliti cliché. Non volevo che il ragazzo fosse stereotipato, un drogato, o uno spacciatore, o un figlio d’immigrati. O un ragazzo che fosse membro di una gang. Poi volevamo che la storia fosse ambientata in una città di provincia invece che in una periferia degradata. Naturalmente ho visto tutti i provini fatti da Elsa, ma alla fine ho incontrato di persona solo un numero abbastanza esiguo di ragazzi, perché pochi corrispondevano a quello che cercavo. Siamo incorsi anche in un’altra difficoltà: il film segue il personaggio dai 13 ai 17 anni e non avevo intenzione di cambiare l’attore a metà strada. Dovevamo trovare qualcuno che fosse credibile a 13 come a 17. Rod, anche se durante le riprese aveva 18 anni, aveva questa caratteristica. Ha una faccia così pulita che è quasi da bambino. Aveva anche le intonazioni di accento di un “uomo comune” che per me era essenziale.

Come hai lavorato con lui sul set?
Intensamente! Malony non è un personaggio semplice. È stato il più difficile da scrivere. A volte ti viene voglia di schiaffeggiare quel ragazzo! Ma volevo che il pubblico finisse per amarlo, che capisse le sue debolezze, le sue ferite, le sue sofferenze. Ho cercato di fargli sentire gli stessi sentimenti contrastanti che il giudice e l’assistente sociale sentono nei suoi confronti continuamente in bilico tra fiducia e scoraggiamento, empatia e rifiuto, piuttosto che cavalcare l’onda facile della storia di redenzione. Non è stato semplice trovare un equilibrio tra l’esasperazione che Malony avrebbe dovuto suscitare all’inizio e la necessità di far piacere il personaggio dopo un po’. Non è neppure un personaggio facile da interpretare, specialmente per chi non ha mai recitato e il cui temperamento è tutta un’altra cosa rispetto a quello del personaggio. Per questo, sapendo di avere poco tempo sul set, ho fatto lavorare Rod con un istruttore, Daniel Marchaudon, per due mesi prima dell’inizio delle riprese. E’ arrivato sul set sapendo le battute alla perfezione, cosa non facile per un ragazzo che non è abituato a quel tipo di lavoro. Gli parlavo ogni mattina, spiegandogli cosa dovevano trasmettere le scene, come e perché il personaggio si trovava in questa o quella situazione. Ma il vero lavoro è stato durante le riprese. La cosa più difficile è stato mettere in scena la violenza di Malony, perché nella vita reale Rod è un ragazzo molto gentile, calmo, educato e piacevole. Il risultato è un personaggio che non è esattamente come era stato immaginato all’inizio, ma allo stesso tempo la rabbia e il dolore che Rod esprime così bene nei suoi scatti di violenza erano ancora più potenti e inquietanti. A volte, il caso e le contingenze ti portano verso qualcosa di diverso che si rivela migliore di quanto avresti immaginato. Devo dire che non ho mai mollato. L’ho spronato fino a quando non è riuscito a tirare fuori quello che volevo. A volte, è stato molto difficile per lui. Ma è sempre stato desideroso di fare le cose al meglio. Poi c’è la sua presenza scenica. Quella è assolutamente naturale.

Quando hai parlato con Catherine Deneuve di A testa alta?
Mentre eravamo impegnate nella promozione di Elle s’en va. Una sera, ho semplicemente detto, “Ora”. E le ho dato una sceneggiatura di cui non le avevo mai parlato. Credo che fosse sorpresa, ma mi sembrava contenta che io desiderassi lavorare ancora con lei così presto. Noi due andiamo veramente molto d’accordo. Nella vita, siamo molto legate. E lo stesso vale quando lavoriamo insieme. Adoro quella donna! Penso che in questo ruolo sia eccezionale. Lei stessa ha questo doppio lato: ha una naturale e indiscutibile autorità ed è allo stesso tempo molto sensibile e protettiva. Ha un lato molto materno. Avevo bisogno di questo insieme nel giudice, e Catherine la interpreta perfettamente. Ma non è stato facile per lei. C’erano molte battute, con un vocabolario molto specialistico, fattuale e preciso. Inoltre, doveva rimanere seduta per la maggior parte del tempo. Proprio il contrario di Elle s’en va in cui l’ho filmata in maniera completamente libera. Il giudice per me è praticamente il personaggio principale del film. È il personaggio centrale attorno al quale ruotano gli altri. Per di più, quando Catherine è arrivata sul set – stavamo girando già da tre settimane – ho avuto la sensazione che le vere riprese iniziassero allora!

Per quale motivo hai pensato a Benoît Magimel per il ruolo dell’assistente sociale?
È da molto che lo apprezzo come attore. L’ho visto per la prima volta in La vita è un lungo fiume tranquillo dove l’ho trovato fantastico, e non l’ho mai perso di vista. È davvero uno dei miei attori francesi preferiti. È semplicemente un grande attore. Ha qualcosa che pochi attori francesi hanno: un certo modo di usare il suo corpo, un lato molto fisico. Provo un grande affetto per lui come uomo. E mi piacciono i suoi sguardi, la sua virilità, e l’intensità e l’emozione che emana, quel suo lato da “uomo ferito”. E così l’ho filmato con amore. Devo dire che uno dei piaceri dell’essere regista è filmare corpi e volti, e lui mi ha ispirato molto. Ho pensato a lui quasi dall’inizio, ma poi sono tornata sui miei passi perché pensavo fosse meglio prendere uno sconosciuto. Così ho fatto colloqui con molte persone, persino altri attori molto noti. Ma mi era rimasto in testa, e dopo che avevo già scelto Rod, gli ho semplicemente chiesto di fare dei provini con lui. Benoît ha accettato molto gentilmente. Appena ho visto i provini, ho smesso di cercare. Era lui! Ero così felice di lavorare con lui. È davvero un uomo meraviglioso e un attore fantastico. Nel profondo, è molto sentimentale, ed è una bella caratteristica in un uomo.

Quando ti è venuta l’idea di Sara Forestier per il ruolo della madre di Malony?
Dall’inizio. Avevo già in mente Sara mentre scrivevo. Non so per quale motivo – alcune cose non si possono spiegare! Forse perché sentivo che sarebbe stata adatta al personaggio, e persino che avrebbe potuto arricchirlo. Ma poi, quando la sceneggiatura era fatta, ho deciso di prendere una sconosciuta! Così Antoinette Boulat ed io abbiamo compilato una lunga lista di attrici sconosciute, ma alla fine anche con qualche attrice più nota. Sono arrivata al punto, come con Benoît, che dovevo per forza incontrare Sara, che non conoscevo. Ho chiesto anche a lei di fare dei provini con Rod, almeno per vedere se la coppia madre-figlio poteva funzionare. Quando ho visto i provini, la cosa era fatta! Per di più abbiamo avuto la sensazione che volesse veramente quella parte. C’era qualcosa di molto viscerale nel suo desiderio che è molto stimolante per un regista. Sara ha la capacità di abbandonarsi totalmente al personaggio. Le piace essere guidata, ascolta attentamente le indicazioni del regista, ma allo stesso tempo mette molto di se stessa. Le piace esplorare e cercare di scavare più a fondo. I ciak erano sempre diversi, ci sorprendeva sempre, e questa è una gioia per un regista. Il personaggio non è per niente facile, perché questa giovane madre irresponsabile suscita rifiuto. Ma è chiaro che questa donna ha anche sofferto, che non è stata cresciuta nel migliore dei modi, che non ha gli strumenti per crescere i propri figli e che porta il peso di tutta la sofferenza della sua infanzia, che è diventata madre molto giovane. Non posso dire di perdonarla – e tuttavia, la perdono! Spero che il pubblico la veda attraverso lo sguardo di Malony: con infinita dolcezza, perché nonostante la loro relazione sia difficile, lei lo ama!

E cosa mi dici di Diane Rouxel, che interpreta la ragazza di Malony? Come l’hai scelta e come definiresti il suo personaggio?
C’è stata una lunga fase di casting di strada anche per questo ruolo. Cercavo qualcuno molto specifico. Una ragazza tosta, quasi un maschiaccio, per nulla interessata a sedurre, con qualcosa di particolare. E doveva avere i capelli corti. Non avevo trovato il personaggio che cercavo tra i non-professionisti provinati, allora ho deciso di cercare tra le giovani attrici che avevano già lavorato nel cinema. È così che ho incontrato Diane, che non conoscevo, ma che aveva recitato nel film di Larry Clark  The Smell of Us. Come Rod, era piuttosto distante dal personaggio che avevo in mente, ma ha un volto così fotogenico, e ha acconsentito immediatamente a tagliarsi i capelli. Sul set è molto attenta e concentrata. Doveva esserci un’aura di mistero inspiegabile, per rendere credibile che questa ragazza si innamori del giovane delinquente nonostante il modo in cui la tratta. Lo sguardo in qualche modo mistico di Diane lo rende possibile. E si potrebbe pensare che seguendo il modello della madre, un’assistente sociale esemplare, abbia sviluppato l’anima di un San Bernardo, di una salvatrice.

Anche se ci sono meno attori non-professionisti rispetto a Elle s’en va, li hai usati anche qui per ruoli minori.
Perché adoro farlo. Lo trovo emozionante! Inoltre, mette davanti agli attori qualcosa di inaspettato, rischioso, ed eccitante. Molti degli assistenti sociali nel film, per esempio, sono veri assistenti sociali. E traggo grande piacere dal lavorare sui ruoli minori, nel far loro prender vita in brevi scene. Sono affascinata da ogni persona che filmo.

Come affermavi prima, A testa alta sembra l’opposto di Elle s’en va. Persino nella drammatizzazione. In Elle s’en va tutto ha a che fare con il movimento e la libertà, mentre qui, nella maggior parte delle scene, le cose sembrano molto più composte e meticolose.
Era una sfida molto diversa e questa cosa mi piaceva. Direi che è quel tipo di limite che per un regista può essere divertente. È stimolante sapere che ho sei grandi scene che sono lunghe, sei, sette, otto pagine ciascuna, tutte nello stesso ufficio e di conseguenza che devo portare elementi di novità in ciascuna di esse. Ma molto presto ho deciso di non cercare di essere ingegnosa perché c’era già molto da cogliere nei dialoghi e nelle questioni affrontate. Così non ho cercato di essere inventiva nella messa in scena, o di essere dimostrativa. Dopodiché si è trattato di scegliere le angolazioni. Mentre facevo i sopralluoghi nell’ufficio del giudice ero sempre nello stesso posto, allo stesso livello del giudice, un po’ scostata, di fronte alle persone. In verità, ho sempre osservato le udienze dalla stessa posizione e non l’ho mai trovato noioso. Ma tuttavia non volevo tenere questo approccio sistematico fino al punto di utilizzare un unico angolo di ripresa, come per esempio ha fatto Depardon in 10e chambre – Instants d’audience. Non volevo uno stile documentario – questo l’ho lasciato alla sceneggiatura – così ho optato per qualcosa di piuttosto semplice e leggero. Quando inizia il film, non c’è nessun evento scatenante. Più il film procede, più aumenta la comunicazione tra le persone, più le cose accadono.
Ho ragionato in questo modo. La questione principale era rendere l’atmosfera di tensione che aleggia durante queste udienze e mantenere la suspense sull’esito di ogni scena. Volevo che gli spettatori stessero all’erta per tutto il film.

Effettivamente, qua e là all’improvviso c’è un’immagine fuggevole, l’attenzione a un dettaglio, o uno scambio di sguardi.
Queste scene in cui uno scambio di sguardi acquista grande importanza sono davvero nuove per me. Non è una cosa molto frequente nei miei film precedenti, e qui è diventato un elemento importante della drammatizzazione, perché quando ci sono molte battute, deve accadere qualcos’altro oltre a ciò che viene detto. Durante la fase di montaggio, mi sono divertita molto a far emergere il gioco di sguardi, in particolare tra Deneuve e Magimel, che dicono molto.

Sei tornata a lavorare con il direttore della fotografia Guillaume Schiffman, come hai lavorato con lui? Avevi un’idea chiara di ciò che volevi?
Sapevo già di volermi allontanare decisamente dallo stile documentaristico che avrebbe potuto prevalere, o più precisamente, volevo uno standard visuale di alto livello che andasse a braccetto con l’aspetto documentaristico del film. Non volevo che le luci fossero troppo stilizzate ma comunque volevo che fossero decise e molto raffinate. Nell’ufficio del giudice – generalmente molto poco illuminato! – non c’è mai lo stesso tipo di luce. Guillaume ed io lavoriamo sempre nello stesso modo. Gli mostro delle fotografie che mi ispirano e ne parliamo. Non volevo insistere sul lato cupo della vicenda. Al contrario, immaginavo un film luminoso. Per questo ogni tanto ho filmato Malony in mezzo alla campagna, cercando di infondere una certa poesia in questa storia molto triste.

Per lo stesso motivo, hai usato musiche che sono per lo più d’ispirazione classica.
Utilizzo sempre un mix di musiche, e mi piace usare brani già esistenti. Molto prima di iniziare le riprese, mi era chiaro che non avrei enfatizzato l’universo delinquenziale con il cliché del rap. Inoltre, come ti ho già detto, volevamo spogliare questo ragazzo di tutti gli stereotipi della delinquenza: è un adolescente che non ascolta la musica. Ho preferito giocare sul contrasto tra questo mondo amaro e difficile e la musica classica, che reca con sé anche l’ispirazione lirica che cercavo per produrre emozioni. Quando si tratta di musica, il mio montatore, Julien Leloup, ha le idee migliori!

Hai pensato da subito al titolo A testa alta?
Per niente! Ci abbiamo messo molto per trovarlo. Il progetto è iniziato con il nome Doppio rischio ma era troppo ambiguo. Ha un significato molto specifico in ambito legale (il divieto di essere giudicati due volte per lo stesso reato, n.d.t.) e nel senso comune. Poi all’improvviso, François Kraus ha suggerito di usare le ultime parole della sceneggiatura: “Malony attraversa le stanze del tribunale, oltrepassa l’ingresso, e scende le scale. Si ferma, a testa alta, tenendo il suo bambino tra le braccia.” “A testa alta” è proprio quello di cui parla il film.

La tua carriera come regista è iniziata a Cannes: li hai mostrato il tuo primo corto, Les Vacances, nel 1997, che ha vinto il Premio della Giuria. Cosa significa per te aver aperto il Festival di quest’anno con il tuo film?
Senza Cannes penso che la mia carriera sarebbe stata più difficile. Sono molto – non so che termine usare – emozionata che un film come questo, che mette in luce questi uomini e donne lontano dai riflettori, abbia aperto il Festival, che sia stato mostrato nel contesto di un evento così prestigioso e conosciuto. È un grande onore, in effetti.

Intervista a CATHERINE DENEUVE

Ti sei stupita quando Emmanuelle Bercot ti ha chiesto di lavorare ancora con lei addirittura prima dell’uscita diElle s’en va?
Stupita, sì, perché non sapevo avesse già completato la sceneggiatura, ma anche felice, perché Elle s’en va era stata una bellissima esperienza. Voglio molto bene alla donna per ciò che è, al di là dei suoi film. Ho molto rispetto e ammirazione per lei. Mi piace com’è con le persone, con suo figlio, mi piace il suo atteggiamento verso la vita e verso i film. Mi piace come lavora sodo, la sua intensità e la sua semplicità. È una regista che non molla mai quando è sul set, che lavora molto prima, durante e dopo le riprese, ed è qualcuno su cui si può veramente contare.

Cosa hai trovato più eccitante? Lavorare di nuovo con lei? Interpretare il personaggio di un giudice minorile compassionevole?
Innanzitutto, lavorare di nuovo con lei, e su un progetto completamente diverso da quello precedente. Ma anche lavorare di nuovo con la sua squadra, Guillaume [Schiffman], il suo operatore, Pierre André, il suo ingegnere del suono. In secondo luogo, interpretare un ruolo come quello, il ruolo di un giudice… che in effetti non giudica! Un giudice che ascolta, che cerca di capire cosa sia meglio per il ragazzo perduto che le sta di fronte. Questo è ciò che più mi ha colpito durante il tempo passato in tribunale: la perseveranza, l’indulgenza, la sconfinata compassione di questi giudici e assistenti sociali, soprattutto se si considera che hanno a che fare con ragazzi che possono essere piuttosto terribili.

Si dice che tu preferisca ricorrere all’immaginazione piuttosto che lavorare sui personaggi che interpreti. È stata una tua idea osservare quello che succede nel tribunale dei minori?
Sia io che Emmanuelle abbiamo ritenuto sin dall’inizio che fosse utile vedere cosa succede veramente e come funzionano le cose. Non per fare ricerca, ma per captare il tono, il colore della voce, come si esprimono le persone, come parlano. Nell’interpretare un giudice, c’è il rischio di illustrare una funzione piuttosto che dare corpo a un individuo. Ho trovato la sceneggiatura molto buona, e mi piaceva quel ruolo, ma mentre ci ragionavo, mi sono resa conto che non sarebbe stato facile. È un po’ un continuo susseguirsi di domanda-risposta. Il dialogo si basa molto sui fatti, ed è anche molto specialistico. Avevo bisogno di vedere come andavano le cose nella vita reale, nel vero ambiente. Per molte settimane ho assistito a varie sessioni e udienze. Mi ricordo una sessione in cui c’erano due ragazzi e una ragazza che non volevano tornare con il padre. Anche la madre era presente, naturalmente. C’erano anche gli assistenti sociali dei ragazzi, quelli della famiglia, gli avvocati e il giudice. Posso assicurarvi che erano tutti ben consapevoli del momento, del dolore e degli eventi drammatici. La cosa che mi ha sorpreso di più è stata accorgermi dell’importanza che viene data a questi adolescenti, tutto il tempo che viene loro dedicato. Ti fa capire che viviamo in un paese molto civile! Uno dei punti di forza del film è richiamare l’attenzione sul lavoro instancabile di queste persone di cui non sappiamo molto, sulla loro perseveranza, la loro pazienza. Sono rimasta colpita dalle buone intenzioni che li muovono e dalla loro incredibile capacità di ascoltare.

Diresti che questa esperienza diretta ha influenzato il modo in cui hai interpretato il personaggio?
Decisamente. Aver sentito i giudici esprimersi nel loro linguaggio, aver sentito gli assistenti sociali parlare in quel modo e battersi per i ragazzi, è stato davvero sorprendente e piuttosto impressionante. Non dico che ciò sia stato nei miei pensieri in ogni ripresa durante lo shooting, ma mi ha sicuramente influenzato. Emmanuelle, che era rimasta colpita da un giudice minorile piuttosto aggressivo, cercava sempre di spingermi ad essere più autoritaria, ad usare più fermezza. Io le dicevo, “Non posso sempre comportarmi come un poliziotto!” Allo stesso tempo, visto il modo in cui ha montato le scene, facendo il miglior uso possibile degli scambi di silenzi e sguardi, si ha l’impressione che il giudice ascolti veramente, che sia molto attenta, senza essere compiacente.

Come definiresti il tuo personaggio?
Emmanuelle mi ha riportato una storia che le aveva raccontato suo zio, un assistente sociale per minori. Un giudice donna, parlando di un giovane delinquente di cui si stavano entrambi occupando, gli disse, “Tu sei sua madre e io sono suo padre!” Credo che riassuma abbastanza bene il personaggio del giudice. Direi, per rimanere nella metafora famigliare, che questo giudice a volte fa il padre perché è lei a punirlo, anche se, quando decide di mandare Malony in prigione, lo fa sia perché lui non capirebbe se non lo facesse – visto che non aveva rispettato l’accordo – ma anche per proteggerlo da se stesso. Si comporta come un padre, ma è anche una donna, ha le reazioni di una donna e di una madre. Sa come ascoltare e capisce quando lui sta per crollare, quando è sull’orlo delle lacrime, persino quando non riesce ad esprimere quanto le cose siano diventate impossibili da sopportare per lui.

Non si tratta forse meno dello studio di un personaggio di quanto si potrebbe pensare e più di un ruolo abbastanza vicino a te, visto il suo mix di autorità e gentilezza?
Siccome i dialoghi contengono molti fatti, date e riferimenti legali, e il giudice sbatte tutto ciò senza remore in faccia al povero ragazzino, non potevo identificarmi del tutto con lei. Allo stesso tempo, è vero: nonostante tutto, nel profondo ero in sintonia con qualsiasi cosa gli dicesse. Il suo comportamento non mi era estraneo, a parte il fatto che non credo sarei mai capace di dire quello che lei dice con tanta fermezza. Emmanuelle ha insistito, e aveva ragione. La cosa difficile per me è stato recitare in sequenza tutte quelle scene che ricoprono un periodo di diversi anni. Nella sceneggiatura, vedi il bambino cambiare nel tempo. Diventa un adolescente e poi un giovane uomo. Si vedono queste situazioni, questi eventi drammatici, questi problemi, e le mie scene con lui dovevano evidenziare questa progressione. Ma quando abbiamo dovuto girare queste scene in successione, mantenendo lo stesso tono ogni giorno, è stata tutta un’altra cosa! Era una cosa che non avevo considerato abbastanza prima delle riprese: dover usare lo stesso tono per diverse settimane mentre a volte avrei voluto una pausa. Mi ha richiesto un grande sforzo.

Cosa ti ha colpito di più la prima volta che hai incontrato Rod Paradot?
Quando ho visto i suoi provini, sono rimasta colpita dalla sua fragilità, dalla sua mancanza di autostima, e allo stesso tempo, dal suo apparente atteggiamento da duro, una sorta di rabbia soffocata. È fantastico nel film. È molto commovente, con questo viso ancora da bambino, con la pelle bianca. So che per lui è stato difficile e anche per Emmanuelle. Non ha mai mollato, e il risultato è incredibile. Le scene in cui la sua violenza, il suo dolore e la sua rabbia esplodono sono molto forti.

Hai incontrato Benoît Magimel di nuovo dopo aver recitato con lui in Les Voleurs.
Benoît è davvero toccante. Ha una sensibilità e intensità molto speciali che rendono il suo personaggio – un uomo ferito la cui storia e il cui rapporto con il giudice scopriamo poco a poco – un personaggio fantastico. È perfettamente nella parte, e che pazienza ha! Le persone che posseggono tanta pazienza e altruismo sono davvero ammirevoli. Mi piacciono molto le nostre scene insieme, con tutto il sottinteso e lo scambio di sguardi, di cui Emmanuelle ha fatto davvero buon uso.

Al contrario, è la prima volta che fai un film con Sara Forestier…
Quello che fa con il suo personaggio, non certo facile, è davvero impressionante. Sara è una grande attrice, un’attrice che prende dei rischi. Nei provini ha tirato fuori delle cose che erano ancora più inquietanti. Ha fatto cose davvero coraggiose e aveva la fiducia di Emmanuelle…

In Elle s’en va eri sempre in movimento, e così anche la macchina da presa che ti seguiva. Qui stai sempre seduta.
Sì, sono una testa parlante!

… e si ha la sensazione che la messa in scena sia deliberatamente più statica, più confinata…
Sì, ma Emmanuelle ha usato diverse macchine da presa e fatto molte riprese, cosicché in fase di montaggio, ha potuto mostrare cosa succede in quell’ufficio e infondergli molta vitalità.

Qual è secondo te la sua dote principale?
Il suo talento – anche se è una parola che comprende tutto. Però è così, il suo particolare talento. Le sue sceneggiature sono molto lucide. Quando le leggi non pensi, “Sì, è buona, ma ha bisogno di essere rivista e migliorata.” Inoltre continua a lavorarci anche dopo che tutti hanno detto sì al film. Decide ogni cosa, è su tutti i fronti. Se deve andare alla ricerca di location e non le sono stati dati i mezzi per farlo, dice semplicemente “Nessun problema, vado ugualmente.” Fa quello che ritiene necessario per raggiungere il suo scopo, e credo che questo le dia grande soddisfazione. Ha fatto veramente ciò che voleva in questo film. E non dovevamo porci domande inutili. Se stavamo facendo qualcosa era perché aveva senso che lo facessimo. Non smette mai di lavorare. Prima, durante e dopo. Deve essere estenuante! Ammiro la sua energia, la sua intensità e anche la sua tenacia. Penso che il suo lavoro su questo film sia semplicemente strepitoso. C’è sempre un punto di vista, sempre quello giusto, sempre sul pezzo, sempre autentico. Molto potente. Allo stesso tempo, il film è pieno di luce, è molto positivo!

Intervista a ROD PARADOT

Qual è stato il tuo primo contatto con il film?
Stavo studiando per diventare falegname in un istituto professionale di Stains. Fumavo una sigaretta durante una pausa quando Elsa Pharaon mi si è avvicinata per parlarmi. Era in cerca di un ragazzo giovane come me per un film e mi ha chiesto se fossi interessato a fare un provino. Siamo andati in un’aula, ho fatto l’audizione e sembra aver funzionato!

Ricordi il primo incontro con Emmanuelle?
È stato quando ho fatto il provino per lei. Era là ad osservare mentre mi riprendevano. Io ero un po’ agitato. Avevo fatto una piccola ricerca su internet e sapevo chi era e cosa aveva fatto. Sapevo che era qualcuno nel mondo del cinema, una regista e un’attrice. Quindi volevo mettercela tutta per superare l’audizione. Speravo le piacesse.

Ti aveva dato una scena da imparare?
Solo un breve testo. Una parte del copione in cui chiedo a Ludo di darmi una sigaretta. Una scena davvero violenta – che mi è piaciuta molto quando ho visto il film. Dopo quella feci alcuni altri provini, ma Emmanuelle non mi diceva se avevo avuto la parte o meno! Prima di conoscere Benoît e Sara, ho fatto molte altre audizioni con vari attori e attrici. Pensavo fosse un buon segno, ma ancora non mi dicevano nulla! Ho fatto provini con dozzine di ragazze per la parte della mia fidanzata nel film. Ed è stato allora che Emmanuelle mi ha detto di avermi scelto. Ero supercontento.

In che senso diresti che Malony è come te – oppure no?
Sento di poter vedere un po’ di me in Malony. Nella sua natura. Anche se sono molto meno violento di lui. Mi piace molto il personaggio. Ha molto amore dentro, specialmente per sua madre. Allo stesso tempo soffre di un’enorme mancanza d’amore, che è il motivo per cui è pieno di rabbia. Ecco cosa mi piace di lui. Io vivo nelle case popolari, quindi so cosa significa. I bambini sono spesso lasciati da soli per strada dall’età di 8 anni, senza genitori, senza nessuno, abbandonati a se stessi, ed è allora che iniziano a ficcarsi nei guai. Questa cosa mi ha toccato molto, perché mi piacerebbe davvero che finisse.

Dove sei cresciuto? Hai fratelli o sorelle?
Ho sempre vissuto a Stains. Sono figlio unico, mio padre è un idraulico e mia madre impiegata statale.

Vai spesso al cinema?
Non spesso, ma mi piace molto. Vado pazzo per i film horror. LEsorcista è stato il primo che ho visto quando ero piccolo, e non l’ho mai dimenticato! Quando ho saputo che avrei girato con tutti quegli attori, ho guardato i loro film. Ho visto Elle s’en va e Polisse molte volte.

 

Quando eri più giovane, hai mai sognato di diventare un attore?
Ad essere sincero, proprio no! Non pensavo di esserne capace. Ma ho sempre amato il teatro e ogni sorta di esercizio di improvvisazione. Alle elementari abbiamo fatto un po’ di recitazione per lavorare sulle nostre emozioni, in modo da non essere così iperattivi in classe. Ci hanno fatto lavorare sul gridare, l’essere tristi o felici. Inoltre, ogni volta che sono andato al campo estivo, ho preso parte agli spettacoli che venivano messi in scena. Ho anche recitato in una scena a scuola, un estratto di Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. Mi è piaciuto molto.

Emmanuelle Bercot ti ha fatto lavorare con un coach prima delle riprese.
Daniel Marchaudon mi ha aiutato molto. Abbiamo lavorato insieme per più di due mesi. Mi ha fatto pensare alla storia, e abbiamo provato a capire davvero tutto quello che vi accadeva. Mi ha parlato del mio personaggio, Malony, del perché si comportava in un modo o nell’altro, e perché pensava questo o quello. Stavamo lavorando, ma sembrava di giocare. Forse perché camminavamo molto mentre lavoravamo. Era più naturale, più divertente che se fossimo stati seduti ad un tavolo. Era più facile capire la storia e assorbire il testo. Imparare le lezioni a scuola era sempre stato difficile per me, ma questo accadeva in modo  semplicemente naturale! Forse perché ero davvero toccato dalla storia – al punto di piangere leggendo il copione. Forse anche perché conosco altre storie come questa.

Ricordi il tuo primo incontro con il “tuo” giudice, Catherine Deneuve?
È stato durante le prove luci, appena prima che iniziassero le riprese. Ero nervoso e un po’ teso. Non avevo visto molti suoi film, ma sapevo chi era. La mia famiglia aveva parlato molto di lei, della sua fama e della sua carriera. Io avevo fatto qualche ricerca, e guardato Elle s’en va. Quindi era un onore e una gioia poter recitare con lei. Ero piuttosto intimorito all’inizio, e un po’ riservato, ma lei era molto dolce e mi ha aiutato a rilassarmi.

Come spieghi la relazione tra Malony e il suo giudice?
Me lo sono chiesto molte volte. Penso che lui la veda quasi come parte della sua famiglia. È un po’ il padre che non ha mai avuto. E il suo punto di vista e le sue opinioni sono enormemente importanti per lui. Lei ha cercato di capirlo, non di colpevolizzarlo immediatamente, e questo li ha avvicinati. Anche quando lei alla fine lo manda in prigione, lui la ringrazia, perché è consapevole di essere andato troppo oltre e che lei non ha scelta. Penso che lei sia davvero quella a cui Malony è più attaccato.

Più del suo giovane assistente sociale, interpretato da Benoît Magimel?
Non è la stessa cosa. Yann è più simile a uno zio, un cugino o un fratello maggiore. Ma c’è molto amore tra di loro. È divertente, molte volte la gente diceva che c’è una somiglianza familiare tra me e Benoît. In ogni caso, ci intendevamo subito. Parlavamo molto, ci confidavamo l’un l’altro, lui mi diceva di quando aveva iniziato la carriera ed era ancora più giovane di me, mi aiutava, mi dava consigli, mi faceva sentire a mio agio. Siamo stati sulla stessa lunghezza d’onda da subito. Come con Sara. Abbiamo avuto un forte legame emotivo sin dall’inizio, un po’ come nel film, ma un po’ meno turbolento! Era come una sorella maggiore per me.

Quali scene ti spaventavano di più prima dell’inizio delle riprese?
Le scene d’amore! Non avevo idea di come sarebbero andate e ciò mi spaventava. Poi alla fine non erano così difficili! Anche Diane [Rouxel] era come una sorella per me. Andavamo molto d’accordo, ci aiutavamo a vicenda e provavamo le nostre scene insieme di notte. Un giorno le ho chiesto se potessi baciarla, in modo da sentirmi più a mio agio durante le riprese!

Quindi quali sono state le scene più difficili da girare?
La scena in cui mi sono dovuto impegnare di più è stata quella con Sara in cui faccio volare la scrivania che colpisce la pancia della donna incinta e Sara mi sputa addosso. Odio chiunque mi sputi in faccia! Ho davvero dovuto lasciare da parte il mio orgoglio. È stata una scena difficile che mi ha turbato molto. Dopo averla girata ho passato mezz’ora da solo a cercare di rilassarmi.
C’è un’altra scena in cui ce l’ho messa tutta. Nel night club quando Malony dà voce a tutto quello che ha dentro, la sua rabbia, il suo amore. Viene tutto fuori. Io non avevo mai ballato in quel modo e scuotendo la testa. È stato difficile e mi ha richiesto un grande sforzo. E abbiamo anche dovuto ripetere la scena molte volte.

Emmanuelle ha detto di essere stata dura con te a volte e di non aver mollato finché non avesse ottenuto quello che voleva.
È vero, ma mi ha consigliato e mi ha aiutato molto durante le riprese a capire Malony e anche a trasmettere quello che voleva da me. A volte è stata dura, ma meglio che avere un regista che mi dicesse solo di recitare quello che c’era scritto! Lei sa quello che vuole e quando vuole “il rosso”, è meglio che non sia “bianco”! Ma penso che sia anche per questo che i suoi film sono grandiosi. Mi sono sentito male dopo alcune scene perché prendo le cose molto a cuore, e mi ci è voluto tempo per realizzare che si trattava di Malony, non di me! Comunque è stata un’esperienza fantastica.

Qual è stata la cosa più sorprendente di questa esperienza?
Lavorare in team. Un film è un mondo a sé, in cui ognuno lavora per un obiettivo comune e tutti ascoltano. Puoi parlare e aprire il tuo cuore. Erano tutti lì per me, anche quando stavo passando un brutto momento.
Cosa ti ha stupito di più quando hai visto il film finito?
Quando stai recitando sul set non puoi immaginare cosa ne uscirà e quando te lo trovi davanti, è meraviglioso! Vedi tutto il lavoro fatto da ciascuno sul set e in sala di montaggio. È ancora più bello perché vedi che le cose funzionano con Benoît, Catherine e Sara. Si vede che eravamo uniti e che abbiamo lavorato bene insieme. E poi ho capito come funzionano le riprese. Prima guardavo un film senza pensare a come fosse fatto, ma adesso penso “Guarda, lì è una ripresa diversa, e lì un’altra, e la macchina da presa fa così”. Adesso sono consapevole di tutto il lavoro che c’è dietro e dell’importanza che ha ogni singolo professionista in un film.

 

Puoi comprendere quello che afferma il film, che se i genitori non si prendono cura della crescita dei propri figli, tocca alla società occuparsene, ed è lì che entrano in gioco il lavoro del giudice e del giovane assistente sociale?
Sì, perché innanzitutto vivo a Stains dove c’è molta delinquenza, molte aggressioni e giovani sbandati come Malony, e credo che questo film farà riflettere le persone sulla loro educazione. Un ragazzino non si comporta in quel modo senza motivo, c’è sempre qualcosa che lo provoca. Mi ha fatto pensare anche a me stesso.

A testa alta ha aperto il Festival di Cannes. Sei…
Orgoglioso, davvero orgoglioso del film! Ero molto emozionato e molto agitato allo stesso tempo! Ma soprattutto felice, davvero felice.

E ora dopo Cannes?
Vedremo. Emmanuelle mi ha avvertito che tutto potrebbe finire così da un giorno all’altro. Lo so, ma mi piacerebbe continuare. Mi è davvero piaciuto recitare, ho amato davvero interpretare il ruolo di Malony. L’ho amato, è stato davvero interessante, e mi ha persino fatto piangere! Quindi mi piacerebbe continuare.

Se potessi ricordare solo una cosa di quest’avventura, quale sarebbe?
Quando siamo andati tutti sul set e ho realizzato che eravamo tutti lì e che avremmo recitato insieme. Quello è stato fantastico.

HomeVideo (beta)


STREAMING VOD, SVOD E TVOD:
A Testa Alta disponibile in DVD da giovedì 26 Maggio 2016
info: 19/11/2015.


Puoi cercare "A Testa Alta" nelle principali piattaforme di VOD: [Apri Box]
DVD E BLU-RAY FISICI:
"A Testa Alta" disponibile su supporto fisico da giovedì 26 Maggio 2016, puoi aprire i risultati di una ricerca su Amazon.it: [APRI RISULTATI].
Impostazioni privacy