Locandina Steve Jobs

Steve Jobs (2015)

Steve Jobs
Locandina Steve Jobs
Steve Jobs è un film del 2015 prodotto in USA, di genere Biografia diretto da Danny Boyle. Il film dura circa 122 minuti. Tratto dalla biografia di Steve Jobs scritta da Walter Isaacson. Il cast include Michael Fassbender, Kate Winslet, Seth Rogen, Jeff Daniels, Michael Stuhlbarg, Katherine Waterston. In Italia, esce al cinema giovedì 21 Gennaio 2016 distribuito da Universal Pictures. Disponibile in homevideo in DVD da mercoledì 25 Maggio 2016. Al Box Office italiano ha incassato circa 1055383 euro.

Steve Jobs si svolge nei backstage pochi minuti prima dei lanci dei tre prodotti più rappresentativi nell’arco della carriera di Jobs – partendo con il Macintosh nel 1984 e finendo con la presentazione dell’iMac nel 1998 – portandoci, appunto, dietro le quinte della rivoluzione digitale, per tratteggiare un ritratto intimo dell’uomo geniale che è stato il suo epicentro. Michael Fassbender interpreta Steve Jobs, il pionieristico fondatore della Apple, con l’attrice Kate Winslet nella parte di Joanna Hoffman, l’ex direttrice marketing della Macintosh. Steve Wozniak, co-fondatore della Apple, è interpretato da Seth Rogen, e Jeff Daniels veste i panni dell’ex CEO della Apple, John Sculley. Il film è interpretato anche da Katherine Waterston nel ruolo di Chrisann Brennan, l’ex fidanzata di Jobs, e da Michael Stuhlbarg nei panni di Andy Hertzfeld, uno dei membri della squadra di sviluppo della Apple Macintosh originaria.

Info Tecniche e Distribuzione

Uscita al Cinema in Italia: giovedì 21 Gennaio 2016
Uscita in Italia: 21/01/2016
Data di Uscita USA: venerdì 9 Ottobre 2015
Prima Uscita: 09/10/2015 (USA)
Genere: Biografia
Nazione: USA - 2015
Durata: 122 minuti
Formato: Colore
Distribuzione: Universal Pictures
Box Office: USA: 16.684.073 dollari | Italia: 1.055.383 euro
Note:
Steve Jobs è diretto dal regista Danny Boyle e scritto da Aaron Sorkin, che ha lavorato sulla base della biografia, che ha venduto milioni di copie, del fondatore della Apple scritta da Walter Isaacson.
Soggetto:
Tratto dalla biografia di Steve Jobs scritta da Walter Isaacson.
Classificazioni per età: ITA: 18+
In HomeVideo: in DVD da mercoledì 25 Maggio 2016 [scopri DVD e Blu-ray]

Recensioni redazione

Steve Jobs di Danny Boyle, la Recensione
Steve Jobs di Danny Boyle, la Recensione
redazione, voto 9/10
Con questo splendido film, il regista Danny Boyle riesce a mettere in luce in modo superbo gli aspetti principali del carattere e della psicologia di una persona complessa e geniale come Steve Jobs.
Steve Jobs, recensione film di Danny Boyle
Steve Jobs, recensione film di Danny Boyle
Giorgia Tropiano, voto 8/10
Steve Jobs, film biografico su uno degli uomini più famosi degli ultimi anni, racconta parte della sua vita in modo originale, basandosi molto sui rapporti umani e sulle fragilità del protagonista. E' un film riuscito, con una grande sceneggiatura e un cast eccezionale.

Immagini

[Schermo Intero]

Intervista con il regista Danny Boyle

Ci racconti cosa Le è passato per la testa quando ha ricevuto la sceneggiatura di Aaron Sorkin e l’ha letta per la prima volta. Cosa c’era nel copione che Le ha fatto venir voglia di fare questo film?

Ho letto la sceneggiatura e ho pensato che sarei stato un pazzo a non fare il film. Mi ha lasciato senza fiato. Ho pensato che non avevo mai fatto nulla di simile prima. Le sfide che presentava – il suo essere completa e autosufficiente, il suo meraviglioso esercizio linguistico—mi intrigavano immensamente. Anche il personaggio di Steve Jobs che Aaron aveva creato – lo Steve che esiste nel copione che, per certi versi, combacia con quello storico e per altri no —mi affascinava enormemente. E’ un personaggio di proporzioni shakespeariane. E’ ipnotizzante, violento e divertente. Ho visto nella sceneggiatura di Sorkin molte persone orbitanti intorno a questo pianeta straordinario, che è il personaggio di Steve Jobs. Nella vita esistono persone come lui intorno alle quali finiamo per orbitare; le nostre vite sono vissute per certi versi nel loro riflesso e spesso siamo incapaci di staccarci da loro. Hanno una grande forza gravitazionale. Sono persone che ispirano devozione. Come personaggi sono affascinanti da esaminare. Ci sono persone nella vita di Jobs che gli sono chiaramente e profondamente devote. Altri personaggi lo ritengono un mostro. E, in un certo senso, lui è un mostro reso bello dalla lingua … e da due donne.

Lei ha detto che il film non è un biopic e che non è un tentativo di raccontare una storia che si attiene rigidamente ai fatti della vita di Jobs. Nonostante questo Lei descrive figure vere e realmente esistenti. Quali elementi delle figure reali – di Steve Jobs, e dei vari membri della sua squadra – ha incorporato nella storia?

Siamo molto grati al libro di Walter Isaacson e alla profondità delle sue ricerche, ma volevamo che il film fosse un viaggio diverso. Sorkin descrive il film come un “ritratto impressionista”. Ci sono idee che vengono chiaramente dalla vita reale, ma il film è un’astrazione. Prende gli eventi – alcuni veri, altri immaginati – e li comprime all’interno di tre atti, strutturati intorno ai lanci del Macintosh nel 1984, del NeXTcube nel 1988 e dell’ iMac nel 1998. Per tre volte compaiono sei personaggi, 40 minuti prima che ogni prodotto venga lanciato, e parlano semplicemente tra loro. Questa non è vita vera; è una versione amplificata della vita vera. Il copione di Sorkin parla di molto più che di Steve Jobs come persona. Lui ha cambiato una delle cose più preziose e vitali delle nostre vite, che è il modo in cui comunichiamo, in cui interagiamo gli uni con gli altri – eppure molti dei suoi rapporti erano profondamente disfunzionali. Il film parla anche di team – e con questo voglio dire che parla di una persona che è stata capace di spingere gruppi e individui a creare. Nel nostro personaggi di Steve c’è ingegno e umorismo, e una comprensione di quanto le persone amino trovare qualcuno che le incoraggi a sforzarsi. Jobs era quasi maniacale nella sua determinazione a trasformare le persone.

Prima delle riprese, ha messo in bilancio lunghi periodi di prove e ha provato e girato ogni atto separatamente, in sequenza. Può parlarci un po’ del perché è arrivato a questo piano e di come il film finito, e le interpretazioni degli attori, ne hanno tratto vantaggio?

Una delle cose straordinarie della lingua di Aaron è il ritmo, la sua propulsione. Non vedevo l’ora di vedere gli attori parlare quella lingua ma sapevo anche che sarebbe stato molto impegnativo per loro.
Visto che ci sono tre lanci, ci siamo concentrati su una parte per volta, provando e poi filmando ogni atto separatamente e in sequenza. E’ molto raro nel cinema che si giri in sequenza, ma questo ha dato alle interpretazioni e alla storia una specie di slancio. Ha permesso agli attori di impegnarsi su quell’unico atto e di concentrarsi sul modo in cui sarebbero apparsi, su come sarebbero suonati e sul modo in cui si sarebbero sentiti in quel momento della vita del loro personaggio. Ha permesso loro di fermarsi e di fare il punto della situazione. Gli attori sono sempre in movimento, durante tutto il corso di ognuno di questi atti. Questo succede in parte, ovviamente, perché queste persone si trovano nel bel mezzo dei preparativi finali per un lancio e ci sono cose dell’ultimo minuto di cui occuparsi, ma è anche molto intenzionale perché fa parte della filosofia di Jobs. Lui camminava e parlava. Non voleva sedersi e fare meeting o riunioni noiose. Voleva sempre camminare e parlare perché questo dava un certo slancio all’iniziativa, qualsiasi essa fosse. Abbiamo affrontato le prove e le riprese in un modo che mi auguravo fosse fisicamente liberatorio per gli attori. Sul set non volevo creare spazi chiusi, ma dare piuttosto un senso di libertà e apertura. Non volevo che gli attori si preoccupassero troppo di dove stavano, di dove stavano andando. All’inizio delle prove abbiamo lasciato che ognuno si muovesse dove voleva. Gradualmente, mentre si avvicinava il giorno delle riprese, abbiamo trovato il nostro modo per bloccare le scene. La libertà di movimento che cercavamo è stata enormemente aiutata dal nostro uso della Steadicam, che di solito si riserva solo alle sequenze d’azione o alle scene di inseguimenti. La Steadicam si prestava a questo senso di moto perpetuo e di libertà. Il nostro operatore Steadicam, Geoff Healey, è un artista e – insieme alle luci di Alwin Küchler – il suo lavoro ci ha permesso di costruire delle scene fluide e belle in cui gli attori si muovevano attraverso i tre spazi e i tre atti.

Perché ha deciso di girare tutto il film a San Francisco?

San Francisco è la Betlemme dell’era digitale, la patria della seconda rivoluzione industriale. Io vengo dal nord dell’Inghilterra, da Manchester, nota come il luogo in cui è nata la Rivoluzione Industriale 200 anni fa. E proprio come Manchester, San Francisco è impregnata della sua storia e del suo proprio mito. Mi sono subito identificato con l’idea di fare questo film a San Francisco. Spero che il film, per qualche strana sorta di osmosi, prenda qualcosa da questo. Ho sempre pensato che se si rispetta il luogo in cui si fa un film, questo ti ricompenserà… attraverso la comprensione e l’apprezzamento tuo e degli attori di quello stesso luogo. Durante le riprese, ci sono state anche persone che erano presenti ai tre lanci originali che, per nostro volere o per caso, abbiamo conosciuto.

Ha marcatamente differenziato i tre spazi nei suoi tre atti. Perché?

E’ vero. Quello che sin dall’inizio mi ha attirato del copione è stato proprio questo: mi sono chiesto come avrei potuto presentare queste tre scene dietro le quinte in maniera dinamica e con la maggiore tensione possibile. E abbiamo deciso di ambientarle in tre luoghi differenti, ognuno dei quali dava qualcosa di particolare – un sentimento particolare, una storia particolare – a ogni atto.

Come siete arrivati alla scelta dell’Auditorium Flint come luogo per il lancio del Macintosh nel primo atto?

L’Auditorium Flint al Community College De Anza, nel cuore di Cupertino, è il luogo in cui, nel 1984, si è svolto il lancio del Macintosh nella realtà. Quel palco è stato quello da cui Steve Jobs quel giorno ha presentato il Macintosh. Stavamo ripercorrendo i suoi passi, anche letteralmente, perché essendo un teatro semplice, funzionale è un po’ casereccio, basico e rozzo. Ha un’atmosfera quasi dozzinale … i primi tempi delle presentazioni!
L’Atto Primo, il lancio del Mac, è il mito della creazione della nostra epoca moderna. E’ Steve Jobs che come per magia fa apparire il futuro del mondo dei computer – il primo computer davvero ‘personal’, il primo computer umano — dal nulla. Per la prima volta qualcuno aveva pensato a creare un computer che sembrasse una parte di noi. Come dice Steve nel film, fino ad allora, nel 1984, Hollywood aveva reso i computer degli oggetti spaventosi, lui voleva invece che ci appartenessero, che diventassero familiari. Anche se i tempi non erano ancora pronti per questo e infatti ancora non funzionò. Ci è riuscito più tardi.

Perché avete scelto l’Opera di San Francisco come location per il secondo atto? Cos’è che rende l’Opera il luogo giusto per questa parte della storia, il lancio di NeXT?

Si può dibattere a lungo su quanto Steve Jobs, nella realtà, avesse avuto veramente intenzione di produrre il computer NeXT come atto di vendetta contro la Apple. Alla fine, il sistema operativo NeXT lo ha riportato alla Apple. E’ stato capace di vendere NeXT alla Apple quando la Apple aveva bisogno di un nuovo sistema operativo, e un sistema operativo era esattamente quello che la NeXT aveva da offrire. Jobs è stato capace di prendere dalla NeXT qualcosa che è ancora il centro dei sistemi operativi di tutti i prodotti Apple che esistono oggi.
Volevamo che l’ambiente rispecchiasse questo sentimento di vendetta teatrale, che è il motivo per cui abbiamo scelto l’Opera House, con i suoi sipari viola con i bordi dorati. L’Atto Secondo richiedeva un’atmosfera più indulgente, quasi romantica. Lo abbiamo girato in 35mm, che è un po’ liquido, bello, morbido – di sicuro lo è se paragonato ai 16mm della prima parte. La scenografia, i movimenti di macchina, la musica – tutto è stato pensato per descrivere una sorta di messa in scena della vendetta. Volevamo che il pubblico si risvegliasse gradualmente con il piano ad orologeria della vendetta di Steve, mentre questo si rivela nel corso dell’atto. Tutto in questo atto si sviluppa verso e intorno alla vendetta; la vendetta è dietro a ogni mossa e monta fino al confronto finale tra Steve e John Sculley prima che si abbassi il sipario.

Quali considerazioni – sulle scene e sulla fotografia – hanno portato allo schema del terzo atto, quello in cui viene lanciato l’iMac?

Il terzo atto è più sul futuro, sui mezzi di comunicazione puliti, e sul nostro moderno controllo dei dati. L’iMac ha veramente introdotto Internet nel nostro quotidiano. Abbiamo girato quest’atto nella futuristica Davies Symphony Hall a San Francisco. E l’abbiamo girato con l’ALEXA—una telecamera digitale moderna che ha pixel quasi infiniti e una risoluzione altissima. Ci stiamo muovendo verso possibilità infinite nel terzo atto, e questo è quello che hanno significato il ritorno di Jobs alla Apple e l’iMac, il suo prodotto inaugurale.

Abbiamo parlato delle considerazioni che sono dietro ai lunghi periodi di prove, può parlarci, invece, del Suo lavoro con Michael Fassbender?
Che cosa di lui Le ha fatto credere che fosse quello giusto, in grado di dare vita a questo personaggio?

Non ho mai lavorato con un attore che ha fatto un percorso come quello di Michael o che ha una dedizione così intensa. Non l’ho mai visto guardare il copione, e aveva battute alla Amleto o Re Lear da recitare ogni singolo giorno. Ha assorbito il copione in un modo che non ha nulla a che fare con l’imparare a memoria, non è mai stata una questione di ricordare quando dire una cosa. Conosceva quel copione come se l’avesse scritto lui, e questo ha dato alla sua recitazione una forza che dava l’impressione che lui fosse capace di creare qualcosa davanti a te dal nulla. Ho sempre pensato che ci fosse qualcosa di molto jobsiano in Michael. Ha una gran dote che è l’incredibile intensità che mette nell’applicarsi in quello che sta facendo. E’ davvero un attore che intimorisce. Ma, grazie a Dio, ha spirito. Questo è un copione molto acuto e Michael tira fuori l’umorismo in maniera molto dettagliata e la commedia quando vuole. Nella sua applicazione però fa paura e l’ha mostrato nella sua preparazione. Sono stato fortunato ad avere la possibilità di mettere insieme la sceneggiatura di Sorkin e un attore come lui. Il mio lavoro è stato ‘solo’ quello di assicurarmi che niente fosse d’intralcio o d’ostacolo.

Nel suo ruolo di Joanna Hoffman, Kate Winslet subisce una trasformazione. Ci può parlare un po’ di come si è avvicinata a questa parte?

Beh, se hai Fassbender è meglio avere qualcuno che sia ugualmente dotato per lavorare con lui. E noi l’abbiamo avuta. Kate è straordinaria. Ha un talento unico, naturalmente, ma non mi ero mai accorto di quanto il suo approccio fosse completo e approfondito. E’ una partner fantastica da avere sul set ed è instancabilmente positiva e ottimista riguardo a tutti gli elementi che fare un film comprende, anche il riorganizzare le comparse tra un ciak e l’altro! Joanna Hoffman è la guardiana e la salvatrice che cerca di organizzare quest’uomo impossibile, e Kate ha vissuto brillantemente questo ruolo in ogni dettaglio che fosse sul set o nella storia.
Come Michael, Kate ha assorbito il linguaggio del copione con un’avidità che l’ha fatto sembrare semplice. I grandi attori sono così: la musicalità della scrittura di Sorkin per loro è naturale, la sentono subito e la fanno loro, e subito la trasmettono a noi. E’ molto simile ad ascoltare un gran musicista – gli dai un po’ Mozart e lui parte e… vola.
Sorkin è stato profondamente influenzato dalle sue conversazioni con la vera Joanna Hoffman e dal tempo speso con lei, e ha reso il suo personaggio una persona fondamentale nel copione, anche se nel libro di Walter ha solo poche pagine. Nella nostra storia c’è anche la sua storia. Joanna, alla fine, si rende conto di essere anche lei colpevole di non aver costretto Steve a sistemare il suo rapporto con Lisa prima che lei vada al college. Questo è quello che lo rende un copione commovente e una splendida interpretazione da parte di Kate: lei si rende conto della sua complicità in questo.

Ci può parlare dell’approccio di Seth Rogen al ruolo di Steve Wozniak?

Avere il vero Steve Wozniak con noi durante le prove a parlarci della sua esperienza con Jobs e con la Apple è stata una cosa di inestimabile valore. Seth aveva l’essenza di Woz, fin dall’inizio. Non riesco a spiegarlo; nell’interpretazione di Seth c’è qualcosa che raggiunge la radice del personaggio di Woz. Come spesso fortunatamente capita di trovare, nelle persone molto divertenti c’è anche un attore molto serio e ambizioso, istintivo e competente. Woz crede che si possa, allo stesso tempo, avere talento ed essere una persona perbene, e questa è l’idea che corre come un filo d’oro nel corso di tutto il film. La croce che Woz deve portare nel corso della storia è che lui cerca di far capire a Steve l’importanza del passato —cerca di convincere Steve che il passato gioca un ruolo importante nel processo creativo, proprio come l’innovazione. Ma Steve ha in testa una cosa sola: l’innovazione. Per Steve c’è solo il futuro, e quello è il suo obiettivo. Quello che dice Woz è: sì, certo, l’innovazione ha un ruolo nella creazione, ma la creazione dipende anche dalle persone che vengono prima di te. Ci si appoggia sempre sulle spalle di qualcuno, e il garbo di rispettare questa realtà ti permette di essere uno di loro. Che il suo miglior amico, e l’uomo con il quale ha inventato il personal computer, non si renda conto di questo gli causa un conflitto tremendo. Seth trasmette l’ottimismo senza fine e l’angoscia di questa amicizia in maniera splendida.

Che storia racconta la musica in ognuno degli atti? Può parlarci del suo approccio, e di quello del compositore Daniel Pemberton, alla colonna sonora?

Il primo atto è stato influenzato dai primi suoni dei computer. Gli spettatori sono nella stragrande maggioranza nativi digitali, e questo è sempre più vero, ogni anno che passa. Non si ricordano com’erano i primi tempi della rivoluzione digitale, la nascita di un sound digitale che, a quel tempo, sembrava quasi futuristico. Questo mi interessava, e Daniel ha utilizzato questa sorta di suoni retrò in modo bellissimo.
Ci sono due movimenti musicali nel secondo atto. Uno è una specie di operetta – l’allegro all’inizio è spensierato e quasi capriccioso. Anche il secondo movimento è operistico, ma ha un peso maggiore dato che l’atto procede verso la sua vigorosa conclusione. Questo atto viene anche integrato con un numero di scene che vedono Sculley e Jobs insieme nel corso degli anni che intercorrono tra questo e il 1984.
Il terzo atto è molto minimale ma elegante. E’ sobrio e semplice…un po’ come i prodotti di Jobs.

A un certo punto del film, Steve si paragona a un direttore d’orchestra, dove l’analogia è che dato che lui non è un musicista e non suona uno strumento, il suo lavoro non è suonare uno strumento, è suonare l’orchestra. Ci può spiegare che cosa vuole dire con questo?

Jobs non era un ingegnere o un programmatore. Le sue conoscenze come ingegnere erano basiche, ma lui era capace di sintetizzare tutte le sue altre abilità. Questo è quello che fai da regista, veramente. Io non capisco le cineprese o le luci nel modo in cui le conoscono un capo dipartimento o uno specialista in uno di questi campi. Di sicuro non so fare un costume, ma so sintetizzare le abilità di tutti questi esperti, o almeno spero.

Cosa spera che gli spettatori portino via dal film?

Spero che quando gli spettatori vedranno il film vedranno come il mondo sia stato cambiato da quello che questo personaggio è stato in grado di fare grazie alla sua energia, alla sua forte motivazione, alla sua intelligenza e alla sua folle dedizione e passione – ma anche il prezzo che ha pagato a livello personale.
Per quanto sia un genio visionario, la misura della vera conoscenza di sé e l’umanità arrivano solo quando Steve capisce di essere malato.
In realtà, io non sono in grado di dirvi cosa farvene del film proprio come Steve Jobs non può dirvi cosa scrivere sui vostri iPad! Come narratore di storie, vuoi lavorare su qualcosa di bello, per poi darlo alla gente; quello che le persone ci trovano – e questo è il bello e il brutto di questo lavoro – dipende da loro.

Intervista con lo sceneggiatore Aaron Sorkin

Quale è stato il suo approccio alla biografia “Steve Jobs” scritta da Walter Isaacson come materiale originario per questo film? E quanto pensa che il personaggio cinematografico di Steve Jobs sia vicino allo Steve Jobs vero?

Il libro “Steve Jobs” è essenzialmente un pezzo di giornalismo in una forma più lunga scritto da un giornalista di prim’ordine. Walter è l’ex capo della CNN e l’ex caporedattore del TIME. Walter aveva l’obbligo di essere oggettivo. Io ho il dovere di essere soggettivo, invece, perché faccio arte. Questa è la mia interpretazione di un uomo complicato e dei suoi rapporti marginali. Tutti quelli che hanno collaborato al film, a loro volta, hanno aggiunto le loro interpretazioni soggettive—Danny Boyle, Michael Fassbender, lo scenografo Guy Dyas, il compositore Daniel Pemberton, il montatore Elliot Graham e dozzine di altre persone.
Io e Danny eravamo convintissimi che non stavamo cercando una riproduzione di Steve Jobs, una copia di Steve Wozniak, una copia di John Sculley. Come ho detto, Steve Jobs ha voluto essere fin dall’inizio un quadro, non una fotografia. L’unico evento che ha avuto luogo nello stesso ambiente in cui ha avuto luogo nella realtà è il lancio del Macintosh, nel quale non sono riusciti a far dire al Mac “Hello” ai suoi azionisti. Gli altri due lanci hanno sì avuto luogo, ma in ambienti diversi, e sono sicuro che si sono svolti in maniera molto differente da come li ho immaginati. Tutti gli avvenimenti che vorticano intorno a questi lanci sono la mia combinazione dei conflitti della vita di Steve che ho scelto di rappresentare, condensati in azioni di 40 minuti di tempo reale.
Spero che l’impressione che resta sia quella di un uomo estremamente complicato e intensamente brillante – pieno di difetti, sì, ma che cionondimeno ha sognato in grande e ha spronato gli altri a fare grandi azioni. Alla fine, spero che gli spettatori lo trovino anche umano, una persona che avrebbe probabilmente potuto essere più felice se non avesse creduto che la bontà e il genio fossero qualità binarie.

Può parlarci della struttura caratteristica del film? In che modo permette a Lei e a Danny Boyle di raccontare la storia che volevate raccontare? E il vostro procedimento molto specifico riguardo alle prove come ha giovato al racconto?

Io sono essenzialmente un drammaturgo. Mi sento più a mio agio in luoghi claustrofobici, con una sveglia che ticchetta in uno spazio chiaramente definito e circoscritto. Inoltre, ho pensato che sarebbe stato molto più interessante se questo personaggio, in qualche modo monolitico, venisse osservato durante tre momenti di svolta della sua carriera.
Ho proposto questo approccio alla società di produzione e loro mi hanno dato il via libera.
Leggendo a analizzando il libro di Isaacson — e anche parlando con Steve Wozniak,
Joanna Hoffman, John Sculley, Andy Hertzfeld, Lisa Jobs e Chrisann Brennan — ho identificato cinque conflitti interpersonali chiave nella vita di Steve e ho trovato dei modi per mostrarli ai lanci di questi prodotti. Tutti i miei pensieri sono congetture basate in egual misura sul libro di Walter e sul materiale che ho raccolto attraverso delle interviste personali con i colleghi e i familiari di Steve. La risultante sceneggiatura di 182 pagine è fatta esclusivamente di dialoghi. Alla maggior parte dei registi questa sarebbe potuta sembrare una giungla impenetrabile, una sfida impossibile, ma Danny Boyle l’ha sposata con grande passione. Ha preso queste parole e le ha incastonate in qualcosa di incredibilmente cinematografico e visivamente affascinante. Può prendere una cosa apparente innocua come fare il debug di un programma demo vocale e girarla in un modo in cui altri registi girerebbero una sequenza d’azione. Abbiamo filmato ogni atto come un film separato, in ordine cronologico e in ambienti diversi. La produzione ha dato tre settimane di prove prima di girare l’Atto Primo, e due blocchi di due settimane di prove prima di girare gli Atti Secondo e Terzo. Abbiamo pensato che questo desse agli attori l’opportunità di non imparare il dialogo e basta, ma di assorbire e fare proprio il linguaggio rendendolo naturale. Hanno imparato a vivere i personaggi per prolungati periodi di tempo, molto oltre i pochi secondi che un’inquadratura o un ciak richiedono.

Nel film, Jobs usa la paura, l’inganno e la manipolazione, tra le altre cose, per ottenere i risultati che vuole. Quanto è vera la vostra descrizione dei suoi metodi?

Steve credeva sinceramente che i suoi metodi tirassero fuori il meglio dai suoi dipendenti. Spesso, mandava indietro una prima presentazione dicendo, “Puoi fare meglio. Riprova.” Dopo aver ottenuto una seconda versione, la portava indietro e diceva, “Puoi fare meglio. Riprova.” Tre volte, quattro volte. In realtà, non guardava nemmeno mai la prima, la seconda, la terza e la quarta versione. La sua aspettativa – legittima più spesso che non – era che chiunque potesse fare meglio. Questo potrebbe sembrare insopportabile. In realtà, invece, avere qualcuno che ti sprona a fare del tuo meglio è un gran regalo. E aveva ragione. Io credo che una parte del suo comportamento impopolare avesse a che fare più con la sua personalità che con la sua determinazione a ottenere il meglio da ogni persona. Avrebbe potuto conoscere – e usare – altre tattiche manageriali, certo, ma ottenne i risultati che voleva.

Nel film Woz dice questa battuta, “I tuoi prodotti sono meglio di te, fratello,” e Steve risponde, “E’ questa l’idea, fratello.” Perché è stato importante per lei includere questo scambio?

Gli artisti incanalano nelle loro creazioni una versione migliore di loro stessi. Cerchiamo di trovare una certa perfezione che nella vita non può esistere, e questo è esattamente quello che Steve tenta con i suoi prodotti. Steve si arrabbia molto già negli anni ’70 quando Woz dice: “I computer non sono quadri.” Desumere che quello che Steve stava creando non era arte lo faceva infuriare. Il suo desiderio di rimediare ai suoi difetti personali con quello che dava al mondo era una motivazione fondamentale. Nel corso di tutta la sua vita, credo, Steve ha sempre cercato il potere. Non gli piaceva affatto non avere il controllo all’inizio della sua vita – la storia della sua burrascosa adozione ha avuto delle ripercussioni su tutta la sua esistenza. La sua intera vita creativa è stata una crociata per mantenere sempre il potere, cosa che, secondo lui, garantiva che i suoi prodotti uscissero dalla parte migliore di sé.

Che cosa ha da dire questo film sulla potenza dell’idea di un uomo, e sull’ambizione e l’imprenditorialità americana in generale?

Steve Jobs potrebbe essere stato uno degli ultimi grandi inventori di questo Paese. Ha cercato di costruire quello che al tempo molti consideravano castelli in aria. Ha sviluppato quello che sarebbe poi stato chiamato il “campo di distorsione della realtà”, che gli è stato molto utile. Si avvicinava a un progettista, o a un programmatore, o a un ingegnere e diceva, “Voglio che questo apparecchio sia grande cosìe voglio che sia capace di fare questo.” Il progettista poteva allora controbattere che non sarebbe stato possibile portare a termine il compito con quella misura o, magari, che se lui voleva veramente che funzionasse come sperava avrebbe dovuto avere una misura differente. La risposta di Steve era una cosa del tipo, “Allora tu sei un filisteo; non sai quello che stai facendo e quindi io troverò qualcuno che sappia realizzare quello che ho chiesto.” Alla fine, il progettista ce l’avrebbe fatta e avrebbe portato a termine cose che tutti gli altri dicevano che non potevano essere fatte.
Nel corso del film ci sono numerose volte in cui viene fatta questa domanda su Steve, “Che cos’è che fa esattamente?” Lui non sapeva programmare. Non era nemmeno un ingegnere esperto, né un informatico. Non c’era nessuno “strumento” dell’orchestra che Steve sapeva suonare… ma essendo al comando di una moltitudine di menti creative, ha diretto tutti perfettamente.

Intervista con Michael Fassbender

 

La biografia di più di 570 pagine di Steve Jobs scritta da Walter Isaacson segue le opere dell’autore su Albert Einstein e Benjamin Franklin. Che cosa rende Steve Jobs (e i suoi traguardi) degno di trovarsi in una così spettabile compagnia?

L’idea di Steve Jobs era che i computer dovessero essere per la maggioranza, non solo per gli amatori. Quello che lo ha appassionato sin dall’inizio era l’idea che i computer fossero oggetti facili da comprendere e da utilizzare per noi, e non cose che facevano paura. Questa storia è importante perché Steve Jobs ha cambiato tutte le nostre vite. Ha cambiato il modo in cui funziona il mondo, il modo in cui comunichiamo e interagiamo l’uno con l’altro, come guardiamo i film, come ascoltiamo la musica e come compriamo le cose. Una persona che ha avuto questo impatto merita una riflessione.

La scrittura di Aaron Sorkin ha le caratteristiche di quella dei grandi sceneggiatori di Hollywood come Wilder e Hecht: veloce, divertente e intelligente. Cosa ha pensato del copione quando l’ha letto la prima volta?

Sono state 197 pagine di dialoghi che scorrevano velocemente. La scrittura di Aaron ha un certo ritmo, per questo ho trascorso molte ore da solo a lavorare sul copione. Per fortuna, Danny ha avuto la lungimiranza di programmare un periodo di prove tra la ripresa di un atto e l’atto successivo, cosa rarissima. Anzi, che non succede mai. Io gli sarò eternamente grato, perché non sarei mai stato in grado di girare a questo passo senza quelle prove.

Pochi possono contestare i risultati di Jobs, molti invece ci tengono a notare che non tutti i suoi metodi erano popolari, soprattutto le sue tattiche più machiavelliane. Lei che ne pensa?

Anch’io penso che ci fosse un lato machiavelliano in Steve Jobs. C’erano delle parti della sua personalità che erano crudeli? Forse. E’ necessario rimproverare le persone in quel modo? Forse no… ma talvolta la personalità e i risultati che si raggiungono sono interconnessi. Talvolta le persone hanno bisogno di provocazioni e manipolazioni. E da attore, io so bene che talvolta i registi usano questa tattica. Quando si lavora tanto, la soglia della nostra pazienza si abbassa molto, e qui abbiamo un uomo che lavora molte, moltissime ore, senza sosta. Credo che prima del lancio del Macintosh abbiano lavorato 20 ore al giorno per tre, quattro settimane di seguito. In ogni campo, se stai fermo troppo a lungo, la competizione ti supera e ti fa fuori. Steve Jobs era molto cosciente della necessità di muoversi costantemente, di andare avanti. Quanti giorni di vacanza dal lavoro si è preso quest’uomo in 40 anni? Scommetto pochissimi. Se hai un’idea che stai cercando di realizzare, e trascorri circa 40 anni cavalcandola, non è un’impresa da poco. C’era qualcosa in Steve Jobs che lo rendeva capace di cavalcare quest’idea incessantemente per decenni. Lungo la strada, talvolta, delle persone venivano calpestate. Uno dei membri del team originale di progettisti del Mac ha detto che Jobs operava all’interno di un “campo di distorsione della realtà”, e questo voleva dire che se lui diceva per un po’ di volte che il cielo era verde, tutti intorno a lui cominciavano a credere che fosse vero. Ora, questa è la ragione per cui Jobs è stato capace di volere che la sua idea dei personal computer e di come dovremmo relazionarci a loro esistesse. Sarebbe stato capace di realizzare quello che ha realizzato senza quella forza di volontà? Non lo so. Ma le due cose sembrano interconnesse – era un essere umano molto complesso.

Questa è la sceneggiatura più lunga che Danny Boyle abbia mai girato. Boyle è famoso per il fantastico senso cinetico del suo modo visivo di raccontare. Che cosa ha portato Danny di suo al copione di Sorkin?

Danny è positivo e incoraggiante ed è pieno di energia. Penso che inietti le stesse qualità nel suo cinema. L’energia che da’ alla macchina da presa è incredibilmente importante per un pezzo come questo, dove ci sono essenzialmente delle persone che parlano moltissimo per quasi due ore. Danny ha un background teatrale; è in teatro che ha cominciato veramente a farsi le ossa e conosce quel mondo. Sotto molti aspetti questa sceneggiatura è molto teatrale. Per gran parte del tempo, sembra che i personaggi entrino ed escano dalle quinte; si può facilmente immaginare come uno spettacolo teatrale.

Era noto a tutti all’interno della Apple che solo una persona poteva discutere con Jobs al suo livello e talvolta vincere – la responsabile marketing Joanna Hoffman. Che cosa ha dato Kate Winslet alla sua interpretazione del personaggio di Joanna?

Penso che Joanna avesse una grande influenza su Steve. Ci sono delle riprese di un ritiro della NeXT dopo che Jobs è stato cacciato dalla Apple, dove si vede che lei va diretta al dunque senza risparmiargli colpi. Joanna lo porta a comportarsi in maniera onesta, e io credo che Kate abbia davvero colto questo spirito nella sua interpretazione. Per il modo in cui è interpretata nel film, Joanna è l’unica persona capace di fargli fare un passo indietro.
Per noi questa è stata una bella dinamica su cui lavorare. Joanna gli tira fuori tutta la sua umanità, e io credo che ce ne avesse parecchia, solo che era nascosta. Per me, per la maggior parte del tempo Steve tiene la guardia alta e questo talvolta sconfina quasi in una forma di disturbo. Ha un blocco che rende quasi impossibile per lui essere vulnerabile o aperto emotivamente con le persone. Ho guardato molte sue interviste e ho notato che aveva questo tipo di scudo, di corazza, tutte le volte.
Devo ammettere che devo molto a Kate per la mia performance. Ricordo quando sono arrivato alla lettura delle battute prima di iniziare le prove e lei era un personaggio completamente sviluppato con questo leggero accento, impeccabile. E io ho pensato, “Oddio, sono fritto!” Le sue doti da attrice non sono seconde a nessuno. Quando è arrivato il momento di girare, ci siamo divertiti molto. Potevamo contare uno sull’altra, e questo è quello che vuoi quando lavori con un partner – vuoi sentirti supportato, vuoi sentire che vieni provocato nel modo giusto; vuoi sentire che l’altra persona è fluida e reattiva a quello che fai tu e non vuoi una che, invece, rimane rigida e non si smuove dalle scelte che ha fatto prima ancora di arrivare in scena. Kate è molto intuitiva e tecnicamente bravissima.

Considerando che aveva già lavorato con Aaron, Jeff Daniels è arrivato pronto per interpretare John Scullay e per il brevettato ritmo di Sorkin? Che cosa è stato fondamentale per lei nel comprendere il rapporto tra il suo personaggio e quello di Daniels?

C’è l’ironia, e poi c’è Jeff Daniels. Lui ha l’umorismo più caustico che io conosca. Quello che ha portato con sé è stata questa sua incredibile intelligenza. Lo fa da un bel po’ di tempo – ha una compagnia teatrale in Michigan, e conosce tutti gli elementi che compongono il raccontare una storia. Sono le piccole cose che fa ad essere rivelatrici. Nel primo atto, quando Jobs sorseggia il vino, Sculley lo osserva bere. Sono le sfumature interessanti come questa, solo dei piccoli momenti, a far muovere le cose. Si vede che c’è qualcosa in quel rapporto che è più complessa di quello che viene presentato in superficie. Credo che Jobs fosse attratto da Sculley perché lui veniva da un mondo all’estremo opposto del mondo di Steve. I loro background non avrebbero potuto essere più diversi. Sculley veniva da un ambiente molto privilegiato della East Coast —famiglia benestante, ottima istruzione —e, in un certo senso, Jobs si ribellava contro questo tipo di cose. Ma nel profondo c’era un’ammirazione vera; lui guardava a Sculley con ammirazione. E questo si può vedere nel modo in cui Steve si veste per il lancio della Apple: sta cercando di emulare lo stile di John.
C’è una storia che illustra alcune delle dicotomie nel rapporto di Steve con Sculley. Quando John ha portato Steve al quartier generale della Pepsi, lui ha visto quest’area molto lussuosa, sfarzosa di John in cui i normali dipendenti non avevano il permesso di entrare. Questo ha fatto arrabbiare Steve – non riusciva a capire questo tipo di separazione all’interno di una società. Dall’altra parte, a Steve piaceva il fatto che John guidasse una Mercedes e che avesse stile e buon gusto – questo era importante per Jobs che amava i begli oggetti e il grande design. Quindi c’era dell’ambivalenza.
Il punto era che Jobs aveva bisogno di qualcuno che gestisse il Consiglio d’Amministrazione della Apple. Per quanto riguardava il Consiglio, loro rispettavano Jobs come un genio anticonformista del mondo della tecnologia, ma lo trovavano un tipo difficile con cui avere a che fare – non lo vedevano come un CEO. L’idea di Steve era che Sculley potesse controllare il Consiglio – lui incuteva rispetto e loro rispettavano la sua autorità – ma Sculley non sapeva niente di computer e quindi Jobs poteva manipolarlo. Ovviamente, questo non ha funzionato. Il Macintosh è stato l’inizio e la fine del loro rapporto.

Il rapporto tra Steve Jobs e Steve Wozniak—interpretato da Seth Rogen—è trattato in maniera molto sfaccettata nel film. E’ stato ovviamente un rapporto molto complicato; le collaborazioni creative lo sono spesso. Come vede il loro rapporto? E come è stato lavorare con Seth?

Credo che Steve sapesse di aver incontrato una persona veramente speciale in Steve Wozniak. Sapeva che per lui Woz sarebe stato il mezzo per entrare nel business. Penso che Steve Jobs fosse un bravo venditore, un bravo negoziatore e un grande osservatore del talento. Steve Wozniak era ovviamente quello che aveva il know-how in termini di comprensione dei computer e del loro modo di funzionare. Ma Steve Wozniak sapeva veramente vendere il prodotto e pubblicizzarlo nel mondo? Possedeva la visione d’insieme del vero futuro del personal computing? Non ne sono sicuro. Credo che fossero il classico duo, e credo che questa sia la ragione per cui hanno lavorato bene insieme. Uno era un genio nel progettare, se parliamo di costruire l’Apple II, ma aveva bisogno di un visionario come Steve per portarlo poi fin dove è arrivato. Per Jobs, era solo l’inizio: lui era in grado di vedere tutte le infinite possibilità e questo lo elettrizzava. Quando le persone uscivano da una conversazione con lui, sentivano di aver visto il futuro.
Penso che tutti i set dovrebbero avere una persona come Seth. E’ straordinario e molto professionale. E’ molto generoso, rilassato e tranquillo, ma è anche una delle persone più stacanoviste con le quali io abbia lavorato. E’ una persona incredibile e lavorare con lui è molto facile. Riesce a fare tutte le cose che fa e sembra che se la stia prendendo comoda, ma noi sappiamo che invece scrive, produce, dirige, recita, e con ottimi risultati. Da’ ai suoi personaggi umanità e genuinità. Per Wozniak, ha inserito nella sua interpretazione questi minuscoli manierismi e delle piccole mosse quasi impercettibili in maniera splendida – come il modo in cui tiene le mani – senza mai diventare goffo o maldestro. Mi è piaciuto moltissimo lavorare con lui. L’unica cosa difficile quando lavori con Seth è cercare di non ridere quando stai facendo delle scene insieme a lui.

Andy Hertzfeld sembra essere uno dei pochi nella vita di Jobs che è stato in grado di superare il confine professionale/personale – era un programmatore brillante, uno dei membri della squadra originale del Mac, oltre che uno che si considerava amico di Steve. Che cosa da’ Michael Stuhlbarg a questo personaggio?

Michael è un attore molto serio. La produzione era strutturata in modo che c’erano delle pause tra le riprese, e durante queste pause, o addirittura durante i periodi di prova, ha trascorso molto tempo con Andy Hertzfeld. E’ stato molto tecnico e specifico nel costruire il suo personaggio, e voleva assorbire il più possibile. Se ci fate caso, lui è quello che rompe leggermente il ritmo, la cadenza di Sorkin. Non è che lo rompa davvero, lo cambia però. Lo rispetta ma ci mette delle pause. Con Hertzfeld porta dentro il suo proprio passo.

In un punto verso la fine dle film, Woz dice a Steve, “I tuoi prodotti sono meglio di te, fratello”, e Steve ribatte, “Questa è l’idea, fratello.” Che cosa pensa che voglia dire questo?

A Jobs è sempre piaciuto parlare degli esseri umani in termini della loro efficienza misurata in confronto con altri animali: l’energia che investono in relazione all’effetto che hanno. Quindi diciamo, per esempio, che un condor è l’animale più efficiente del pianeta, in termini di quanto viaggia lontano e di quanta energia consuma per arrivarci. Gli esseri umani, in realtà, sono in coda alla lista, ma un essere umano in bicicletta diventa un animale più efficiente. Jobs aveva letto questo concetto la prima volta su Scientific American e l’idea degli esseri umani come costruttori di strumenti, e quella che i nostri strumenti ci permettono di trascendere i nostri limiti ed espandere le nostre capacità naturali, gli è rimasta molto impressa. Questo è il senso che io ho dato a questo dialogo tra i due Steve.

Quando Steve Jobs è morto, c’è stato un ampio sfogo di dolore su scala globale. Questo ha sorpreso alcune persone: sembrava più il dolore che ci si aspetta quando muore una rockstar o uno stimato leader mondiale. Che cosa di Jobs ha commosso così tanto la gente?

Era siuramente un visionario a vari livelli, non solo rispetto al personal computer. Steve ha immaginato i computer come oggetti facili da comprendere con i quali si poteva avere un rapporto personale – non quelle spaventose macchine orwelliane che stanno bene in un angolo. Oggi, ovunque si vada, le persone camminano per strada guardando i loro iPhone—registrano, fotografano, scrivono e ricevono messaggi, twittano. L’ iPhone, questo computer in miniatura, è quasi come una seconda mano – è difficile trovare un essere umano che non ne abbia uno. Io lo considero un Henry Ford moltiplicato per mille – quello che ha fatto ha cambiato il nostro modo di vivere la nostra vita. E’ molto semplice e, nello stesso tempo, di enorme portata.

Intervista con Kate Winslet

 

Quali sono stati i suoi pensieri sul copione?

Ho letto il copione a metà dicembre mentre ero in una parte remota dell’Australia e sapevo che, se tutto fosse andato come doveva, mi sarei trovata in una sala prove il nove gennaio a San Francisco. Sembrava un’impresa titanica ma anche molto eccitante. Ho pensato che la sceneggiatura di Aaron Sorkin fosse complessa – ha quest’atmosfera molto amplificata, stressante, creata dall’intensità e dal ritmo della scrittura. Ho pensato che sarebbe stato un progetto stimolante e volevo sinceramente accompagnare Michael in questo colossale viaggio. Accentando il ruolo ho dovuto confrontarmi con tutto questo dialogare che, però, suonava molto naturale. Questo è il modo di scrivere di Aaron. Alle prove poi, ho chiesto consiglio a Jeff su come trattare il materiale, dato che lui ha lavorato con Aaron per anni. Mi ha detto: “Impara le tue battute – impara semplicemente le tue battute. Non perdere un colpo, non cercare di cambiare niente. Impara solo le battute come sono scritte sulla dannata pagina. Non lasciare niente al caso, credimi.” E aveva perfettamente ragione.

Potrebbe descriverci più dettagliatamente il processo delle prove?

Le prove integrate hanno funzionato molto bene. Abbiamo avuto il tempo di mettere tutto insieme. Abbiamo provato davvero tutto e bene, così quando arrivava il momento di girare ogni atto, conoscevamo tutte le nostre battute e sapevamo esattamente cosa stavamo facendo. E’ stato un lusso ed è anche servito a dimostrare, come spesso capita, che più fai i compiti a casa, più spazio hai per gettare via tutto e lasciare che il copione ti si riveli. Non voglio suonare troppo attrice, ma quel periodo ha riunito tutti e ci ha messo sulla stessa lunghezza d’onda – a prescindere dall’importanza del ruolo – e ci ha fatto ritrovare tutti in quello spazio insieme. Le stanze delle prove avevano corridoi e poi stanze ed entrate, tutto segnato con del nastro adesivo sul pavimento. Danny diceva: “Allora, quando attraversi quel pezzo di nastro vuol dire che passi attraverso la prima porta. Quel pezzo di nastro è la seconda porta, e quando arrivi a quella cosa a forma di piccola scatola, quella è la scala a chiocciola.” Il tempo delle prove è stato fondamentale, perché c’erano scene enormi che andavano avanti per 13, 14 pagine – che si traducevano in una ripresa di 10 minuti di dialogo continuo mentre si camminava – e se non l’avessimo conosciute alla perfezione non sarebbero mai potute venire. Tutto sarebbe andato in fumo.

Così Lei ha avuto la possibilità di conoscere Joanna e di vedere delle riprese in cui ci sono Joanna e Steve e il team? Chi è il personaggio di Joanna in questo film?

I vecchi filmini sono stati una gran risorsa, perché mi hanno dato la reale immagine non solo di com’era Joanna durante quegli specifici periodi di tempo, ma anche le sue maniere, il modo in cui parlava. Dava l’impressione di un personaggio piuttosto grande, anche se, fisicamente, è alquanto bassa, circa 1,60, credo. C’erano però questi gesti enormi, e un calore e un entusiasmo incredibili. Quando ho parlato con la vera Joanna Hoffman di questo personaggio, siamo state molto attente a parlare di lei in terza persona. Il personaggio di Joanna si ispira molto alla vera Joanna Hoffman e alle sue storie, ma io ho cercato di catturare e rispettare il suo spirito. Joanna era divertita alla descrizione di lei come la “moglie del lavoro” di Steve all’inizio del film, dato che lei non lo è mai stata davvero. Ha detto che nessuno avrebbe mai scelto una persona tanto disorganizzata e distratta quanto lei come moglie lavorativa! In verità, c’erano tante donne forti e capaci che, insieme, hanno svolto quel ruolo professionale. Aaron ha usato questo personaggio per rappresentare un insieme composito di queste donne.

Quali sono stati i suoi pensieri sulle capacità di Michael Fassbender di affrontare il suo ruolo?

Michael è stato un professionista—su questo non ci sono dubbi. Si è semplicemente rimboccato le maniche e ha usato il suo sistema unico per portare a termine il lavoro. Ricordo nitidamente tutti noi che entriamo nella sala prove, avendo filmato gli Atti Uno e Due, per cominciare le prove per l’Atto Tre. Per la lettura del copione eravamo tutti seduti intorno al tavolo e ogni singolo attore – me compresa – aveva il suo copione davanti. Michael non ha nemmeno tirato fuori il suo dalla borsa, e questo perché sapeva tutte le sue battute e voleva dimostrare a se stesso – credo solo a se stesso – che ce l’aveva fatta. Non stava solo alzando moltissimo l’asticella per tutti noi, stava anche facendo il possibile per consolidare la fiducia in se stesso rispetto alla sua capacità di interpretare quel ruolo.

Come è stato lavorare con Danny Boyle?

Danny era determinato nel suo desiderio di raccontare la storia nel modo più autentico possibile, a cominciare dall’essere a San Francisco. Noi attori e i membri della troupe non eravamo molti. Spesso, di notte, dopo la fine degli spettacoli e quando i cantanti d’opera e i ballerini se ne erano andati, ci intrufolavamo in questi ambienti a respirare quell’atmosfera da dopo-spettacolo che era ancora nell’aria. Durante le riprese, ho apprezzato il fatto che molto del film sarebbe stato girato con la Steadicam che, per me, da’ grande fluidità alla narrazione. Sembrava quasi che le scene fossero tra me e Michael, l’operatore Steadicam e il microfonista. Poco prima della fine, ho avuto l’opportunità di ringraziare Danny. Mi sono ritrovata a dire, “Tutti sono fieri di essere qui perché ci sei tu.” E’ un uomo delizioso che ha fatto sentire tutti a proprio agio e ascoltati – e per un regista far sentire così gli attori e la troupe è una grande cosa.

Può parlarci di come ha curato il suo look, specifico di quell’epoca, nel film?

Sono stata fortunata a venir inclusa nel processo di mettere insieme il look di Joanna. Abbiamo messo insieme il maggior numero possibile di filmati e immagini di lei.
La stessa Joanna ci ha prestato alcuni dei vestiti che aveva tenuto. Parlandoci, lei ci descriveva i vestiti che portava fin nei minimi dettagli, come le spalline e il suo paio di stivali preferiti. Ci ha detto anche che, visto che era “disturbata” dalla simmetria, ha cominciato a portare un solo orecchino, o due orecchini diversi. Questo ci ha portato all’idea per la pettinatura asimmetrica anni ’80 dell’Atto Secondo. Suttirat Larlarb, la nostra costumista, ha fatto tantissime ricerche e ha pure portato alcuni dei suoi vecchi abiti anni ’80 per trarne ispirazione. Nell’Atto Terzo, volevo davvero cogliere il senso della sua età, e anche il fatto che era una madre – le forme cambiano dopo il parto – e che era diventata più materna in generale. La costumista e la truccatrice, Ivana Primorac, hanno condiviso la mia idea – credo che sia per questo che le abbiamo aggiunto un paio di capelli grigi, per togliere la parte lucida, patinata, dal look nero corvino che avevamo usato negli Atti Uno e Due.

In questo film, che impressione avrà di Steve Jobs uno spettatore che non lo conosce?

Credo che lui fosse un genio notevole che, forse a dispetto dell’opinione di alcuni, possedeva una grandissima quantità di calore che nel film viene fuori. Era appassionato e determinato, e voleva il meglio dalle persone. Trovava difficile lavorare con qualcuno che lui pensava non stesse lavorando al suo massimo. Spesso ha creduto che la forza avrebbe tirato fuori dagli altri il meglio, che lui pensava di meritare perché lui stesso dava sempre il meglio. I suoi dipendenti erano lì perché erano il meglio nei loro campi. Aveva degli standard tremendamente alti che spesso per qualcuno erano difficili da sostenere. Sono sicura che fosse difficile lavorare in quelle condizioni, ma questo era Steve. E guardate che cosa ha realizzato.

Intervista con Seth Rogen

 

Nel mondo dei computer e in quello tecnico, il nome di Steve Wozniak è noto. Al di fuori di questi circoli, quando si chiede a qualcuno della Apple, in genere il primo nome che viene fuori è Steve Jobs.

E’ vero. Credo sia difficile dire chi era cosa dellaApple. La questione è ancora aperta. Anche mentre stavamo facendo il film, facevamo ipotesi su cosa i personaggi avranno pensato durante questi lanci importanti. Io devo includermi nel secondo gruppo – non avevo capito quanto Steve Wozniak fosse stato importante nel fare la Apple fino a quando non ho iniziato a lavorare sul film. Per quanto riguarda il mio personaggio, sembra che sia stato Wozniak quello che probabilmente ha detto: “Tutti possono avere un computer”. E’ come se oggi qualcuno dicesse: “Ognuno dovrebbe avere un aeroplano nel cortile di casa”. Sarebbe ugualmente assurdo. Ma era quello che lui voleva, e per questo ha trovato un modo per fare un aereo che costava poche migliaia di dollari e che riusciva a entrare nel nostro garage. E’ stata un’impresa importante. Credo anche che dica molto il fatto che, anche se ha lasciato il suo lavoro full-time alla Apple all’inizio degli anni ’80, Steve Wozniak rimanga l’unico dipendente della società che è stato – ed è ancora – sul libro paga dal primo giorno di esistenza della Apple.

Oggi, i traguardi di Jobs sono praticamente dati per scontati – non possiamo immaginare una vita senza i dispositivi che lui ha lanciato. Tutte queste cose, però, non sarebbero state possibili senza i due “Steve” nel garage della famiglia Jobs.

Sembra che la Silicon Valley negli anni ’70 e ’80 fosse come Hollywood. Sembrava una comunità isolata di persone creative, la maggior parte delle quali aveva lo stesso bagaglio di competenze e gli stessi interessi. Ci si immagina che tutte le persone che si trovavano sia a Hollywood che nella Silicon Valley in quel tempo fossero nel ‘business’– tra l’altro sono gli unici due business che vengono chiamati letteralmente come il posto in cui si trovano. Per me una delle cose più sorprendenti della sceneggiatura di Aaron Sorkin è che molto poco va nella direzione di un’esposizione lineare, incluso un momento di scoperta e di svolta nel garage. E’ molto più una storia umana. Credo che il pubblico scoprirà che Steve Jobs era un tizio molto imperfetto che, nonostante ciò, ha sognato in grande, ha migliorato altre persone e… probabilmente avrebbe potuto essere più felice lui stesso se non avesse creduto che la bontà e il genio fossero due qualità binarie.

Può spiegare quest’ultimo commento?

Steve Jobs aveva il suo modo di procedere nella vita e di motivare quelli che gli stavano intorno, che alla fine venivano spinti a realizzare l’impossibile. Jobs aveva la reputazione di essere un capo veramente molto difficile, per usare un eufemismo. Lui pensava che al servizio del genio, prendersi del tempo extra per aggiungere un po’ di gentilezza alle sue interazioni giornaliere non fosse un uso del tempo redditizio. Nel suo universo, queste due qualità, genio e gentilezza, esistevano in un sistema binario dove c’è l’una o l’altra – zero o uno, sì o no. Woz è un uomo estremamente gentile, e questo è il modo in cui ho deciso di interpretarlo.
E come è stato lavorare con Danny Boyle? Che impressione le ha lasciato?

Se dovessi partire per una spedizione in una giungla inesplorata, vorrei sicuramente Danny Boyle al comando. E’ un maestro nel mantenere le cose in movimento e nel trovare delle piccole opportunità per aggiungere interesse o significati extra a questi piccoli momenti. E’ come quando a scuola si facevano quegli esercizi che servivano a imparare a velocizzare la lettura e la comprensione: le parole ti apparivano davanti agli occhi per un attimo e tu le dovevi leggere e capire davvero velocemente. Poi le mandavano ancora più veloci. E se non seguivi e prestavi attenzione, molto presto perdevi qualcosa di veramente importante. Danny ha preso tutte le parole di Aaron e le ha messe nelle bocche di questi personaggi che si muovono costantemente, e poi ha aumentato la velocità e queste idee vengono fuori veloci e furiose (fast and furious), ma non in una maniera che spaventa. Capisci cosa succede e pensi che sì, è una corsa velocissima ma pure fantastica. Danny è consapevole che stare dietro le quinte, con le persone che camminano per il corridoio parlando di computer potrebbe risultare limitante, addirittura soffocante, ma è anche la parte innovativa. Cercava costantemente di spingere, renderlo interessante e di tenere i fuochi d’artificio mentali sempre scoppiettanti.

Una delle cose che emerge durante questi fuochi d’artificio da backstage è un diverbio tra Woz e Jobs. Che cosa ha portato a questa loro divergenza?

Questa è una delle cose che amo di questo copione: invece di raccontare la storia di Jobs in maniera diretta e lineare – nascita, adozione, scuola, Woz, ah-ah! – vediamo il personaggio di Steve passare sotto le forche caudine di tutti i conflitti di quel momento della sua vita appena prima del lancio di un prodotto. Se questo pover’uomo avesse davvero vissuto anche lontanamente questa follia tutte le volte che aveva una nuova invenzione da presentare, non credo che sarebbe arrivato sul palco tutte le infinite volte in cui lo ha fatto in realtà. Allora, Woz ha qualcosa su cui discutere con Steve – Danny ha finito per chiamarla la “croce di Woz”. Il prodotto di maggiore successo della Apple fino all’iMac è stato l’Apple II, che era la macchina del mio personaggio e non aveva il controllo end-to-end – funzionava bene con tutti i tipi di hardware, non solo con quelli della Apple. Steve ha insistito perché i suoi computer avessero il controllo end-to-end. E nel copione, Woz di solito dice una cosa tipo, “Ma è quello che vogliono i consumatori!” Steve odiava l’Apple II, anche se fino a quel momento era la gallina dalle uova d’oro, quello che faceva fare i soldi alla società. Nel copione il mio personaggio chiede solo una piccola cosa, e cioè che vengano ringraziati pubblicamente i ragazzi del team della Apple II per il loro lavoro. D’altro canto erano loro quelli che veramente pagavano le bollettte e gli stipendi. Ma dato che questo non va con la sua visione – questo computer non è un purosangue – Steve non vuole annacquare la sua presentazione anche solo citandolo. Così è diventata una richiesta fissa: “Per favore, puoi…?” “No.” “Dai, solo…” “No.” La croce di Woz. E nelle mani di Aaron e Danny è un momento che dice tantissimo su chi sono e sul loro rapporto.

Intervista con Jeff Daniels

 

La prima lettura della sceneggiatura di Aaron Sorkin le ha ricordato qualcosa, vista la sua passata collaborazione con lui?

Sì, la scrittura di Aaron ha una certa musicalità, come quella di tutti i grandi scrittori. E una volta trovata la musica, il ritmo che Aaron incorpora, canta. Mi ricordo quando abbiamo fatto la lettura del copione prima delle prove, prima di cominciare a girare, e sentivi Michael e Kate, poi Seth, tutti, saltarci dentro e, improvvisamente, era come un’orchestra con tanti musicisti che suonavano con la stessa chiave e tutti contemporaneamente. C’erano le entrate e le uscite, i duetti, i trii… è scritta così, non c’erano ad lib. Ero anche molto cosciente della pratica e delle prove che quel linguaggio richiede; specialmente per Michael, che è al centro di ogni scambio in ogni pagina, sarebbe stata una montagna molto ripida da scalare. Un’orchestra non prende i suoi strumenti e suona una perfetta Nona Sinfonia sin da subito. Danny ci ha reso un gran servizio pianificando che le prove si svolgessero prima delle riprese di ogni atto. Questo ha dato a tutti la possibilità di abituare la bocca a quel linguaggio e anche di alzarsi e muoversi perché nessuno sta fermo o almeno, non a lungo.

Chi è il suo personaggio e come compare nell’universo di Steve Jobs?

Steve Jobs ha portato via John Sculley dal suo posto di C.E.O. della Pepsi-Cola per guidare la Apple nel 1983, circa otto mesi prima del famoso spot pubblicitario “1984” e del lancio del Macintosh al meeting con gli azionisti. John è stato chiamato per gestire la parte commerciale/economica delle cose. A Steve piaceva molto il genio di John nel marketing. C’era lui durante la campagna della Pepsi Generation che ha venduto così bene. Quindi, Steve in fondo ha decretato che lui sarebbe stato il visionario e John avrebbe gestito l’impresa. E’ stato, come si dice ora, un ‘bromance’. A entrambi piaceva la compagnia dell’altro ed è piuttosto chiaro che, sotto molti aspetti, John divenne una figura paterna per Steve, il tipo di padre che un piccolo genio cresciuto nel nord della California avrebbe immaginato per sé: intelligente, sofisticato, stimato, abile, benestante. Da quello che ho letto, Steve era un grande venditore che ha convinto Sculley dicendogli: “Non sei stanco di vendere acqua zuccherata? Hai la possibilità di cambiare il mondo.” C’è un giovane visionario che, più o meno, chiede a Sculley se vuole ritornare giovane. Più tardi Sculley ha detto: “Un genio è una persona che vede oggi dove saremo fra 20 anni e sa come arrivarci.” Credo che Sculley fosse elettrizzato dall’idea di fare qualcosa di importante, non solo di spingere un prodotto in modo da far felici gli azionisti – e questo è ironico perché questa è la vera ragione per cui era là. Ma è stata davvero l’eccitante idea di cambiare il mondo a sedurre Sculley, che era felice di farlo.

Ha conosciuto John Sculley?

Sì. —Danny non voleva un’imitazione, ma un personaggio fedele ai sentimenti delle specifiche situazioni. Ci sono elementi di Steve che ci ha messo Michael e ci sono cose di Sculley che io ho aggiunto… ma non al fine di farne un’imitazione. Questo sarebbe stato uno dei modi per farlo, e ci sono state tante ri-creazioni di persone vere sullo schermo molto riuscite; quello che stiamo facendo con Steve Jobs , invece, è interpretare la verità dei nostri personaggi, i sentimenti nelle situazioni che Aaron ha messo insieme in questi stressanti momenti concentrati nel tempo. Una delle cose chiave nel conoscere John per me è stato vedere il senso di perdita che prova ancora oggi.

Si è fatto un’idea sul perché?

Intorno al1985, era chiaro che alla Apple si dovevano prendere delle difficili decisioni finanziarie – decisioni che erano appesantite dalle emozioni e dai sentimenti, sia per Steve che per John. Erano sostanzialmente arrivati ad un bivio: far continuare ad esistere la Apple come società o, dall’altra parte, chiudere. La strada della sopravvivenza guardava all’Apple II come quello che portava a casa la pagnotta, e voleva concentrarsi sulle vendite di quel computer; Steve invece odiava quel computer perché non era una sua creatura. Steve voleva quindi che più risorse venissero spostate verso la sua creazione, il Macintosh, che non andava come la società aveva sperato. John spingeva per l’Apple II, e il consiglio d’amministrazione era d’accordo. Steve allora li ha costretti a votare – lui e il suo Macintosh, o John e l’Apple II— e Sculley ha accettato la sfida. Il Consiglio è stato dalla parte di Sculley e Steve è stato rimosso dalla direzione della divisione Macintosh. Cinque mesi dopo, Steve ha lasciato la Apple e fondato la NeXT, Inc. Quello che è venuto fuori dalla stampa e che è diventata opinione pubblica – alimentata da Jobs per tutta la sua vita – è stato che Sculley ha licenziato Jobs. Ora, io penso che John non fosse lo stereotipo del CEO freddo e senza cuore. E’ una persona a cui piaceva veramente cambiare l’universo con Steve Jobs, che ha fatto quello che pensava fosse giusto sulla base della situazione finanziaria della Apple, e ha preso una decisone che per lui era puramente d’affari. Per Steve, invece, è diventato un tradimento di proporzioni shakespeariane. John ha capito dopo che non era possibile per lui riparare il loro rapporto – e questo senso di perdita lo ha perseguitato. Quando la stella di Steve è esplosa e lui è diventato “Steve Jobs”, Sculley e la sua famiglia sono diventati una calamita che attirava critiche, derisione, malvagità gratuite e odio. Aaron fa fare a John appello a Steve perché sistemi le cose, perché dica la verità. Quando ho conosciuto John ho avuto l’impressione che, anche se è andato avanti, se si occupa di altre cose, la ferita faccia ancora male. Nella mani di Aaron diventa la rovina del re per mano del principe emergente.

Intervista con Michael Stuhlbarg

 

Quali sono state le sue impressioni sul copione per Steve Jobs?

Avevo letto la biografia di Walter Isaacson e sono rimasto colpito dal fatto che Aaron abbia preso un libro di 570 pagine e, in due ore, sia stato capace di trasmettere così tante informazioni sulla vita di una persona con così tanto umorismo e tanta umanità. Tratta dettagliatamente molti argomenti in maniera quasi astratta, senza fare ricorso a una cronologia, a una catena di eventi da A a B a C. Quello che veniamo a sapere lo conosciamo, invece, attraverso le interazioni non-stop di Steve con i suoi colleghi – e con alcuni membri della sua famiglia – nei 40 minuti che precedono la presentazione di tre nuovi prodotti. C’è il Macintosh, poi il cube NeXT, poi l’ iMac. Il prima di ogni lancio, nel copione, è un atto pieno di dialoghi serratissimi tra tutti quelli che incrociano il cammino di Steve.

Questa storia coinvolge molte personalità forti. In che cosa spicca il personaggio di Andy? Cos’è che ammira di più del suo personaggio?

Il personaggio di Andy è quello che dice la verità; dice sempre quello che pensa noncurante delle conseguenze. Dice tutto, sia le cose belle che brutte. Non è cattivo o maligno, è semplicemente se stesso. Credo che questa sia una delle cose che a Steve piacciono di lui. Andy dice che di solito parla troppo ma io lo trovo simpatico. Quando è con Steve lui porta leggerezza e io credo che tiri fuori dei lati del carattere di Steve che agli altri non capitava di vedere tanto spesso.

Il suo personaggio gioca un ruolo fondamentale nella storia e nello sviluppo del Mac. Ci può parlare un po’ di questo?

Andy era un membro del team originale del Mac. All’inizio del copione, alla vigilia del lancio del Mac, Andy è nel panico perché c’è un elemento nella dimostrazione che non funziona e Steve ha dato a lui la responsabilità di farlo funzionare. Precedentemente, Steve aveva chiesto al team del Mac di contribuire alla presentazione del prodotto, e Andy aveva dato una mano con la parte musicale. Steve insiste sul fatto che il computer si presenti dicendo “Hello” al pubblico. E Andy deve far sì che questo succeda. Quando non funziona, Steve usa l’intimidazione per spronare Andy a farlo funzionare. Lo minaccia dicendo che dirà davanti a tutti che Andy è stato l’unico responsabile della fallimentare dimostrazione vocale. Io le provo tutte, e alla fine riesco a trovare qualcosa che consente al Mac di dire “Hello”.

In che modo, secondo lei, il Mac rispecchia i suoi inventori?

Steve era uno snob, e voleva essere sicuro che le sue creazioni non potessero subire abusi o usi impropri. Per salvaguardare il Mac da chiunque – ad eccezione dei dipendenti della Apple – volesse aprirlo, per fare cose come tentare di aggiungere più memoria, la Apple lo ha reso impossibile se non con degli attrezzi speciali; gli attrezzi che possiamo trovare in una normale cassetta non funzionano. Questo tipo di misure venivano chiamate controllo “end-to-end” e sono state una cosa per cui Steve ha esercitato forti pressioni. Più tardi ha messo alcune capacità esclusorie di questo tipo nel suo progetto successivo, il computer NeXT – le e-mail inviate da un NeXT potevano essere ricevute solo da un altro NeXT, almeno all’inizio. Per contrasto, la creatura di Steve Wozniak, l’Apple II, non aveva nessun controllo end-to-end perché secondo lui i consumatori non lo volevano. Quindi sì, io penso che le invenzioni possano portare i tratti dei loro inventori. Il bisogno di controllare e comandare di Steve è un conflitto presente in tutta la nostra storia come il fatto che questo dominio sugli altri ha influenzato i suoi rapporti. Qualcuno riesce a prenderlo per come è, altri invece si allontanano da lui.

Qual’è stata la sua esperienza con il vero Andy Hertzfeld prima delle riprese? Quali cose venute fuori nel tempo che avete trascorso insieme ha inserito nella sua caratterizzazione del personaggio?

Mentre raccoglieva materiale per la sceneggiatura, Aaron Sorkin aveva portato a termine delle interviste con Andy. Più tardi, Andy è venuto a parlare con noi durante il nostro primo periodo di prove. Per lui è una storia molto personale e io ho sentito la responsabilità di contribuire a raccontarla. Nel corso delle mie successive conversazioni con Andy, una delle cose che mi ha offerto la chiave per entrare nella sua dinamica è stata che Andy ha mantenuto l’amicizia con Steve, per la maggior parte, alle condizioni di Steve. Credo davvero che nella loro amicizia ci fosse rispetto reciproco ma ogni volta che Andy programmava di vedere Steve, Steve si tirava indietro… o semplicemente non succedeva. Di solito la dinamica era che Steve compariva davanti alla porta di Andy e i due facevano delle cose insieme. Andy accettava completamente Steve per quello che era. Lo spirito di Andy viene fuori nell’entusiasmo per il suo lavoro, e nella sua fissazione e il suo stupore per quello che i computer possono fare. Ha sempre mantenuto il senso della meraviglia per quello che fa, e questo è stata una bella esperienza per me.

Intervista con Katherine Waterston

 

Qual è stata la sua prima reazione alla sceneggiatura di Aaron Sorkin?

Mi è sembrato di averla letta in cinque minuti, senza respirare mai; era davvero intensa ed emozionante. Aaron ha uno stile di scrittura unico; tutti i suoi personaggi sono davvero complicati e intelligenti e lui non li tradisce e il ritmo è vorticoso. Leggere una bella sceneggiatura è seducente. Ti fa venir vogli di recitarla, di metterci sopra le mani, di giocarci e di cercare di immaginare come farla cantare. Fa paura quando ami un progetto e speri che ti scelgano per la parte, ma credo di essere stata troppo eccitata per sentire la paura. Credo che in questa produzione tutti si siano prefissi uno standard molto alto e tutti volevamo esserne all’altezza.

Chrisann Brennan è la ragazza di Steve Jobs del liceo e la madre della sua prima figlia, Lisa. Descriva il suo personaggio e il suo rapporto con Steve Jobs.

Se il mio personaggio di Chrisann dovesse descriversi, credo che direbbe che è per prima cosa una madre. Gran parte della sua identità, nel bene e nel male, è quella di custode e protettrice di sua figlia. Tutte le madri lo fanno in qualche modo, ma io penso che la posizione in cui viene messa costringa Chrisann a fare di Lisa il suo unico pensiero. Chrisann è stata la fidanzata di Steve Jobs e i due hanno avuto una relazione fatta di tira e molla per anni e poi lei è rimasta incinta. Penso che lui abbia avuto un’interessante reazione a questo: ha prontamente negato la paternità e non si è assunto nessuna responsabilità per il bambino. All’inizio del film, troviamo il mio personaggio molto frustrato e in una situazione tragica e disperata. Compare con Lisa al lancio del Macintosh per cercare l’aiuto di Steve. E’ anche molto arrabbiata per alcune delle cose che lui ha detto di lei pubblicamente e che l’hanno umiliata. Quindi è lì anche per confrontarsi con lui su questo.

Com’è il rapporto di Steve con Lisa nel film?

Quando vediamo Lisa e Steve insieme per la prima volta, il modo in cui si relazionano uno con l’altra è un po’ goffo, imbarazzato —non hanno mai passato molto tempo insieme.
Credo che, da una parte, lui sia per lei una figura affascinante ma che, allo stesso tempo, la spaventa perché lei non sa che cosa è per lui. E lui non è particolarmente, o tipicamente, paterno con Lisa. L’interessante in questa dinamica è che lui le parla come se lei fosse intelligente, come se fosse una persona. Lui riconosce quanto lei è intelligente, e questo è fantastico, ma poi comunica con lei come fa con tutte le altre persone intelligenti della sua vita; è piuttosto insensibile, spesso indelicato. Sembra non saperle dare quello di cui lei ha chiaramente bisogno, e cioè, ovviamente, un po’ di attenzione. Mentre giravamo queste scene, la parte femminile di me si è quasi ammalata per quello che io consideravo uno scioccante modo di trattarla —la parte di me attrice lo ha usato per seguire Michael.

Com’è stato essere diretta da Danny Boyle, e che tipo di energia ha portato sul set?

Sul set Danny è generoso e di supporto. E’ collaborativo e per un’artista questo è il meglio che si può sperare: sentirsi sostenuti nelle proprie scelte e liberi di osare. Credo che la cosa che Danny porta con sé e che io apprezzo di più sia la pazienza. In ogni film si riesce quasi a sentire il ticchettio di una sveglia: tutti sanno di avere una finita quantità di tempo per azzeccare le scene. Con Danny, invece, non ho mai sentito questa pressione anche se per tutto il tempo sapevo che lui stava facendo contemporaneamente altre dozzine di cose, di cui neanche immaginavo l’esistenza. Manteneva il suo aplomb per tutta la ripresa. E’ davvero ammirevole.

I personaggi di Chrisann e Steve hanno un rapporto molto complicato e conflittuale. Com’è recitare con(tro) Michael Fassbender?

Una delle capacità che da attore affini è la fede totale nel ‘qui e ora’ e nella verità del momento. Dovevo rimanere all’interno di quella verità perché se mi fossi accorta che stavo lavorando con Michael Fassbender, il timore reverenziale mi avrebbe sopraffatto. Timore reverenziale per le capacità e il talento che possiede. A essere onesti, lo trovo fastidioso: l’ho visto in quell’indie in cui indossava una testa di cartapesta per tutto il film ed è stato assolutamente coinvolgente. Da’ tantissimo a questo ruolo. Credo che un altro attore si sarebbe lasciato intimidire dai lati più discutibili e oscuri di Steve Jobs, Michael invece li ha sposati. E’ disposto a essere sgradevole. E’ molto coraggioso e semplicemente straordinario.

Quale pensa sia, nel mondo, l’impatto del lavoro fatto da questo piccolo gruppo di persone che seguiamo in questo film, e come ha cambiato il modo in cui la gente vive oggi?

E’ davero sbalorditivo pensare all’impatto che così poche persone hanno avuto sul modo in cui tutti noi viviamo oggi. I bambini oggi sono quasi naturalmente portati per la tecnologia, e la mia generazione non lo è mai stata. Sono state rese possibili rivoluzioni perché la gente è stata in grado di comunicare con questi piccoli apparecchi che si tengono in una mano. Come sarebbe stato il nostro mondo se questo folle visionario non fosse arrivato, se non avesse seguito il percorso che ha seguito e non ci avesse creduto così tanto? Che cosa sarebbe successo se la persona che invece è arrivata non avesse avuto la capacità di presentare questa tecnologia in un modo che fosse così appetibile, attraente e accessibile? Steve ha umanizzato questi apparecchi e ha fatto sembrare tutto possibile.

Intervista con Perla Haney-Jardine

 

Cosa ha pensato quando ha letto il copione per Steve Jobs la prima volta? Di cosa parla il film, secondo lei?

Quando ho letto il copione ho sentito un’affinità con Lisa, perché abbiamo più o meno la stessa età e a lei piace scrivere; ho pensato che fossimo molto simili. Penso che, nella sostanza, il film parli dell’impatto che una persona può avere. E’ un film su Steve Jobs, un genio che ha progettato computer all’avanguardia, e sul suo rapporto con la gente che gli sta intorno. Anche se si potrebbe mettere chiunque in questa dinamica: tutti hanno un gruppo di amici e una famiglia sui quali possono avere un effetto come quello che ha avuto Steve. Il film parla quindi di rapporti, e delle conseguenze dell’essere miopi come era Steve.

Prima di questo film, conoscevi la storia della carriera di Steve Jobs, o l’uomo Steve Jobs?

Sapevo chi era Steve Jobs, come quasi tutti, e che non era il preferito di molti, ma non avevo idea che i suoi rapporti con i suoi dipendenti e i suoi pari e con la sua famiglia fossero così complicati. Lui è stato davvero un’icona, ma di lui prima sapevo solo che era il genio che aveva realizzato questi prodotti straordinari.

Come sono state le prove? E com’è lavorare con Danny Boyle e Michael Fassbender?

La mia parte preferita è stata guardare le attrici che interpretano le versioni più giovani del mio personaggio, Makenzie Moss (Lisa a 5 anni) e Ripley Sobo (Lisa a 9 anni). Sono andata a vederle provare per prendere Ie loro piccole stranezze e le loro buffe maniere e pose. E’ stata un’esperienza interessante. Non ho mai lavorato a un film che avesse così tante prove ed è stato davvero utile. In qualche modo, Danny ha trovato l’equilibrio perfetto tra la regia e il farti fare le tue cose. Quando mi hanno chiamato, sono volata a L.A. e ho fatto questa scena per lui. Mi ha detto che gli era piaciuta molto l’ultima parte e mi ha dato delle indicazioni per la prima parte. Poi mi ha detto di andarmene per un paio d’ore – solo per pensarci su – e poi di tornare. E’ stato grande da parte sua darmi questa opportunità. Credo che in qualche modo lui sapesse che pensarci e ripensarci e ripensarci ancora e rimuginare ancora e ancora mi avrebbe davvero aiutato.
Per quanto riguarda Michael Fassbender, lui porta con sé un’energia rilassata ma, allo stesso tempo, è un attore molto meticoloso. Gli piace analizzare il suo personaggio, ritornare alle radici delle cose e farsi delle domande. Mi piace lavorare con lui perché parliamo molto dei nostri personaggi e del loro rapporto – anche di cose che non sono neanche lontanamente nel copione. Vuole che tutti facciano bene e vuole che tutti sappiano precisamente perché stanno dicendo una cosa. Apprezzo questa attenzione ai dettagli e questa chiarezza.

Che cosa muoveva Steve Jobs, secondo lei?

La possiamo mettere così: Steve Jobs era un egocentrico. Era mosso dal suo perfezionismo. Aveva anche bisogno di conferme da parte dei suoi pari e della sua famiglia, ma per lui era difficile trovarle perché era come se non avesse gli strumenti giusti né per chiederle, né per riceverle se gli fossero state date. Immagino che sapesse che non poteva impressionare la gente con la sua gentilezza o bontà e quindi ha imparato a impressionare la gente essendo eccezionale.

Qual è, secondo lei, l’eredità che ha lasciato il gruppo di persone di cui parla il film, e l’influenza che ha avuto sul mondo? E che ruolo gioca questa tecnologia nella sua vita?

L’eredità della squadra originale della Apple è quasi un monopolio sull’industria tecnologica. Hanno costruito questo incredibile marchio che è diventato molto più che solo i computer Apple – è una parte enorme della cultura popolare, con la gente che aspetta in fila per ore per comprare il nuovo prodotto Apple. Prima della Apple, la gente pensava che i computer servissero per programmare e per progettare giochi – cose per nerd. Ora invece, l’uomo medio vede la tecnologia come qualcosa da poter utilizzare in una maniera creativa: sa usare queste macchine che prima sembravano così incomprensibili e che ora sanno fare così tante cose, incluso permettergli di restare in contatto con le persone che sono molto lontane.
Se questa squadra non fosse mai esistita, se questa tecnologia non fosse mai esistita – niente iPhones, niente computer Mac, niente FaceTime— si sarebbe persa la sensazione di fare parte di una comunità più grande, del mondo intero. Io personalmente ho un rapporto di amore/odio con la tecnologia; mi meraviglia che possiamo avere accesso a un gran numero di informazioni da un minuscolo computer ma, allo stesso tempo, riconosco il distacco che questo porta con sé. Vedere tutti i tuoi amici intorno al tavolo che guardano il loro cellulare è la rappresentazione del pericolo insito nella tecnologia; senza di essa potremmo avere una società più vicina, più intima, nella quale interagire con i nostri simili faccia a faccia o per niente… ma perderemmo questa connessione con il mondo. Secondo me, un mondo senza tecnologia, sarebbe un mondo molto isolato.

Intervista con il direttore della fotografia Alwin Küchler

 

Come si sono svolte le sue discussioni iniziali con Danny a proposito della fotografia per Steve Jobs? In cosa sarà diverso questo progetto dalle sue precedenti collaborazioni con Boyle?

Già dalla prima volta in cui abbiamo parlato del film, abbiamo parlato di movimento,
e cioè che avrei dovuto pensare a un piano operativo per la cinepresa che andasse oltre al “fissa, punta e gira”. Le manovre delle telecamere sarebbero state un esercizio coreografato, che gira intorno al personaggio di Steve abbastanza velocemente da vedere tutti gli altri che si catapultano dentro e fuori dall’inquadratura. I movimenti di camera erano fondamentali – dovevano reagire direttamente alla recitazione. C’era bisogno di un controllo costante sulla distanza fisica tra gli attori e tra gli attori e la cinepresa. Anche se la Steadicam di solito viene utilizzata per le sequenze d’azione o per gli inseguimenti, con Jobs in movimento perpetuo, era ia scelta giusta. In questo film si sta molto in piedi e si cammina molto. Inoltre, abbiamo parlato di usare degli zoom sulla Steadicam, oltre ad altri tipi di obiettivi, per poter intensificare, rallentare o velocizzare i movimenti. Eravamo d’accordo sul fatto che tutto quello che facevamo doveva dare priorità agli attori e dare loro una giusta piattaforma sulla quale agire. Ironicamente, più ci addentravamo nelle riprese, più restavo affascinato da come l’attività dietro-le-quinte rispecchiasse sempre più l’azione davanti alla cinepresa.
Nel copione tutti devono stare dietro a Steve che è sempre il centro e sempre in movimento. C’è una cinepresa che circola e le persone appaiono dentro e scompaiono fuori dall’inquadratura tentando soltanto di tenere il passo con lui. Danny era estremamente preparato ed è arrivato con le idee molto chiare, e quindi dietro la macchina da presa è stato per tutti i reparti una correre per stare dietro al nostro cinetico regista.

Come altro avete realizzato questa filosofia di un “movimento perpetuo” nel film?

Per molti versi, io ho trattato Steve Jobs come un thriller. C’è un continuo catapultarsi di parole, con persone estremamente intelligenti che si tirano parole e frasi l’una all’altra – nascono idee, si lanciano sfide. C’è un’energia e un’atmosfera da corsa di velocità, un orologio che ticchetta e che pretende che tutti mettano ancora più sforzo nel compito che stanno svolgendo. E’ un’atmosfera da “dobbiamo farcela o peggio per noi!”
E dentro questi spazi monta la pressione, lo stress. Credo che l’energia che Steve Jobs metteva in ogni interazione spingeva la gente verso di lui. Credo che molte persone andavano a lavorare per la curiosità di scoprire cosa poteva essere realizzato in quel giorno. Il bombardamento di idee creava un’atmosfera che costringeva tutti a tentare di superare gli altri. Tutti erano costantemente ‘on’, in funzione. Volevano essere il meglio di loro stessi e i più intelligenti per Steve. La biografia dice che Steve non era mai statico, fermo, e noi l’abbiamo presa alla lettera. Ci sono pochissimi momenti in questo film in cui qualcuno si ferma per fare un bel respiro. Il nostro operatore Steadicam, Geoffrey Haley, si è rivelato un vero artista e il suo lavoro ci ha permesso di costruire le scene e di dare scorrevolezza al movimento attraverso i tre spazi e i tre atti. Durante il colloquio per avere questo lavoro, Geoff ha parlato della sua reazione al copione, alle parole di Aaron, mostrando un rispetto profondo per la lingua. Avevo bisogno di qualcuno che fosse veramente motivato per tenere il passo e avere l’energia fisica che ci sarebbe voluta per stare in mezzo a questo ambiente carico ed elettrizzante di attori e parole in movimento.
Se siamo stati capaci di realizzare quello che abbiamo realizzato, molto è per merito di Geoff.

Come sarebbero stati differenziati dal punto di vista visivo i lanci dei tre prodotti?
In che modo le diverse tecniche cinematografiche supportano la narrazione?

Volevamo che la fotografia rispecchiasse gli ambienti in cui si svolge l’azione: l’Atto Primo nel 1984 è ambientato in un luogo che ha un’atmosfera molto istituzionale, l’Auditorium Fint al De Anza Community College, e qui abbiamo girato in 16mm perché la sgranatura da’ un tocco improvvisato e rudimentale a questa presentazione da parte di un gruppo preoccupato di creativi deprivati del sonno; quattro anni più tardi, la grandiosità della War Memorial Opera House di San Francisco sarebbe stata immortalata in 35mm, con le sue belle qualità cinematografiche che enfatizzano i temi operistici di questo atto, oltre che la crescita di Steve da geek a mattatore; e per l’Atto Terzo nel 1998, con il lancio dell’iMac nella Davies Symphony Hall di San Francisco, abbiamo usato il camera system digitale stile cinema ALEXA, esso stesso un risultato tecnologico al quale Jobs ha aperto la strada.
L’Atto Primo è stato quello che più di tutti somigliava a un set cinematografico dove le riprese sono l’unica cosa che determina la pianificazione. Eravamo soli e questo è stato un gran regalo perché ci ha dato la possibilità di impratichirci col nostro modo di girare in perpetuo movimento. Gli Atti Due e Tre sono stati considerevolmente più complessi, perché giravamo all’interno di sale in funzione, con un programma completo di prove, incontri e concerti che noi abbiamo dovuto aggirare. Alla fine è stato un piano di battaglia messo insieme in maniera intricatissima. Danny diceva che era come se la produzione fosse inseguita da un branco di cani. Avevamo pochissimo tempo per essere fuori da uno spazio e in pochissimi minuti lo spazio che avevamo appena evacuato si riempiva di ballerini, musicisti o attori. Tutto quello che avevamo imparato durante le riprese dell’Atto Uno è stato messo a dura prova all’interno dell’Opera House e della Symphony Hall. Alla situazione già complessa si aggiungeva la limitazione nell’uso delle luci. Per esempio non potevamo appendere luci nell’auditorium. C’erano alcuni spazi in cui ci permettevano di cambiare le luci, e altri dove potevamo aggiungere un paio di luci extra. In certi spazi dovevamo portare le luci la notte prima. E’ stato un lavoro molto diverso da tutti quelli che ho fatto prima. Il mio tecnico delle luci doveva provare l’allestimento e smantellare le luci con un cronometro, e ha dovuto continuare a fare pratica per riuscire a farlo nel minor tempo possibile – sempre più velocemente, più velocente! Alla fine siamo arrivati al punto in cui non entravamo in uno spazio prima che venisse completamente svuotato e eravamo fuori prima che chiunque nella Symphony Hall potesse seccarsi di noi!

Qual è stato per lei il più impegnativo – e il più singolare – aspetto nel girare Steve Jobs?

E’ strano, ma io penso che la risposta a entrambe le domande sia la stessa. Credo che probabilmente la cosa più fantastica di questo film sia la brillante accoppiata Danny Boyle—che, si può dire, è noto per i suoi fuochi d’artificio visivi – e Aaron Sorkin—il cui biglietto da visita è lo stile iperintelligente e centrato sulle parole. Pensandola in questi termini è una combinazione in qualche modo inaspettata, in realtà. Ma vedere le loro due visioni unirsi è stato stimolante e motivante. Detto ciò, come accennavo prima a proposito della corsa contro il tempo che è stata l’agenda delle riprese per il secondo e terzo atto … tutto è stato fatto sempre per assicurarsi che la fotografia fosse al servizio delle parole. In alcuni casi forse sarebbe più giusto e veritiero dire che avevamo bisogno di assicurarci che la fotografia tenesse il passo con le parole. E’ stato brillante e impegnativo allo stesso tempo.

Intervista con lo scenografo Guy Hendrix Dyas

 

Cosa ha provato ad affrontare un progetto che si svolge in tre ambienti specifici in tre anni diversi?

Credo che la cosa che ho trovato più eccitante del copione sia stata proprio questa limitazione dal punto di vista visivo, il fatto cioè che si svolgeva in tre ambienti – tre luoghi ad esattamente la stessa ora del mattino in tre periodi differenti: il 1984, il 1988 e il 1998. Da scenografo, come puoi far funzionare questa cosa? Come fai a mantenere vivo l’interesse del pubblico sapendo che stai lavorando con un’icona come Danny Boyle, che si aspetta una struttura, un progetto visivo speciale? E avendo anche una sceneggiatura straordinaria di Aaron Sorkin, scritta nel suo stile ormai famoso, e cioè fatta di pagine e pagine di dialoghi brillanti. Danny ha letto il copione e ha deciso che Steve Jobs non era un uomo che stava seduto a contemplare. Era sempre in movimento e sarebbe sempre stato così. Così il ritmo del film, per molti versi, era diverso da tutto quello che avevo fatto prima: parlare e camminare, ma in tre luoghi diversi. Lavorare con dei parametri come questi mi ha dato l’opportunità di dare il meglio per trovare soluzioni sempre migliori attraverso le scenografie.

Come ha proceduto per arrivare a differenziare i tre atti dal punto di vista visivo?

Il primo atto riguarda la creatura di Steve, il Macintosh, il prodotto che ha annunciato il suo arrivo nel mondo dei computer e che lo ha fatto conoscere. Questo a seguito dello spot rivoluzionario “1984” che lo ha marchiato come il nuovo innovatore. Questo sarebbe stato il primo di innumerevoli lanci per i media, e lui si trova nel suo elemento come brillante venditore e showman in crescita. Quindi, anche con le sfide personali e professionali che lo attanagliano e che gli si ripresentano continuamente, lui è a suo agio.
Saltiamo al secondo atto, tre anni dopo il suo licenziamento barra defezione dalla stessa società che lui aveva creato. E vediamo un uomo che vuole vendicarsi: sebbene sia mascherato da lancio del computer della sua nuova società, la NeXT, in realtà è per mettere in imbarazzo la Apple. Dopo una brutta separazione, se sai che ti imbatterai nella tua ex, ti assicuri di essere fantastico e che la persona che sta con te sia uno schianto, no?
Il terzo atto è un decennio più tardi, e Steve Jobs sta davanti a noi come un uomo del rinascimento che ci indica la via verso un futuro reso più facile e migliore dalla corrente di suoi straordinari congegni – e sta per mostrarci la macchina che darà inizio a tutto.
Non ci sono, quindi, solo differenze nei periodi e nelle diverse location, abbiamo anche umori e toni completamente diversi. E’ fantastico avere tanti professionisti e capi reparto straordinari come è capitato a me, tutti che contribuiscono con le loro idee a rendere ogni scena e ambiente al meglio. Il modo in cui Alwin ha girato gli atti – e il suo utilizzo delle diverse cineprese, telecamere e sistemi – da agli spettatori ‘lenti’ diverse attraverso le quali vedere questi lanci. Più che semplicemente riprodurre la moda dei tempi e i vari look immortalati in fotografie vere di queste persone, Suttirat ha vestito i nostri attori con gli scopi e le verità dei loro personaggi. Daniel – addirittura durante le riprese – produceva un paesaggio musicale che amplificava le situazioni e i conflitti che entravano in campo, senza togliere nulla all’immensa quantità di lingua parlata dai personaggi e alle informazioni rivelate.
Talvolta, una scelta ovvia si rivela essere la migliore: il colore sarebbe stato per me il modo per delineare i diversi atti. Se si sfoglia qualsiasi materiale storico, si trovano in ogni periodo dei colori dominanti nella moda, nell’architettura e nella cultura. Il colore sarebbe stato sia il barometro del tempo che l’indicatore del luogo. Per l’Auditorium Flint nel 1984, abbiamo scelto gli istituzionali verdi e grigi. Nel 1988 all’Opera House dovevano esserci i rossi – il colore della passione, della vendetta – e gli ori, che indicano la grandeur. La Symphony Hall nel 1998 è una tavolozza di toni naturali in questo spazio aperto che sembra dare il benvenuto e indicare il futuro. Per me, come scenografo, si è trattato di “dipingere” gli sfondi per dare più intensità a quello che pensavo raccontasse ogni atto.

Gli Atti Due e Tre sono stati girati in sale per spettacoli aperte al pubblico che richiedevano un immenso lavoro di preparazione solo per entrarci e filmare. Naturalmente, lei e il suo reparto non siete corsi dentro con vernici spray e teli protettivi.

E’ vero, se siamo riusciti a fare molto con l’arredo e la decorazione, il resto è stato più un evidenziare i colori che avevamo scelto già presenti in questi luoghi. Nell’Atto Primo c’è stata più libertà d’azione. Flint ha questo aspetto più vecchio e istituzionale e quindi i grigi, i verdi e il mostarda lì sembravano molto naturali. Abbiamo anche incluso della grafica dipinta e delle strisce, che erano molto popolari alla fine degli anni ’70 e all’inizio degli ’80. Se si vuole essere puntigliosi sulla sequenza girata al Flint, si può notare che i colori sono più fine anni ’70, ma questo ha funzionato molto bene per noi. Il lancio riguardava anche il far saltare gli ultimi residui del passato – e quindi eccoli lì. Inoltre, non mi è dispiaciuto affatto creare una distanza maggiore dall’Atto Secondo, in modo da creare anche una distanza più simile tra i tre lanci. E’ stato un vero dono poter usare la War Memorial Opera House di San Francisco, che è un edificio splendido, glorioso e bellissimo ed è profondamente radicato nella storia della città. Ci siamo divertiti a intensificare gli ori e i rossi, e abbiamo lavorato a rafforzare il backstage. Volevamo dei valori da opera.
La Louise M. Davies Symphony Hall è un edificio più nuovo, è aperto, è luminoso. Mescola tutti questi legni dal colore molto chiaro con queste tegole acustiche di plexiglas sospese sopra al palco all’interno di questa sala meravigliosamente progettata. C’è anche il grigio-blu del cemento. Tutti questi materiali creano, stranamente, un’atmosfera molto naturale. Credo che a questo punto vediamo Steve un po’ più come è, e percepiamo anche che lui si sente più a suo agio con la persona che è diventato. Il design suggerisce allo stesso modo il futuro, senza nessun modernismo intenzionale. Speriamo che quando si guarda il film nella sua interezza ci sia un ritmo anche nell’uso dei materiali e dei colori e in come li abbiamo affrontati in ognuno degli atti.

Quanto è stato attento a non incorrere in nessun anacronismo visivo?

Sono sempre paranoico. Per me è stato molto interessante osservare le sottili differenze culturali e i progressi tecnologici di ciascun periodo, anche se sono piuttosto vicini tra loro. Camminavo in continuazione intorno a questi spazi, prestando attenzione a cose come gli impianti e i dispositivi di sicurezza per assicurarmi che fossero di quel periodo. Dovevamo verificare quando certi tipi di allarmi per il fuoco e il fumo –che nell’Atto Uno neanche c’erano – sono entrati in uso. A quel tempo, stavamo appena rendendoci conto delle necessità dei disabili, per cui non c’erano rampe, corrimano, interruttori più bassi, tutte cose che esistono oggi. Le persone potevano fumare quasi dove volevano – abbiamo dovuto andare in giro a togliere tutti i cartelli “vietato fumare”. Quello che mi ha veramente colpito è stato quanto più “intelligenti” siano diventati gli spazi intorno a noi nel corso dei decenni – edifici, luoghi pubblici, anche le nostre case – e quanto di questo Steve Jobs aveva visto arrivare.

Intervista con il montatore Elliot Graham

 

Leggendo Steve Jobs qual è stata la sua prima reazione? E quali sono stati i suoi pensieri sul montaggio di un film così?

Lavorandoci con tutti e parlando di come avremmo affrontato il film, ho capito che ognuno aveva il suo pensiero e le sue idee sul copione, ma tutti condividevano una cosa: il copione era centrato sulle parole. Tutto il resto – la trama, la Storia, i conflitti – veniva da lì. Nella mia testa ci pensavo come a un “film action di parole”. Il dialogo è un incessante setup di una battuta e chiusura, setup e chiusura. Devi mantenerlo vivo, farlo fluire. Dovevamo creare una corrente di energia dall’inizio alla fine che portasse lo spettatore attraverso questi dialoghi mentre i personaggi viaggiano di stanza in stanza. E’ nostra responsabilità rendere ogni entrata in una stanza diversa o in un corridoio in qualche modo rivelatrice – tutto si svolge in spazi di backstage prima di questi tre importanti momenti nella vita di Jobs – in modo che lo spettatore segua le idee e il linguaggio. Credo che in certi copioni si arrivi a un certo punto in cui si deve far riprendere fiato al dialogo, prendersi un momento per far sì che questa piccola magia che gli attori hanno creato si posi, arrivi.
Il copione era di 190 pagine e noi volevamo che il film durasse all’incirca 2 ore – in generale ci vuole un minuto per pagina. Facendo i calcoli, questo significava che i dialoghi dovevano essere ‘veloci e furiosi’. I copioni di Aaron sono pieni di meravigliose premesse e risoluzioni di una battuta e c’è un timing, è una specie di tip-tap: bisogna seguire rigorosamente il ballo oppure si perdono delle cose. Per questo quando con il montaggio ci fermiamo un momento, questo ha un peso molto più forte, perché non ci sono state tante pause prima.
Grazie al cielo abbiamo avuto il tecnico del suono Lisa Pinero a disposizione—lei ha davvero aiutato gli attori a restare fedeli alla musicalità della scrittura. Il copione è pieno di sovrapposizioni volute, e Danny non voleva che scomparissero. Lisa le ha registrate e così io ho potuto montarle. Sapevamo di volere pochissimo ADR in questo film, per questo abbiamo fatto recitare agli attori le scene in modo da evitarlo. E questo è stato fondamentale per riuscire a catturare il linguaggio di Aaron.

Per i montatori è diventata un’abitudine mettere insieme un cut preliminare del film mentre si sta ancora girando. Il suo non è stato, invece, una versione molto più raffinata?

Sì, infatti. Dopo che gli attori hanno completato il loro primo periodo di prove – hanno trascorso tre settimane a provare prima di girare l’Atto Primo – e siamo entrati nella location, era essenziale che tutte le parti lavorassero insieme come una cosa sola. Le operazioni di fissaggio, illuminazione e quelle della cinepresa e della telecamera – insieme alla musica e al montaggio – tutto doveva contribuire a produrre questi 40 minuti circa senza sbavature. Tutti erano preparatissimi a farlo e hanno fatto di tutto – anche Daniel Pemberton, il compositore, ha scritto la sua musica, che era temporanea, sin dall’inizio. L’unico modo per accertarsi veramente del successo dei nostri sforzi era vedere l’Atto Uno, e doveva essere la versione più vicina a quella definitiva pronta per lo schermo. Così io ho messo insieme un montaggio e io, Danny e i produttori l’abbiamo visionato. Non volevamo solo vedere come funzionava tutto insieme prima di andare avanti, volevamo anche vedere se avevamo realizzato il tono e la qualità che cercavamo, perché ogni atto doveva essere completamente diverso dagli altri. Lo spettatore deve fare esperienza di ogni atto come se fosse nuovo. E dato che Danny ha girato ogni pezzo in maniera diversa, io li ho montati in maniera diversa. Per esempio, c’è moltissima energia, quasi una frenesia, nei movimenti di macchina nell’Atto Primo, in più è stato girato in 16mm che gli da quel tocco da cinema verité e richiama un tempo meno esperto in campo tecnico; l’Atto Secondo usa una tecnica più classica per cui il montaggio ha un passo più lento. Per avere un’idea di quello che stava funzionando, e di cosa magari non funzionava, è stato utile definire come avremmo girato i successivi due atti e assicurarci che stavamo creando un’evoluzione per il personaggio e per la storia. E questo non avremmo potuto farlo se non avessimo girato questo film in ordine cronologico, che è un insolito modo di girare un film.

Come è stato lavorare con Danny Boyle? Che impressione le ha lasciato?

La sua reputazione di artista che apprezza la collaborazione è ben guadagnata. Credo che quello che Danny apprezza di meno sia la conformità alle sue idee – in netto contrasto con il nostro protagonista. Lui non vuole che tu segua lui, vuole che metti qualcosa di tuo. Quello che lui apprezza di più nei suoi collaboratori è che ognuno arriva con una visione unica. Lui ti sollecita ad avere qualcosa di nuovo da suggerire – non è in nessun modo un one-man show. Credo che lui sia veramente contento quando gli mostri qualcosa che non si aspetta. Gli piace molto essere sorpreso. Ho tentato di farlo sempre – naturalmente non tutto può essere una grande sorpresa, ma è divertente provarci, vederla così. Con lui c’è grande libertà, e ti è permesso fare degli errori perché c’è una rete di sicurezza. Non gli importa se, per esempio, 10 cose sono sbagliate, se ce n’è una che è unica, interessante e differente. E’ l’atmosfera migliore per stimolare la creatività. Spero che ognuna delle mie esperienze lavorative sia artisticamente gratificante come lo è stata questa

Alla fine, come descriverebbe Steve Jobs?

E’ molto diverso da quello che uno si aspetterebbe – penso che questo sia il motivo per cui sono stati fatti grandi sforzi da parte di tutti per dare il meglio possibile a questo film. Naturalmente Steve jobs ha vissuto, è stata una persona vera, ma ho la sensazione che quello che ci siamo ritrovati a fare è stata più un’istantanea dell’anima di quest’uomo. E’ uno sguardo su di lui come persona più che un racconto degli eventi tipo “è successo questo e poi questo e questo.” Si capisce qualcosa su Jobs attraverso il suo venire in contatto con tutte queste persone e il suo mettere in gioco qualunque conflitto esistesse. Credo che la domanda sia piuttosto ‘perché’ e non ‘chi’: perché questa persona, il cui impatto sulle nostre vite è smisurato, era come era? Io credo che abbiamo cercato di guardare la sua anima più che tracciare la storia della sua vita.

Intervista con la costumista Suttirat Larlarb

 

I costumi e lo stile dell’abbigliamento, forse più di ogni altra cosa, collocano lo spettatore in un’epoca.
Steve Jobs si svolge nel 1984, nel 1988, e nel 1998. Oltre agli ovvi riferimenti a quei periodi, cos’altro ha influenzato la sua scelta dei costumi per i tre atti?

Più che in ogni altro atto, il periodo si annuncia chiaramente nel 1984. Nell’Atto Primo, invece di indicare semplicemente che ci si trova negli anni ’80, per la scelta dei costumi è stato più importante capire cosa significasse questo lancio per i partecipanti, in particolare per Steve. Tutto in questa presentazione del 1984 rappresenta un guardare al futuro. Gli abiti delle persone che presentano il Macintosh, quindi, come quelli delle persone che sono presenti al lancio, devono trovarsi in un continuum in cui quella macchina è la cosa più futuristica nella stanza. Tutto ciò che quelle persone sapevano nel 1984 stava per essere sovvertito da questa finestra sul futuro e da questa macchina nuova di zecca. Steve assumeva quasi la parte di leader della società – guardava a John Sculley come modello, e sembra che abbia seguito una lista molto lunga e dettagliata di come ci si deve vestire a un meeting con gli azionisti. Questo è quello che lui pensa si debba indossare per presentarsi al mondo: un completo doppio-petto con le spalle molto ampie. Io ci penso come al suo momento alla Enrico VIII— grande e mascolino —e poi lo showman che è in lui aggiunge un papillon.
Nell’Atto Secondo invece di cercare di realizzare le tendenze della moda di quattro anni più tardi, abbiamo lavorato a rendere visibili i reali cambiamenti che erano avvenuti in Michael, e come i suoi rapporti con il suo team si erano sviluppati. Nel 1984, i membri del team dormivano vestiti per far partire questo prodotto. Quindi nessuno – a parte Joanna che ha molto gusto per la moda, e pochi altri soggetti chiave per il marketing – si era vestito bene per il Flint. Nel 1988, invece, Steve ha emesso un editto che diceva che tutti dovevano vestirsi eleganti. L’idea mi è venuta perché ho trovato una foto di Steve con qualcuno dei suoi uomini al lancio del NeXT. C’era un tizio che non riconoscevamo, che ci sembrava di non aver mai visto nelle foto precedenti, fino a che non abbiamo capito che era uno degli ingegnieri, solo che non lo avevamo mai visto con un vestito. Ho cercato di portare le qualità estetiche che loro stavano cercando di infondere nel cubo NeXT nel modo in cui gli stessi Jobs e il suo gruppo sceglievano di presentarsi. E’ più teatrale, più da presentazione, più netto di quello che abbiamo visto nell’84. Guardando le fotografie di Steve a entrambi i lanci, ho notato la differenza nelle giacche che indossa – c’è uno spostamento verso quello che sembra essere il suo gusto, che va poco oltre il periodo che sta per finire e verso il nuovo taglio di abiti che sta per andare di moda. Lui è più sicuro di sé, più vanitoso, e questo si riflette nella sua scelta di un completo nero brillante; sta per cominciare a fare di se stesso, sia all’interno che all’esterno, un brand. Il tenore visivo dell’intero atto è più lucido, non solo perché riflette il cube che è perfettamente minimale ma anche perché ben si addice all’ambiente dell’Opera House. Tutto in questo atto – l’ambiente, la scenografia, lo stesso prodotto — è teatrale e di facciata.
Un decennio più tardi, nell’Atto Terzo, vediamo uno Steve più rilassato. Non tenta più di imprimere sul pubblico il suo ruolo da imperatore del design tecnologico. Questo ormai è noto. Il suo ritorno alla Apple è un motivo per celebrare. Il mondo attende con ansia la sua nuova visione. Per quel che riguarda la sua immagine, è uno stimato leader del business e può rilassarsi e fare quello che vuole, è lui a dettare le regole. Nel primo atto tentava di emulare Sculley: il secondo atto lo vede cercare di prendere le distanze e creare il suo marchio; ora nel terzo atto, è arrivato al livello di Sculley.
E’ stata una bella opportunità per tradurre bene il materiale, le foto, e guardare le espressioni facciali, le dinamiche di gruppo, perfino le composizioni di alcune foto di gruppo e chiedersi: perché scegliere quel posto, quella posa, quelle posizioni in quel dato ritratto di gruppo? Dare un senso a questi momenti ha veramente contribuito alle scelte dei costumi, nella maggior parte dei casi molto più di quanto non abbia fatto la moda reale di quel determinato periodo.
A differenza della maggior parte dei film, dove si vede un personaggio cambiarsi forse 37 costumi, il nostro film presenta questi personaggi in uno spazio di 40 minuti per tre volte, con ogni blocco separato dal precedente da anni. Quindi gli sviluppi degli anni che intercorrono tra un momento e l’altro, e gli effetti di questi sviluppi, sono visibili, si spera, attraverso le scelte che abbiamo fatto sull’aspetto dei personaggi e su come si presentano.

Parte della trappola di occuparsi in un film dell’aspetto di una persona iconica come Steve Jobs in questa epoca digitale è che tutti quelli che hanno una connessione internet pensano di sapere che aspetto aveva Steve, e tanti addirittura quello che indossava. Come ci si allontana dalla mera ri-creazione di un personaggio e si arriva, invece, alla propria interpretazione dello stesso?

Da icona e figura pubblica qual’era, il personaggio di Steve arriva già con vari tipi di idee preconcette. Per cui sono d’accordo sul fatto che la sfida consista nel farlo nostro rimanendo fedeli alla verità, senza ridurlo a un’imitazione o a una ri-creazione. Avevamo a disposizione tantissimo materiale e il punto era: come farlo passare attraverso il nostro filtro e raccontare la nostra versione della storia in una maniera specifica che sia coinvolgente e diversa dai modi in cui di solito si racconta una biografia in un film? Beh, abbiamo tutti preso spunto dalla sceneggiatura di Aaron, poi dall’interpretazione di Danny: raccontare questa storia particolare in un modo particolare. Quando hai questo tipo di esempio dato a te dal tuo regista e dallo sceneggiatore, l’artista che è in te vuole aggiungere la sua propria interpretazione e alzare la posta in gioco.
Vi faccio un esempio: quando lavoravo per il 1988, ho iniziato con una foto dell’iMac. Poi l’ho circondata da foto di Steve che scopriva l’iMac. Indossava un completto con giacca a tre bottoni con una camicia sportiva aperta, senza cravatta. Sembra rilassato anche se indossa un completo… ma questo non è necessariamente il modo in cui pensiamo a Steve Jobs. Vedere queste foto è quasi stridente perché la reazione è, “Ah, si vestiva così?” Non l’avevamo colto. Non volevamo che il film finisse per farci fare la stessa domanda. Per noi era più onesto presentare Steve come noi, il pubblico, lo abbiamo nella nostra mente dal punto di vista visivo, ossia con il classico dolcevita nero e i jeans. Non si può vedere l’iMac è non vedere immediatamente nella propria testa le centinaia di versioni che sarebbero state fatte, oltre a tutti gli altri prodotti che Steve ha lanciato. E quando la mente vede velocemente, come un flash, tutto questo ti spinge naturalmente verso il futuro, avanti fino a quell’apparecchio che hai silenziato e messo in tasca prima dell’inizio del film. E immagini Steve nel suo look distintivo, che è l’immagine con la quale ti abbiamo lasciato e quindi ha senso sia visivamente che storicamente.

Lei ha detto anche che ogni periodo ha una sua tonalità. Come ha influenzato questo le sue scelte rispetto ai costumi?

Penso con molta attenzione a come stanno i personaggi uno accanto all’altro in termini di abbigliamento, in modo che niente possa distogliere da quello che viene fuori dalle loro bocche o da quello che stanno dicendo con il linguaggio del corpo. Talvolta un copione richiede un certo tipo di costume o di look e indica che questo dovrebbe essere il centro di parte dell’attenzione. In Steve Jobs, invece, vogliamo che l’attenzione degli spettatori si concentri su chi sono questi personaggi e su cosa stanno dicendo —non voglio che qualcosa che faccio rubi neanche un po’ d’attenzione da questo. Senza tentare di sminuirlo, il nostro lavoro per molto versi è invisibile. E’ qualcosa che fa da supporto agli attori e a loro lavoro, ai loro personaggi, al linguaggio e alla storia che viene raccontata. Se qualcosa non si accordasse con tutto questo, si noterebbe. Se qualcosa fosse goffamente appariscente, si noterebbe. Ma se qualcosa è ben pensata e inserita all’interno dello schema con tutto il resto e tutto funziona come una visione unitaria, allora esci apprezzando l’arte. Una volta ho sentito qualcuno dire: “Se esci da un film parlando prima dei costumi e poi del contenuto, qualcuno non ha fatto bene il suo lavoro.”

Intervista con il compositore Daniel Pemberton

 

Che effetto ha avuto su di lei la sceneggiatura di Steve Jobs e quali sono stati i suoi primi pensieri sulla colonna sonora?

L’ho letta tutta di un fiato, era veramente coinvolgente. Sono stato trasportato dalla corrente degli straordinari dialoghi. Ho sentito delle possibili musiche mentre leggevo, ma sapevo di non voler togliere niente a tutto quello che veniva detto. I compositori di colonne sonore cercano istintivamente degli spazi dove la musica può espandere la storia nel corso di scene senza parole, sequenze d’azione, o cose simili. Qui, ogni pagina è guidata dal dialogo. Allora ho iniziato a pensare al dialogo come al soprano della colonna sonora, in un certo senso. E’ un flusso di informazioni veloce e incessante e ho sentito che aveva bisogno di uno spazio per respirare. Allo stesso tempo, però, non volevamo che la musica diventasse così vaga, indefinita o anonima da non avere un’identita. La sfida è diventata dunque capire come comporre una musica con un’identità unica che avrebbe supportato il dialogo e gli avrebbe permesso di “cantarle sopra”.

Che tipo di discussione ha avuto con Danny a proposito della struttura peculiare del film e del suo effetto sulla sua composizione della musica?

Danny ha cominciato dicendo che il film è molto chiaramente diviso in tre atti, e che ogni atto sarebbe stato differenziato non solo dalla fotografia – ogni atto sarebbe stato girato con sistemi diversi – ma anche dal suono. Quindi, il film aveva sostanzialmente bisogno di tre colonne sonore separate. Il primo atto si svolge nel 1984, quando il concetto del Macintosh era completamente nuovo, una promessa di possibilità illimitate attraverso la nuova tecnologia, per cui il sound doveva essere “ottimismo elettronico”. Il secondo atto, quattro anni più tardi, è ambientata in un teatro dell’opera dove Steve lancia un nuovo prodotto… e noi abbiamo deciso di inetrpretarlo come un atto di vendetta contro la società che lo aveva “cacciato” e questo legittimava una musica operistica in tono e scala. Il terzo atto si svolge nel 1998, tempo in cui ormai intere colonne sonore vengono composte al computer. La maggior parte della musica di questo atto l’ho quindi prodotta usando un software Apple.

Come sarebbero stati differenziati i tre lanci dei prodotti attraverso la musica? E la sua musica come rispecchia il protagonista in ogni diverso periodo?

Abbiamo realizzato il concetto dell’Atto Primo usando sintetizzatori di quel periodo. Dato che la tecnologia obsoleta limitava il modo in cui si poteva comporre al tempo, abbiamo sfruttato questo – la musica elettronica era costruita a strati e ogni nota venita suonata a mano. Ho iniziato ad avere una frenesia da sintetizzatore e ne ho comprati una grande varietà, inclusi modelli come lo Yamaha CS-80, che compare soprattutto nella musica di Vangelis; e Steve Jobs era un grandissimo fan di Vangelis. Ha inserito “Chariots of Fire” nel lancio dell’84, e il CS-80 è dappertutto nel famoso spot “1984”. Abbiamo fondamentalmente messo su un’orchestra di sintetizzatori, con parti che si sovrapongono suonate con il CS-80; il Juno-60, uno strumento Roland del tempo; l’SH-1000, che era datato già nel el’84 perché poteva suonare una sola nota alla volta; insieme ad altri modelli.
Abbiamo parlato del secondo atto come un atto operistico, che parla di vendetta, ma parla anche di rapporti umani. Per questo la musica sarebbe stata composta con strumenti classici e, naturalmente, avrebbe compreso le voci. Come Steve cresce come showman dall’Atto Primo al Secondo, la colonna sonora si espande dal minimalismo elettronico all’opulenza dell’orchestra. Inoltre, nel bel mezzo di questo atto, Steve e Sculley vengono trascinati in una lite accesa, che è accompagnata ed enfatizzata da una sinfonia di 10 minuti. Io e Danny abbiamo avuto tante idee e abbiamo pensato e ripensato perché non eravamo sicuri di quali avrebbero veramente funzionato; quindi c’è stata molta sperimentazione all’inizio e io ho composto molta opera. Una piccola cosa: il coro dell’opera canta veramente di computer. Abbiamo pure scritto il libretto in italiano, e parla di macchine. Non si sente davvero, ma io volevo che fosse autentico. C’è attenzione al dettaglio in ogni aspetto di questa colonna sonora.
L’Atto Terzo è quasi una chiusura del cerchio, un ritorno a creare la maggior parte della musica possibile al computer. Nel 1998 si poteva campionare, si poteva progettare il suono, e creare quasi tutto, non ci si doveva affidare solo ai sintetizzatori o alle orchestre. La musica qui è più elaborata a livello di suono e sembra più interiore, leggermente più astratta, in qualche modo rappresentativa dei cambiamenti e dei movimenti interiori che sono avvenuti in Steve. Il terzo atto è molto minimale ma elegante. E’ asciutto e semplice, proprio come i prodotti di Jobs.

Quali altre influenze sono presenti nella musica? Quali momenti della colonna sonora spiccano per Lei?

Se era fondamentale che la colonna sonora supportasse il linguaggio e fornisse un paesaggio musicale per i personaggi mentre evolvono, abbiamo anche cercato di portarci dentro l’epoca, il 1984 soprattutto, il primo atto, dove ho veramente voluto catturare il suono di quel periodo. La presentazione al mondo della Apple attraverso il Macintosh, l’ottimismo nei confronti della tecnologia, anche l’epocale spot “1984”, sono tutti inesorabilmente legati a quello specifico anno. L’uso del sintetizzatore non ha solamente catturato l’atmosfera di quel momento storico, mi ha anche dato l’opportunità di comporre come se fossi nel 1984. Lavorare con una tecnologia obsoleta mi ha fatto capire quanto siamo diventati viziati con i grandi progressi di cui possiamo usufruire oggi, molti dei quali sono stati possibili grazie a Steve. Andando indietro nell 1984 ho voluto usare la tecnologia del 1984 e lavorare come se quella fosse all’avanguardia. Questo ha trasformato la mia prospettiva e ha cambiato il modo in cui ho lavorato alla musica di questo Atto. Più di tutto credo che, comporre con le limitazioni di quel periodo, mi abbia aiutato a penetrare nell’estetica di quel sound.
Per il secondo atto, l’obiettivo primario era trasmettere l’atmosfera dell’evento, in quel luogo, e dove Steve si trovava nella sua vita. Per questo motivo, invece di includere cenni che ci fanno capire che siamo nel 1988, la musica sottolinea il tono maestoso di Steve nella sua presentazione di NeXT, la sua vendetta contro la società che aveva fondato e che non dirige più. E’ un’orchestra di 74 strumenti più coro. Mi piace moltissimo il momento in cui Steve batte le mani e questo pezzo di grand opera comincia — nella sua carriera lui è stato spesso paragonato a un maestro, e qui, dal punto di vista cinematografico, lo è davvero.
Il terzo atto si muove quasi nel regno del design del suono, più che del comporre una colonna sonora. E’ il 1998, ma per le intenzioni e gli obiettivi, è il futuro. Vediamo Steve come l’icona che è, che è diventata, anche nel suo famoso dolcevita nero, più a suo agio di prima nella sua pelle e in cerca di una riconciliazione, di cui prima non aveva alcun desiderio.
La mia parte preferita forse è proprio l’inizio del film. Comincia con uno strano tipo di suono – una macchina che fa un ronzio e sopra dei toni elettronici. Mi piace il modo in cui funziona, è completamente diversa. Ci sono forse tre note in questa musica; nell’opera ce ne sono circa 700. E quando Lisa gioca per la prima volta col computer, c’è un’onda di suono, il suono più basilare che si può avere su un sintetizzatore. Sembra l’inizio dell’era del computer, in qualche modo. E’ semplice, ma delle note che si alzano di qualche ottava, se sono le note giuste, diventano molto più evocative dell’uso di un’intera orchestra.

Come hanno influenzato la sua vita di musicista e compositore Jobs e i suoi traguardi?

Per molti versi, una partitura per orchestra è una dei più vecchi pezzi di codice computer. Il codice di un computer è un’istruzione. Ma con l’orchestra, hai il più straordinario computer che sia mai stato inventato: 74 esseri umani che rispondono a quello che, in effetti, è un codice mettendoci dentro la loro personalità e le loro emozioni. Questo è il motivo per cui ancora esistono le orchestre, perché niente ha mai battuto quell’effetto.
L’impatto che Jobs ha avuto su di me come compositore è che posso scrivere per un minuto musica operistica e poi improvvisamente cambiare e progettare suoni elettronici o comporre per sintetizzatori. Ora, da solo, posso sognare e comporre tutto – e poi suonarlo e ascoltarlo, ogni singola nota, senza dover coinvolgere nessun altro e senza dover mai lasciare la mia stanza. Non fraintendetemi – non c’è nulla come sentire la tua musica suonata da 74 musicisti. Ma è fantastico non dover contare su di loro per ascoltare la tua ultima composizione, specialmente quando l’hai appena finita e sono le 3:30 del mattino! Per la composizione, questa è libertà.

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