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Di cosa parliamo quando parliamo di libri? Lettori e critici nell’era social


Quali sono i modi in cui oggi il pubblico si avvicina alla lettura? Di chi sono le voci che le nuove generazioni seguono per farsi guidare all'acquisto di un romanzo? Tra i vecchi media e le nuove leve degli influencer, di cosa parliamo quando parliamo di libri e perché è ancora così difficile accettare i social media?

Di cosa parliamo quando parliamo di libri?
Recensire un libro significa divulgare informazione, far sì che i dati tecnici (casa editrice, data di uscita, prezzo e numero di pagine) si sposino con l'analisi qualitativa di un romanzo. I personaggi sono strutturati? Hanno una loro vita anche al di fuori delle pagine stampate? La forma sintattica e grammaticale è corretta? La prosa riesce a veicolare messaggi o emozioni valide a sorreggere l'impianto narrativo? Recensire un libro non si limita a dover dire questo libro è bello, questo libro è brutto. Significa spiegare perché un libro è bello o perché un libro non è riuscito. Fare critica letteraria è un altro discorso ancora: significa diventare archeologi della parola, scovatori di simboli, creare un fil rouge all'interno non solo della produzione di un autore, ma anche di una corrente letteraria che non può fare a meno del contesto sociale, politico e culturale in cui un'opera viene ideata e, infine, creata. Due poli diversi per parlare di letteratura che molto spesso vengono eseguiti dalla stessa figura: l'intellettuale.

Oggi, quando pensiamo a questo termine, si è soliti pensare ad una persona che vive in una sorta di elitarismo culturale, una persona separata dalla società che non sente alla propria altezza. È come se la figura dell'intellettuale – per come l'abbiamo studiata sui libri di letteratura, tra illuminismo e romanticismo – non riuscisse più a ritrovare se stesso in un'attualità che corre troppo veloce e, sentendosi perso, non ha altra opportunità che mostrare il proprio dissidio per la propria posizione, per il sistema sociale che non gli riconosce più i propri privilegi e così facendo attacca ciò che non capisce.

Si tratta senz'altro di un ritratto semplicistico e molto affrettato ma che senz'altro aiuta forse a comprendere il divario quasi astioso che esiste tra la figura dell'intellettuale e le nuove forme di comunicazione e di divulgazione di informazioni letterarie (ma non solo). Perché al giorno d'oggi non sembra più importante chiedersi di cosa parliamo quando parliamo di un libro, ma chi ha il diritto di parlarne, di condividere informazioni. In questi giorni, infatti, la rete è in qualche modo scossa dalla perpetrazione di uno status quo secondo cui se non sei stipendiato da una grande testata nazionale, non parli solo de La Nausea di Sartre e, peggio ancora, hai anche la sfortuna di essere una donna, allora non hai diritto a parlare di libri. Peggio ancora, non hai nessun diritto di sperare di essere presa sul serio, di poter essere credibile.

La nascita di una figura lavorativa come l'influencer (che sia di moda, di cultura o di spettacolo poco importa, al momento) è un argomento ancora molto chiacchierato in un paese come l'Italia che si tiene strette le sue convinzioni e le sue tradizioni, anche se in questo modo finisce molto spesso ai livelli più bassi del ranking europeo e internazionale. I social, in Italia, sono visti ancora come diari segreti per immagini, dove far sbollire i propri sentimenti, mettersi in mostra e andare a spiare cosa fa nella vita qualcuno che, nella vita reale, abbiamo scelto di lasciare indietro. Per l'italiano medio, i social servono a questo. Mettersi in mostra e dare sfogo al proprio egocentrismo: il social marketing, dunque, diventa utopia pura. Per questo si è spesso spinti a credere che un influencer – una persona in grado di influenzare il gusto del proprio pubblico – sia solo qualcuno che non fa altro che fare belle foto e per questo appaiono come personaggi baciati dalla dea fortuna, eroi di un mondo votato alla superficialità e ai contenuti vuoti. Spesso non serve a niente spiegare che l'interazione e la comunicazione con cui gli influencer programmano la propria presenza online è frutto di un lavoro: sicuramente anche di immagine, ma che impone anche avere un piano aziendale, una strategia economica, tenersi informati sui cambiamenti sempre più repentini delle piattaforme su cui operano. E questo solo per citare alcune delle mansioni più note che ogni social media manager o influencer deve affrontare per ottenere seguito, engagement e, dunque, profitto.

La situazione si complica ulteriormente quando si parla di bookinfluencer. Come si può mettere insieme un mestiere che comunemente viene definito come superficiale e vuoto insieme alla letteratura? Come può una persona che fotografa cappuccini o toast o cactus permettersi di parlare di Calvino, di Simone De Beauvoir, di Grazia Deledda o Emile Zola? Come si può pensare di parlare di romanzi e letteratura e libri se si accostano i nomi di Fenoglio con quelli di un Jay Kristoff? Come si può sperare di essere presi sul serio se si vuol parlare di letteratura parlando di fantasy o fantascienza?

Il fatto è che il libro – e più in generale la letteratura – in Italia sono visti ancora o come un'attività destinata solo a quei privilegiati che hanno "tempo da perdere" o, peggio ancora, come un semplice hobby. Nel primo caso, solo persone altamente qualificate e possibilmente prive di bell'aspetto possono parlare di letteratura ed essere credibili. Nel secondo caso la letteratura di genere viene vista come una letteratura di serie B e che per questo non è degna di essere nemmeno nominata. Giudizi che vengono espressi con il peso di una condanna in un paese dove – stando ai dati comunicati dall'Osservatorio dell'Associazione Italiana Editori (AIE) – nel 2018 il 62% degli intervistati nella fascia anagrafica 15-75 ha dichiarato di aver letto solo un libro (o cartaceo, o digitale o audiolibro). Si tratta circa 28,2 milioni di persone. Una percentuale che scende al 60% se si considerano i soli lettori di libri. Di questa percentuale il 41% ha dichiarato di aver letto solo tre libri l'anno e solo il 17% ha asserito di aver letto un libro al mese. I dati non sono favorevoli nemmeno per quel che riguarda il tempo dedicato alla lettura: solo il 9% degli intervistati ha dichiarato di aver dedicato alla lettura almeno un'ora continuativa al giorno: percentuale che si abbassa se si tiene conto della fascia anagrafica dei più giovani, da sempre quella con lettori più attenti (circa l'87%). Infatti nel 2019 i giovani che hanno dedicato più di un'ora alla lettura sono scesi al solo 1% contro il 5% del 2017. E non è tutto: l'Italia non solo si colloca, in Europa, ai piani bassi per numero di lettura, ma è anche ultimo per il livello di comprensione dei testi, con il solo 24,8% della popolazione con le competenze e gli strumenti adatti per la comprensione di un testo e la sua conseguente analisi.

Questi dati servono a sottolineare come l'Italia sia un paese dove non solo si legge poco, ma in molti hanno difficoltà anche a comprendere il poco che leggono. Ma nonostante questo la nostra è una società che sembra non voler affrontare di petto il problema, non almeno attraverso i media e i mezzi di informazione. Quest'ultimi – e si parla soprattutto dei media tradizionali – hanno come innalzato una barriera contro i nuovi media, in una sorta di rilettura di quello che Neil Gaiman aveva raccontato in American Gods: la lotta del vecchio contro il nuovo. Quello che dovrebbe essere un processo evolutivo, che prende il meglio dei vari schieramenti, finisce con l'essere una guerra più o meno aperta, dove si cerca continuamente di minare – lo ripetiamo – la credibilità delle nuove voci. Sebbene l'editoria italiana, sempre attraverso i dati rilasciati da AIE, risulti in crescita del 2.1% con un fatturato di circa 3,170 miliardi di euro, il basso indice di lettura continua ad essere il problema principale per la crescita del mercato.

Ma per crescere bisogna evolversi, bisogna accettare che è cambiato il pubblico a cui ci si rivolge quando si parla di libri. Bisogna comprendere che il mercato su cui bisogna spingere sono quell'87% di giovani che possono diventare i lettori di domani che passano gran parte del proprio tempo con il telefono in mano (lo smartphone, secondo AIE, è il device più utilizzato per la lettura) e, soprattutto, passano il loro tempo libero sui social. Dove, a dispetto di quello che si crede, non passano il tempo semplicemente a farsi selfie allo specchio, ma chiacchierano, si informano, condividono e formano il proprio spirito critico.

Sempre secondo i dati offerti da AIE sul Rapporto 2019, tra le fonti che ispirano e spingono una persona a comprare il 18 % degli intervistati ha dichiarato di farsi influenzare da ciò che sentono/leggono nelle community online e sui social, contro il 10 % rappresentato dai media tradizionali (recensioni e autori in TV). Una percentuale che se è in crescita per i social (era il 16% nel 2017) è in caduta per i media tradizionali (che passano dal 22% al 10%).

Il passaparola resta il metodo prediletto per scegliere un libro: nel 2017 il 26 % degli intervistati dichiarò di comprare i libri sulla base di consigli di amici e conoscenti. Percentuale salita al 27% nel 2018. Ed ecco perché i social funzionano tanto bene: perché danno l'impressione che le persone che seguiamo siano, in realtà, nostri conoscenti. Sono volti familiari, volti e gusti che impariamo a conoscere e con i quali ci riconosciamo e dei quali, alla fine, ci fidiamo.

Inoltre nell'annosa questione del chi ha diritto di parlare e recensire libri, entra anche un problema di genere. Non è un caso, infatti, se le persone che più spesso e più facilmente vengono attaccate dai media tradizionali sono book-influencer di sesso femminile: la loro credibilità viene minata non tanto (o non solo) per i gusti letterari, ma per il loro aspetto fisico. Mentre ci nascondiamo dietro lotte per la parità di genere, molto spesso permettiamo che la professionalità di una persona venga decisa dal suo genere. Le bookinfluncer di sesso femminile sono "carine", postano foto "carine", neanche fossimo tornati allo stilnovo di Dante e all'agghiacciante idea della donna come solo angelo del focolare.

Poco importa se chi parla di libri ha una laurea in lettere moderne, se parla lingue straniere, se ha studiato critica letteraria o si è specializzata all'estero. Non importa se ha proprietà di linguaggio, strumenti di analisi, se è una fotografa di professione o se semplicemente ha un gusto estetico nella realizzazione delle inquadrature: tutto quello per cui verranno attaccate è il loro aspetto fisico. Viviamo ancora in una società dove le donne devono sentirsi in colpa per come sono: se non sono troppo ancorate ai canoni di bellezza o se, al contrario, sono troppo carine, per cui vale l'assurdo assioma maschilista del "è troppo carina per essere anche intelligente". Eppure pare che nessuno – per fare un esempio esagerato – abbia mai indicato Stanley Kubrick con l'accusa di fare "film carini" perché curava le sue inquadrature al minimo dettaglio.

Dovremmo dunque ricordarci – e questo è il punto centrale che questo lungo articolo vuole sottolineare – che quando parliamo di un libro è del libro che dovremmo parlare. Dei suoi personaggi, del suo linguaggio, dei simboli che porta con sé e dell'apporto che può dare in ambito letterario, ma anche umano. Possiamo discutere di opinioni diversi, fronteggiarci: possiamo non essere d'accordo, possiamo fare paragoni. Ma dobbiamo ricordare che chi parla di libri per lavoro non lo fa per sentire il suono della propria voce o l'eco della propria intelligenza. Divulgare, nell'enciclopedia Treccani, è spiegato come l'atto di "diffondere, nel senso di rendere largamente disponibili mezzi di cultura, o anche altri oggetti". Ricordiamolo.

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