La cuoca del Presidente, intervista al regista Christian Vincent


Intervista fatta a Christian Vincent, il regista del film La cuoca del Presidente.

Intervista fatta a Christian Vincent, il regista del film La cuoca del Presidente, che arriva nei cinema italiani il 3 Gennaio 2013 distribuito da Lucky Red. Il film racconta di Hortense Laborie, una cuoca rinomata che vive nel Périgord. Con sua grande sorpresa, il Presidente della Repubblica la nomina responsabile della sua cucina personale all’Eliseo.

La cuoca del Presidente segue il percorso di una cuoca, Hortense, di cui facciamo la conoscenza in una sperduta base scientifica in Antartide, dove lei sta trascorrendo gli ultimi giorni di una lunga missione. Prima di scoprire che è stata, per più di due anni, la cuoca privata del Presidente della Repubblica all’Eliseo. La storia è davvero singolare.

Quando Etienne Comar mi ha parlato di questa donna, scovata nel Périgord per diventare cuoca del Presidente, ho capito immediatamente che si trattava di un soggetto incredibilmente forte e originale. Mi piaceva molto l’idea di penetrare nel Palazzo dell’Eliseo entrando dai piani bassi per mostrare quello che accade dietro le quinte. Ma questo forse non sarebbe stato sufficiente per fare un film. E’ stato quando ho scoperto che, dopo aver passato due anni all’Eliseo, questa donna aveva chiesto di andare a lavorare in una base scientifica sperduta nell’Oceano Antartico, che il film ha preso forma. C’erano due traiettorie estremamente avventurose che offrivano la possibilità di costruire un percorso avvincente. Un’occasione per mettere a confronto i due mondi, di mostrare un personaggio posto di fronte a due universi antitetici.

L’inizio del film è abbastanza fuorviante. Ci troviamo sulla base al seguito di una giornalista australiana che vuole girare un film sulle isole dell’Oceano Antartico. E ci si imbatte in questa cuoca che brontola in mezzo ai suoi fornelli, e non possiamo immaginare la vita, molto diversa, che ha fatto fino a quel momento.

Sì, si resta davvero disorientati. Lo spettatore che pensa di vedere un film che si svolge all’Eliseo potrebbe chiedersi dove è finito. Chi può mai essere quella persona, neanche particolarmente simpatica, che vive a 12.000 chilometri di distanza dalla Francia, in condizioni difficili, e che vediamo un po’ alla volta rasserenarsi e poi ridere senza freni quando i ragazzi della base organizzano uno spettacolo in occasione della sua partenza? Mi piaceva il contrasto con le dorature dell’Eliseo; lo scontro tra queste due epoche mi incantava. Da una parte siamo in cima alla piramide, davanti a Hortense viene steso il tappeto rosso, riceve tutti gli onori, conosce lo stato di grazia, poi tutto per lei va di male in peggio. Dall’altro ci si immerge in una natura ostile, bellissima ma molto dura; lei prepara delle conserve per una banda di scienziati persi in mezzo al nulla, senza alcuna possibilità di comunicare con l’esterno; ma, alla fine della sua missione, tutti si congratulano con lei, la ringraziano. In questa doppia avventura c’è una riflessione sulla riconoscenza e sull’ingratitudine.

E’ un bell’elogio della cucina. Lei stesso è noto come grande cuoco.

Mi è sempre piaciuto cucinare. Mi calma. E mi piace anche la compagnia dei cuochi. Adoro guardarli lavorare. Cucinare richiede precisione. Richiede grande tecnica e molta generosità. Per far da mangiare agli altri bisogna essere generosi. Non si può essere avari. E io amo le persone generose. E oltre a questo penso che, per certi versi, il mio mestiere somigli al loro. Qualche volta mi dico che il cuoco che pianifica il suo menu si pone le stesse domande che mi pongo io. Come me lavora su un materiale vivo. Gioca con i colori, le forme e le consistenze. Mescola croccante e molle, caldo e freddo, crudo e cotto… Deve cercare di rassicurare e sorprendere allo stesso tempo. Fa riferimento alla tradizione, pur cercando di innovare. Fa in modo che un piatto non somigli ad un altro, variando le modalità di cottura, i contorni…

C’è anche Christian Vincent nel personaggio di Hortense?

Sì, per forza… La sua inquietudine è la stessa che provo io. Anche quel sentirsi insoddisfatti di se stessi… La difficoltà che ha nell’accettare i complimenti, anche se il suo mestiere consiste proprio nel procurare piacere agli altri … E come me, a volte prova il bisogno di chiedere: “allora, vi è piaciuto?..” Ma poi non lo fa mai. Su questo punto per me nel film c’è un momento molto significativo. E’ quello in cui il Presidente la convoca nei saloni per ringraziarla del pranzo che ha preparato per le sue sorelle e i suoi fratelli. Lei dovrebbe essere fiera dei complimenti che le vengono fatti. Il maggiordomo che ha assistito a tutto le dice: “E’ fantastico, no?” Ebbene no, non è poi così fantastico. Nella sceneggiatura lei rispondeva con questa frase, quasi triste: “Lei crede?” Poi invece durante le riprese non ho fatto dire questa frase a Catherine, per paura di essere troppo esplicito. Volevo solo che si percepisse che lei è un po’ delusa. E come per quelle persone che si sono prefisse una meta abbastanza difficile da raggiungere e che, una volta che ci sono arrivate, si dicono: “Alla fine si trattava solo di questo…“.

Danièle Delpeuch è la sola donna ad aver cucinato all’Eliseo. Per quanto ne sappia io, sì. E non è detto fosse la benvenuta. Perché? Perché era una outsider, e una donna. Non si vestiva come gli chef dell’epoca – era sempre in nero. Negli anni ’80 questo non andava bene. E poi doveva sembrare strano che improvvisamente il Presidente avesse deciso di volere una donna per cucinare all’Eliseo. Danièle è stata perciò la prima a farlo. E’ una donna molto particolare. Una pioniera, un’avventuriera, una donna che ha fatto molte esperienze, viaggi all’estero… E questo che mi piaceva di lei e non il suo lato di “donna ai fornelli“.

Come ha reagito al film?

Benissimo. Sapeva che Étienne ed io ci eravamo presi delle libertà rispetto alla sua storia, che Hortense le somigliava ma che non era lei, ed è stata d’accordo. In alcune scene, ispirate al suo libro, tutto è stato inventato, e in nessun momento abbiamo cercato di fare un lavoro di ricostruzione storica dell”era Mitterrand’. Non era quello che ci interessava. D’altra parte l’azione del film si svolge in un’epoca un po’ indefinita, che si situa, potremmo dire, prima dell’avvento dei telefonini, del GPS e del forno a microonde…

Catherine Frot è incredibile nel ruolo di Hortense.

Ho pensato subito a lei per la parte. Aveva l’età esatta del personaggio e un lato campagnolo che calzava alla perfezione. Non è una che si dà delle arie, Catherine Frot. La si mette in un mercato a Brive e funziona, la si porta in cucina ed è credibile! E’ del tutto a suo agio, anche se non è affatto una cuoca e non ha la gestualità dei professionisti!

Eppure i gesti di Hortense, quando cucina, sembrano avere una precisione quasi chirurgica.

E’ questo il cinema!… Il mio lavoro alla regia e il suo da attrice consisteva nel far credere che in una cucina lei era al suo posto, che ci si trovava a suo agio e che l’aveva fatto per tutta la vita… Bisognava che Catherine occupasse lo spazio. E’ questo che conta! Occupare lo spazio!
Il resto è pura aneddotica. Cucinare è un mestiere molto rigoroso, che richiede dei
gesti precisi. E alla fine vediamo Catherine eseguire dei gesti tecnici: far saltare dei gusci in un wok, pulire una carota, preparare un cavolfiore farcito…

Accanto a Catherine Frot, una presenza soprendente: Jean d’Ormesson nel ruolo del Presidente.

Jean è arrivato all’ultimo momento. All’inizio non era previsto. Tre giorni prima dell’inizio delle riprese, l’agente dell’attore che doveva interpretare il ruolo del Presidente chiama il mio direttore di produzione per dirci che “tizio” non può più girare il film! E’ sempre un po’ così quando si prepara un film. Si aspetta sempre che la tegola ci cada sulla testa. Così, riunione d’emergenza, e io dico: “basta attori“. Abbiamo visto un’enorme quantità di attori interpretare presidenti della Repubblica e, qualunque sia il talento di questi attori, che lo si voglia o no, finiscono col banalizzarli. Nel mio film il Presidente si vede pochissimo, ma se si vuole che le scene in cui appare al fianco di Catherine lascino il segno, bisogna sorprendere. Decidiamo allora di andare a cercare altrove, tra gli intellettuali, i grandi avvocati. Tutto questo in mezz’ora. Saltano fuori dei nomi e, tra questi, quello di Jean d’Ormesson. Capiamo subito che è la persona giusta. Etienne Comar si incarica di contattarlo, io parto per girare una settimana in Islanda e lo incontro per un’ora al mio ritorno. Il progetto lo diverte. Ha sempre sognato di fare l’attore… Il film si fa con lui.

Gli avete fatto dei provini?

Certo ! Lui ci teneva quanto noi! Ha insistito molto in proposito: se non fosse andato bene, avrebbe abbandonato.

E?

La prima ripresa- una scena abbastanza lunga-, è stata catastrofica. Jean era molto intimidito dal set e da Catherine. E poi, ciak dopo ciak, lentamente, le cose sono andate meglio. I margini di miglioramento erano ancora ampi e io ho pensato che avevamo il nostro Presidente. Alla fine dei provini sono andato da lui e gli ho detto: “Lei è ingaggiato“.

Torniamo alla cucina privata dell’Eliseo. L’ha visitata?

No, è vietato entrare nella parte privata. E’ una cucina che è stata a lungo destinata ad altri usi, fino a quando François Mitterrand, al suo arrivo al potere, non l’ha fatta restaurare. Ha poi chiesto di far venire un cuoco dall’esterno. Cosa che è stata mal vista da coloro che lavoravano alla cucina centrale, che si sono trovati espropriati della parte più prestigiosa del loro lavoro.

Avete girato la parte parigina all’Eliseo, a Marigny, nel Castello di Chantilly, in quello di Vigny, nei teatri di posa a Bry-sur Marne, e sembra sempre che il film si svolga al numero 55, di rue du Faubourg Saint-Honoré.

Perché abbiamo avuto la fortuna di girare per diversi giorni all’Eliseo durante la riunione del G20 a Cannes. Dato che Sarkozy non era a Parigi, ci avevano accordato un permesso speciale, e quando Hortense arriva per la prima volta al Palazzo dell’Eliseo, ci troviamo nei suoi ambienti reali. Tutti conoscono il cortile d’onore. Si vede la macchina che arriva, si ferma, e Catherine che ne esce. La scena successiva, quella in cui lei viene ricevuta dal direttore di sala, l’abbiamo girata al Ministero del lavoro… E poi si torna alla vera scalinata dell’Eliseo, li vediamo scendere nei sotterranei, che abbiamo ripreso nei veri sotterranei della scuola Ferrandi nel sesto Arrondissement di Paris… E così via. Quello che contava per me era filmare gli arrivi, le partenze, il cortile d’onore o il salone delle feste, che sono posti che tutti conoscono… Il resto era facile.

Parliamo del periodo in cui Hortense è in Antartide.

Ovviamente era fuori questione spostare le riprese laggiù perché ci sarebbero voluti più di quindici giorni solo per arrivarci. Abbiamo allora cercato un equivalente di quei paesaggi nell’emisfero settentrionale, in Europa. E alla fine abbiamo piazzato la macchina da presa in Islanda. Ci sono degli scenari incredibili, è un territorio vergine: niente aerei nel cielo, neanche un palo della luce, non un’anima: i due terzi della popolazione vivono a Reykjavik. Altro vantaggio è che gli islandesi sono abituati alle troupe: lì vengono girati molti film americani, penso per esempio a Clint Eastwood per Lettere da Iwo Jima. Ma le condizioni ambientali sono dure, le relazioni complicate, il tempo cambia continuamente, abbiamo subito diverse tempeste e, per alcuni giorni, non abbiamo praticamente potuto girare. Durante la scena in cui Hortense spiega alla giornalista australiana di aver trovato in Nuova Zelanda le condizioni ideali per la sua coltivazione di tartufi, pioveva a catinelle e il vento soffiava a cento all’ora. Questo nel film non si vede.

E’ stata una sfida quella di strutturare la storia in questi due periodi che si alternano continuamente?

E’ sempre complicato costruire un film che si svolge in due epoche diverse e con molti andirivieni tra le due. Bisognava farlo funzionare. Il film è stato strutturato attorno al contrasto tra questi due universi.

Si avverte una solitudine immensa in questa donna che ha trascorso un anno nella base.

Sì, ma credo che lei si sia tagliata fuori dal mondo volontariamente. All’Eliseo, per due anni, era a disposizione 24 ore su 24. Non sapeva mai se il Presidente avrebbe mangiato lì perché la informavano solo all’ultimo momento. Nel film lei va via mestamente, senza una parola di ringraziamento – forse provando anche una certa stanchezza. Invece lì, in un’isola sperduta nell’Oceano Antartico, all’improvviso le danno del tu, la applaudono, e alla fine lei crolla, piange e …ride! La parola importante alla fine del film è: “grazie“. Da una parte, in Antartide, la ringraziano, la ringraziano nel senso vero del termine, le dimostrano di aver apprezzato quello che lei ha fatto. Dall’altra parte, all’Eliseo, la ringraziano nel senso di congedarla, di spingerla ad andarsene, di mandarla via, cacciarla.

Guardando la sua filmografia, si resta colpiti dalla varietà dei soggetti trattati.

Un giorno mi hanno chiesto perché facessi film e io ho risposto: “Per non dover lavorare“… Per sfuggire alla routine del lavoro da impiegati, alla sua monotonia. Il cinema è il mestiere che offre il miglior impiego possibile del tempo. C’è il tempo della scrittura, che a volte è un momento di solitudine… Il tempo della preparazione, che è il momento della scoperta: si viaggia in paesi diversi, si scoprono delle città, delle strade che non si conoscevano, si visitano degli appartamenti, si fanno degli incontri. C’è il tempo delle riprese che è quello della follia, dell’angoscia e della felicità più pura. Un momento di controllo assoluto in cui tutto sfugge al controllo. E per finire c’è il tempo del montaggio, che è il momento della verità: il momento in cui ci si confronta con quello che si è fatto.

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