Sanremo 2020 Rula Jebreal
Sanremo 2020 Rula Jebreal

Sanremo 2020: chi è Rula Jebreal e perché il suo monologo è fondamentale


'Che non si chieda mai più a una donna che è stata stuprata come era vestita lei quella notte. Che non si chieda mai più': chi è Rula Jebreal e perché il suo monologo sul palco dell'Ariston, a Sanremo 2020, è un pugno nello stomaco e, insieme, una boccata d'aria nuova

Forse, quando Rula Jebreal è salita sul palco dell'Ariston nella prima serata della settantesima edizione del festival di Sanremo, con il suo monologo e la sua testimonianza, aveva già messo in conto che ci sarebbero stati i detrattori. Lei, che si è occupata di cronaca estera, che ha seguito i conflitti mediorientali, che ha visto la guerra e l'ha vissuta sulla propria pelle, si aspettava reazioni come quelle di Maria Giovanna Maglie che ha descritto la sua testimonianza a Sanremo come un femminismo peloso. Forse immaginava che ci sarebbero stati i detrattori, i cinici, gli indignati che hanno tempo di indignarsi per le cose superflue e mai per il fiume nero che scorre tra le vie sempre più putride del nostro paese. Forse se lo aspettava, e forse non le è importato.

Perché quando Rula Jebreal è salita sul palco, con un doppio legio e un monologo che ha scritto anche con l'aiuto di Selvaggia Lucarelli e Sergio Rubini, sapeva che si stava rivolgendo a un pubblico vasto, un pubblico grandissimo, di quelli che accorrono per le grandi occasioni e che di solito, e fa male ammetterlo, non sono mai attenti quando c'è bisogno di ascoltare. Ma sul parco dell'Ariston, con la voce rotta ma lo sguardo integro, Rula Jebreal ha parlato di violenza e diritti delle donne guadagnandosi l'attenzione di tutti, anche di coloro che magari oggi (e magari si tratta di altre donne) sono pronte a smontare tutto, pezzo dopo pezzo. Ma la Jebreal conosce l'importanza delle parole, la forza di queste armi affilate che riempivano le sue notti all'orfanotrofio e che hanno guidato la sua carriera così come la sua vita, proprio come dirà lei stessa sul palco:

Ci raccontavamo delle nostre madri, spesso stuprate, torturate e uccise. Ogni sera prima di dormire celebravamo tutti insieme di quelle parole di dolore. Io amo le parole. Ho imparato venendo da luoghi di guerra a credere alle parole e non ai fucili.

Ma la giornalista di Haifa, arrivata in Italia a vent'anni con una borsa di studio, sa che non bisogna concentrarsi su chi vuol distruggere, su chi non vuol credere, su chi passa il suo tempo a cercare crepe, a cercare prove di malafede, di incredulità. Quei sentimenti che le donne vittime di abusi e di stupri devono fronteggiare quotidianamente e che molto spesso le spingono a non denunciare, a sentirsi in colpa per una gonna indossata, per una bottiglia di birra bevuta insieme ad un amico, per aver cambiato idea, per aver sorriso troppo o per aver sorriso troppo poco. "Se le donne non vogliono essere stuprate devono smetterla di vestirsi da poco di buono" dice Rula Jebreal nel suo monologo e in quelle parole si riflettono migliaia di commenti maschilisti e biechi letti sui social, di donne avvelenate contro altre donne che usano termini dispregiativi, umilianti, di una violenza inaudita che quasi giustificano la violenza. Ancora non abbiamo capito che le parole sono importanti.

I femminici non sono più omicidi dove il movente è il genere, ma ultime dichiarazioni passionali di uomini distrutti dall'amore. Il mostro diventa l'eroe romantico, la donna una vittima che non è stata in grado di comprendere il suo amore. Nel 2020 è agghiacciante credere di dover sottostare ancora ad una lettura di una carneficina quotidiana che avviene sotto lo sguardo impassibile di un'umanità che non ha più nemmeno il coraggio di urlare. Nel 2020 c'è ancora chi, parlando dell'Otello di William Shakespeare, piange di dolore per Desdemona, perché uccisa ingiustamente perché non colpevole di adulterio: come se, al contrario, fosse accettabile, comprensibile e persino giusto uccidere una donna per un tradimento. Come a dire che se Desdemona avesse avuto davvero un amante – o una schiera d'amanti, se è per questo – allora Otello avrebbe fatto bene a ucciderla, a toglierle la vita, perché o sua o di nessun altro. Perché se lo sarebbe meritato. E la colpa principale delle donne, anche oggi nel 2020, è quello di credere di poter essere per se stesse e basta. L'emancipazione, la carriera, l'ambizione, persino il desiderio di solitudine sono viste come colpe.

"Noi donne non siamo mai innocenti, " prosegue Rula Jebreal e le sue parole sembrano rimandare l'eco di quelle verità assolute che molto spesso diamo per scontate e di cui paghiamo le conseguenze. Tutti, come intera razza umana.

Non lo siamo perché abbiamo denunciato troppo tardi. O perché abbiamo denunciato troppo presto. Perché siamo troppo belle. O persino troppo brutte. Perché eravamo troppo disinibite. Ce lo siamo volute.

Dopo questa affermazione la giornalista legge al pubblico di Sanremo una parte del testo de La Cura, di Franco Battiato e poco più in là Rula Jebreal racconta i numeri agghiaccianti che dovrebbero essere proibiti, imbarazzanti per un paese che si fa fregio di essere la culla della civiltà:

In Italia in questo paese magnifico che mi ha accolto i numeri sono spietati. Negli ultimi tre anni sono tre milioni centocinquantamila donne che hanno subito violenze sessuali sul posto di lavoro. Negli ultimi due anni in media 88 donne al giorno hanno subito abusi e violenze. Una ogni quindici minuti. Ogni tre giorni è stata uccisa una donna. Sei donne sono state uccise soltanto la scorsa settimana. E nell'ottanta per cento dei casi il carnefice non ha bisogno di bussare alla porta, per un motivo molto semplice: ha le chiavi di casa. Ci sono le sue impronte sullo zerbino, il segno delle sue labbra sul bicchiere in cucina.

Questa parte del monologo si chiude con la lettura di una parte del testo de La Donna Cannone di Francesco De Gregori.

Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno
Giuro che lo farò
E oltre l'azzurro della tenda nell'azzurro io volerò
quando la donna cannone d'oro e d'argento diventerà
senza passare per la stazione l'ultimo treno prenderà

La strofa permette a Rula Jebreal di entrare nel racconto della storia di sua madre Zakia, che le fa tremare la voce e le accende la rabbia e insieme alla sua quella del pubblico che ascolta, del pubblico in tutta Italia che stringe i pugni perché l'umiliazione della carne fa male quasi quanto l'umiliazione del silenzio, dell'omertà, di chi sa e si volta dall'altra parte, di chi potrebbe tendere una mano e invece alza barriere dove una donna si sente isolata, delusa, tolta della sua dignità e della sua voce.

Mia madre Zakia che tutti chiamavano Nadia ha perso il suo ultimo treno quando io avevo 5 anni. Si è suicidata, dandosi fuoco. Ma il dolore era una fiamma lenta che aveva cominciato a salire, ad annerirle i vestiti quando era solo un'adolescente. Il suo corpo era qualcosa di cui voleva liberarsi. Era stato luogo della sua tortura. Perché mia madre Nadia fu brutalizzata e stuprata due volte. A tredici anni da un uomo. Poi da un sistema che l'ha costretta al silenzio, che non le ha consentito di denunciare. Perché le ferite sanguinano molto di più quando non si è creduti. L'uomo che l'ha violentata per anni, il cui ricordo incancellabile era con lei mentre le fiamme divoravano il suo corpo aveva le chiavi di casa.

Dopo la morte di sua madre, Rula Jebreal viene mandata in un orfanotrofio di Gerusalemme dove incontrò Hind al-Husseini, che considererà una sorta di seconda madre, una donna che le ha teso la mano e, probabilmente, le ha insegnato che le donne possono essere alleate tra loro. A vent'anni riceve una borsa di studio dal governo italiano che le permette di studiare fisioterapia a Bologna, dove si laurea. La sua carriera inizia con testate come Il Resto del Carlino, Il Giorno e la Nazione: ma si tratta dei primi passi in un mondo che Rula Jebreal percorrerà con la determinazione che ha portato sul palco di Sanremo. Per La7 si occupa della rassegna stampa in lingua araba e intanto inizia a lavorare con Il Messaggero come editorialista di politica estera. Tra i programmi che ha all'attivo nel suo curriculm ci sono Omnibus Estate, Pianeta 7 e il TG di La7, Annozero con Michele Santoro. Ha scritto due romanzi con Rizzoli (più un saggio di interviste sugli immigrati in Italia). Uno di questi, La strada dei fiori di Miral diventa Miral, film diretto da Julian Schnabel, di cui ha curato la sceneggiatura.

Il ritratto di Rula Jebreal è quella di una donna che si è impegnata nel suo lavoro e che ha sempre creduto nella forza della voce, delle denunce, del racconto. Una donna che era stata chiamata da Amadeus in persona per prendere parte a Sanremo70 e che aveva già concordato un monologo sull'argomento che tanto le sta a cuore e che dovrebbe stare a cuore anche a chi dovrebbe guidare un paese verso il suo lato migliore, invece che sorridere nel vederlo impantanato nel fango dell'odio, del razzismo, dell'analfabetismo funzionale e dell'ignoranza. Ma di colpo dalla Rai le arriva una telefonata in cui le si chiede di rinunciare alla sua partecipazione a Sanremo dopo che Dagospia aveva fatto uscire con anticipo l'argomento del suo monologo: la reazione sui social, di quei leoni di tastiera di cui ormai i media sono traboccanti, è catastrofica: Rula Jebreal diventa una "valletta" (nel migliore dei casi), una straniera che odia e denigra il paese in cui vive. Come raccontato dalla stessa giornalista ad un'intervista a Repubblica, gli attacchi sarebbero arrivati da persone vicine a Matteo Salvini, spaventati dall'idea di trasmettere all'Italia la figura di un nuovo paese, di persone preparate, di persone che credono all'inclusività e che non si arrendono agli esperti dell'orrore. Un po' come cantava Franco Battiato in Bandiera Bianca: "Quante squallide figure che attraversano il paese, com'è misera la vita negli abusi di potere". Perciò Rula Jebreal, per un diktat inviato a Viale Mazzini, nella sede della Rai, sembra fuori dalla squadra di Sanremo. Ma, alla fine, i vertici Rai hanno fatto un passo indietro e Rula Jebreal è stata confermata e non ha dovuto chiedere scusa per essere una giornalista, per essere straniera, per essere una cittadina italiana che odia il razzismo e l'odio. Lei non ha avuto colpe. Come non le hanno le donne che hanno subito stupri.

"Voi non avete nessuna colpa," continua la Jebreal, raccontando di un'altra donna a cui fu chiesto di essere coraggiosa. "Mentre Franca Rame veniva violentata il 9 Marzo 1973, l'anno in cui sono nata io, cercò salvezza nella musica. Devo stare calma, devo stare calma. Mi attacco ai rumori della città, alle parole delle canzoni. Devo stare calma, recitava nel suo potente monologo lo stupro, in cui ripercorreva quel fatto drammatico. Le canzoni che ho citato stasera, sono tutte scritte da uomini. Tutte. Dunque vedete è possibile trovare le parole giuste, è possibile raccontare l'amore, il rispetto, l'affetto e la cura. E questo è il momento per cui quelle parole diventino realtà. Il momento che quelle parole non siano solo cantante, ma siano finalmente vissute. Ogni giorno. Per farlo dobbiamo lottare, urlare da ogni palco anche quando ci diranno che non è opportuno. Io sono diventata la donna che sono per mia madre e grazie a mia figlia, Miral, che è seduta in mezzo a voi. Lo devo a loro, lo dobbiamo a tutte noi, lo dobbiamo a una madre, a una collega, a una sorella, una vicina … Lo dobbiamo anche gli uomini per bene, all'idea stessa di civiltà e di uguaglianza. All'idea più grande di tutte, la libertà".

E il monologo, alla fine, si chiude con una richiesta brutale, ma più che legittima.

Sono stata scelta stasera per celebrare la musica e per celebrare le donne. Ma sono qui a parlare delle cose di cui è davvero necessario parlare. Certo ho messo il migliore vestito e in fondo il senso di tutto ciò è nelle parole giuste, nelle domande giuste. Domani chiedetevi come erano vestite le conduttrici di Sanremo, chiedetevi pure com'era vestita la Jebreal. Che non si chieda mai più a una donna che è stata stuprata come era vestita lei quella notte. Che non si chieda mai più. Mia madre Nadia ha avuto paura di quella domanda. Mia madre non ce l'ha fatta e così tante donne. Noi non vogliamo più avere paura, non vogliamo più essere vittime, orfane, un accessorio, una quota. Io lo devo a mia madre Nadia, lo dobbiamo alle nostre madri, lo dobbiamo a tutte noi. Lo devo anche a me stesse. Lo dobbiamo alle nostre figlie e a quelle bambine, qui e là. Che nessuno può permettersi di togliere… di toglierci … il diritto di addormentarci con una favola. Noi donne vogliamo essere libere, nello spazio, nel tempo. Vogliamo essere silenzi, rumore. Vogliamo essere proprio questo: musica.

A questo punto il monologo finisce, l'Ariston si alza in piedi e tra lacrime e applausi c'è anche chi si sente in dovere di dire che questo momento è "la vittoria di Amadeus". Non lo è. La vittoria è quella di una donna che ha visto la sua vita crollare all'età di cinque anni e che da allora non ha mai smesso di urlare per sua madre, per sua figlia, per coloro che non hanno voce e per le altre che una voce l'hanno avuta, ma di fronte hanno trovato solo un sistema che non ha mai voluto ascoltare. Be', per una notte, almeno, l'Italia ha ascoltato. La speranza è che, finalmente, abbia anche iniziato a capire.

Qualora vi siate perso il monologo di Rula Jebreal nella serata inaugurale di Sanremo lo potete vedere su RaiPlay.

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