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Escobar: Paradise Lost non un film biografico ma ben fatto

Il regista Andrea Di Stefano descrive Pablo Escobar in parallelo, non entrando direttamente nella sua psicologia e non facendo un film prettamente biografico.

Un santo, un visionario, un tiranno, un malavitoso. Cos'era Pablo Escobar? Probabilmente tutto questo. Questa è la figura che traspare dal primo film di Andrea Di Stefano: un personaggio poliedrico, intriso da sentimenti contraddittori. Il regista però lo descrive in parallelo, non entrando direttamente nella sua psicologia né tantomeno facendo un film prettamente biografico.

Di Stefano ci racconta la storia di Nick che segue suo fratello in Colombia, in un angolo di paradiso terrestre, dove dà lezioni di surf. Lì per un caso conosce Maria, una ragazza del posto, della quale si innamora. Maria parla moltissimo di lui allo zio, Pablo Escobar. Il giorno delle presentazioni ufficiali arriva e Pablo vede di buon occhio Nick, tanto da accoglierlo nella sua lussuosa tenuta per dargli un lavoro. Tutto sembra scorrere alla perfezione quando una serie di eventi porteranno Nick a dubitare fortemente della bontà di quest'uomo, un dubbio che si trasformerà in certezza e che porteranno il surfista canadese in una spirale di terrore.

Benicio del Toro torna ad indossare i panni di un personaggio di spicco sudamericano, diametralmente opposto al Che Guevara di Soderbergh, e lo fa magistralmente, perfettamente a suo agio nei panni del più famoso narcotrafficante della storia. Il risultato che ci viene mostrato è quello di un Escobar contraddittorio, che predica il bene attraverso il male, un abile manipolatore che riesce a giocare alla perfezione anche con lo spettatore. L'empatia che si prova verso questa figura, seppur personaggio secondario, è decisamente varia e cambia da momento a momento. Una vera e propria ascesa di infinita bontà che si conclude con un declino, mostrando Escobar per ciò che è sempre stato: un criminale.

Il neoregista, un attore internazionale qui alla sua opera prima, dà un chiaro segno delle sue grandi abilità registiche. L'idea di disegnare Escobar attraverso una storia di finzione è molto astuta se consideriamo il materiale contraddittorio della personalità del narcotrafficante. Un Deus Ex Machina che dall'alto dirige il susseguirsi dei fatti, quasi come una divinità greca tanto buona quanto cattiva. Le parole del suo braccio destro Drago rivolte a Nick sono emblematiche: "Nessuno sfugge a Pablo Escobar". Un semidio in un mondo di umani. Un altro espediente più che valido è l'intreccio che ricorda molto la tragedia greca di Icaro, per stessa ammissione del regista, intriso con lo stile del thriller mozzafiato. Nick incarna l'Icaro moderno che più si avvicina alla ricchezza e più inizia a percepire un eccessivo calore che inevitabilmente lo porterà a bruciarsi.

Fa sicuramente piacere sapere che Di Stefano sia riuscito a creare un film decisamente ottimo e che sia nato (speriamo) un nuovo regista di livello. Fa sicuramente meno piacere sapere che è un film uscito nel 2014 e riproposto adesso per compensare l'attesa della seconda stagione della serie di ampio successo "Narcos". "Escobar: Paradise Lost" meritava molta più fiducia. Ma come si suol dire, meglio tardi che mai.

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