

Il Frankenstein di Danny Boyle, la recensione
Per il 50esimo Anniversario del National Theatre di Londra, al cinema il Frankenstein di Danny Boyle, assoluto capolavoro teatrale, che vede l'emergere di due grandiose interpretazioni da parte di Jonny Lee Miller nei panni di Victor Frankenstein e Benedict Cumberbatch in quelli della nostalgica e commovente Creatura.
di Erika Pomella / 12.12.2013 Voto: 1/10
In occasione del cinquantesimo anniversario dello storico teatro londinese National Theatre, e grazie all'aiuto di Nexo Digital, molti spettatori al di fuori dei confini britannici hanno potuto assistere ad alcuni dei più importanti spettacoli teatrali andanti in scena. Ultimo, in ordine temporale, è stato il maestoso Frankenstein, che vede alla regia il veterano di Hollywood Danny Boyle dirigere due attori superbi, quali Jonny Lee Miller – visto recentemente nei panni di Roger Collins in Dark Shadows – e il beniamino di Sherlock Benedict Cumberbatch, da oggi nelle sale nei doppi panni del drago Smaug e del Negromante in Lo Hobbit – La desolazione di Smaug.
Lo spettacolo teatrale è volto a mettere in luce non tanto il genio scientifico di Victor Frankenstein, quanto il bisogno della sua mostruosa Creatura di dare un senso all'universo intorno a sè. Ogni sera la Creatura esce dal proprio bozzolo di oscurità e ignoranza, e cerca di capire. Proprio come nel romanzo originale di Mary Shelley, anche qui il Mostro non è altro che un uomo ordinato alla vita con una profonda sete di conoscenza. Molto saggia, allora, risulta la scelta di permettere ad entrambi gli attori di interpretare i due ruoli principali a sere alterne, di modo che la creatura sia sempre fedele a se stessa, ma mai uguale, sempre piuttosto in continuo divenire.
Noi abbiamo visto la registrazione dello spettacolo in cui Jonny Lee Miller dava il volto allo scienziato reso un po' folle dalla propria verve scientifica, e Benedict Cumberbatc muoversi claudicante e insicuro sulle gambe della creatura. All'inizio dello spettacolo, da una sorta di Mappamondo gigante, simbolo di una cosmogenesi che proprio non ha nulla da che invidiare al tanto decantato Malick, una creatura emerge, strisciando a terra e muovendosi come se non fosse in grado di capire come funziona il proprio corpo. Neonato costretto nella fisicità di un adulto, elemento nuovo in un mondo già perfettamente costruito, il Mostro striscia, cade, tenta di alzarsi. In più di dieci minuti Benedict Cumberbatch scopre di nuovo l'atto della prima conoscenza; quella che non proviene da fuori, ma anzi si alimenta dall'interno, dalla consapevolezza di una propria concretezza esistenziale. E la fisicità dell'attore britannico è perfetta, a tratti persino inquietante. La solidità dei muscoli sotto la pelle, la tensione dei nervi nello sforzo di amalgamarsi al resto del mondo, viene offerto dall'attore con una tale intensità da spingere alle lacrime. E tale slancio interpretativo rimarrà invariato per tutto il resto dello spettacolo: dalle prime scoperte – il canto degli uccelli, l'ascesa del sole, la pioggia battente – fino alle prime lezioni – il fuoco che brucia – la Creatura si trascina dietro i suoi giorni, vedendosi sempre rifiutato per il suo aspetto, per il suo essere così dannatamente fuori da schemi precostituiti da un mondo che non accetta il diverso.
Vero e proprio capostipite di una lunga gallerie di freak che negli anni si sono affacciati nell'immaginario collettivo, il Mostro di Frankenstein è anche un uomo che anela la comprensione e l'amore, cercando di rifuggire l'isolamento nel quale è costretto suo malgrado. Anche in questo senso l'interpretazione di Benedict Cumberbatch è magistrale: dai primi, goffi, tentativi di comunicazione fino agli ultimi monologhi gridati contro il destino avverso. Il suo è un lento incedere nella vita, una continua richiesta d'aiuto che rimane quasi sempre inascoltata. Ma, al tempo stesso, in quel cuore buono e bisognoso, si vede pian piano cementarsi il seme velenoso della vendetta e del rancore. Volevo essere buono dirà la Creatura al suo disattento creatore. E la volontà si evince, lì su quel palco, e la si avverte come un dardo infuocato che lacera le carni dello spettatore.
Si farebbe comunque un torto a non parlare anche dello splendido lavoro svolto da Jonny Lee Miller, che confeziona uno scienziato quasi schizofrenico, che rinuncia al mondo per il proprio desiderio di scienza. E – almeno dal suo punto di vista – è vero il detto che invita a far attenzione a ciò che si desidera. Giocando a fare Dio, in un laboratorio dimesso, Victor Frankenstein riesce ad avere ciò che sogna. La capacità di animare l'inanimato. Ma una volta che questa scintilla è divampata Victor scappa, rifugge dalla creatura e da se stesso, non sapendo che – in un arco narrativo di poco più di tre anni – l'ombra di ciò che è voluto diventare tornerà ad opprimerlo, rubandogli ciò che desidera ora che sa quali sono le conseguenze di andare oltre ai limiti concessi agli esseri umani.