I Fratelli Sisters
I Fratelli Sisters

Jacques Audiard presenta a Roma I Fratelli Sisters


In occasione del Rendez-Vous, il festival del Nuovo Cinema Francese di Roma, Jacques Audiard ha presentato alla stampa il suo ultimo lavoro, 'I fratelli Sisters', che arriverà al cinema con Universal a partire dal 2 Maggio

Si è tenuta nella spendida cornice del St. Regis Hotel, a due passi da Piazza della Repubblica, la presentazione per la stampa di I Fratelli Sisters, pellicola già passata alla 75a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, dove ha vinto il leone d'argento. Basata sul romanzo Arrivano i Sisters di Patrick DeWitt, la pellicola racconta la storia dei fratelli Carlie (Joaquin Phoenix) e Eli (John C. Reilly), due assassini su commissione che si trovano su posizioni quasi opposte riguardo il futuro della loro attività. In un lungo viaggio che li porterà dalle Montagne dall'Oregon fino alla piccola città di Mayfield per arrivare infine alla California della Febbre dell'Oro, i due uomini saranno costretti non solo a rapportarsi a sfide che metteranno a repentaglio la loro stessa vita, ma anche a confrontarsi con la loro stessa identità. Il film, vincitore anche di quattro premi César (gli Oscar francesi) per miglior regia, sonoro, scenografia e fotografia, arriverà nei nostri cinema a partire dal prossimo due maggio, distribuito per l'Italia da Universal.

In occasione del Rendez-Vous, festival del Nuovo Cinema Francese, che si tiene a Roma ogni anno, nella capitale è atterrato il regista del film, Jacques Audiard, già acclamato cineasta per i suoi lavori precedenti, tra cui ricordiamo il violento Il profeta, e lo struggente Un sapore di ruggine e ossa, che ha avuto il merito di imporre Matthias Schoenaerts all'attenzione del cinema internazionale, apparendo come primo passo verso una carriera in continua ascesa. Proprio all'interno del festival del cinema francofono, Audiard terrà una masterclass prima della proiezione del  già citato Il profeta.

Con un completo chiaro e un sorriso volto a ignorare le problematiche tecniche dell'audio nella sala della conferenza, Jacques Audiard ha risposto alle domande della stampa, con modi pacati e una partecipazione che ha reso molto leggera l'atmosfera nella sala. Di seguito quello che il regista ci ha raccontato. ATTENZIONE: il resoconto dell'incontro potrebbe contenere spoiler. Ad ogni modo vi segnaleremo quando ci saranno rischi di anticipazioni.

Come sei arrivato a questo progetto?

Devo ammettere che non è stata una mia idea. È stato John C. Reilly, in realtà, che mi è venuto a trovare al Festival di Toronto, portandomi il libro e proponendomi di fare il film. Devo dire che il libro era già uscito in Francia: tuttavia, se lo avessi letto per mio gusto e basta, probabilmente non avrei mai pensato di farci un film, perché il western non è propriamente il mio genere. Quindi diciamo che, in realtà, si è quasi trattato di un film su commissione ed è nato dal desiderio di John C. Reilly di interpretare il personaggio di Eli.

Questo film sembra voler riempire i "buchi" lasciati dal western classico. Tutto quello che non c'è nell'archetipo del genere lo troviamo qui. Mi sbaglio?

No, ha assolutamente ragione. Ma c'è da dire che questa nuova idea di western si trovava già nel libro, faceva già parte del romanzo. L'ironia con cui si trattavano le situazioni, l'attezione data ai personaggi dei cowboy come ad esempio l'igiene mentale. La masturbazione … ah no, scusate. La masturbazione è roba mia, è un mio tema. Diciamo quindi che non avendo nessun vero rapporto con il genere di appartenenza sono stato costretto ad aggirare il genere stesso, a fare qualcos'altro. Inoltre non dimentichiamo che The Sisters Brothers è un film che si concentra sul racconto di un'iniziazione e, allo stesso tempo, è un racconto di formazione. I due personaggi, anche se sono adulti, sono in realtà due bambini cresciuti. È come se avessero ancora dodici anni e si divertono a fare peti. E questo, immagino, risponde anche alla domanda che mi fanno spesso sulla mancanza di personaggi femminili forti: i due protagonisti sono ancora nella pubertà, perciò le donne non gli interessano. Le donne arriveranno più tardi. E in questo senso non è un caso che alla fine  (spoiler) i due tornino a casa dalla madre. (fine spoiler).

Volevo sapere qualcosa sul modo in cui si è rapportato al paesaggio che nel genere western è molto importante…

Il western, in effetti,  un cinema di paesaggi. È un cinema che si basa moltissimo sugli spazi. Ed è fortemente stereotipato. Io, però, ho scelto di girare il mio film tra la Spagna e la Romania e alla fine mi sono detto che io sono un regista, non un giardiniere. Perciò mi interessa concentrarmi di più sulle immagini da costruire che sul paesaggio in cui inserirle.

Qual è il suo rapporto con la letteratura?

Bé, devo dire qui c'è un precedente. Mio padre, infatti, era uno sceneggiatore. Tuttavia devo dire che l'eredità che mi ha lasciato verte molto più sul campo della letteratura. Mi ha dato tantissimi consigli di lettura, ma non riesco a ricordare neanche una volta in cui, invece, mi consigliò un film da vedere. Ne consegue che il mio rapporto con la letteratura è molto forte. Per quanto riguarda il mio lavoro come sceneggiatore, io non penso affatto di essere uno sceneggiatore dialoghista. Affatto. Mi ritengo più uno sceneggiatore di situazioni. Sono quelle che mi interessano.

E quali sono stati i consigli letterari di suo padre?

Mi consigliò Proust, e da lì non sono mai più riuscito a uscire. Io sono un uomo di sessantasei anni e pensavo che a questa età avrei certamente ampliato i miei gusti e i miei orizzonti letterari, ma la verità è che sono ancora adesso incastrato con Proust. Proprio poco prima di cominciare il tour mi sono ritrovato a riprendere in mano All'ombra delle fanciulle e in fiore e so già che ricomincerà di nuovo tutto e rimarrò di nuovo impelagato con questo romanzo.

Qual è invece il suo rapporto con la lingua? Perché questo film lei lo ha girato in inglese…

Sono io stesso costretto ad ammettere che gli ultimi due film che ho fatto sono stati girati in una lingua che non mi appartiene. Inoltre l'inglese lo parlo persino peggio di quanto lo capisco. Però lavorare con una lingua non tua, in cui non ti senti a tuo agio, cambia sia il modo che hai di rapportarti agli attori, sia a quello che ti trovi davanti agli occhi. Cambia le aspettative che hai rispetto a quello che gli attori devono fare. Diciamo che in questo caso non si tratta più di un rapporto razionale, ma che ha invece molto a che fare con la musicalità.

Questa è una domanda che probabilmente si aspetta: che rapporto ha con il cinema di Sergio Leone?

Sergio Leone è un cineasta che ammiro più di quanto io possa ammirare i suoi film. In effetti non sono un grande fan di Per un pugno di dollari. Ma lui aveva questa capacità di sintetizzare il pensiero che era qualcosa che poteva far commuovere e in più aveva una grandiosa perizia tecnica. Penso che sia un autore molto importante e che ancora oggi influenza un certo modo di fare cinema. Insomma, ancora oggi siamo influenzati da lui e dalla sua tecnica. Per dire, io non ricordo le trame dei suoi film, ma ci sono immagini che lui ha composto per le sue pellicole che ricorderò per sempre. Diciamo che, in questo caso, di sicuro avrei voluto potergli fare qualche domanda.

Il western è un cinema fortemente codificato. Quindi lei come ha lavorato sulle immagini?

È qualcosa su cui ci siamo interrogati molto. La cosa interessane è che, con questo film, io parlo sempre al plurale. Non ci sono solo io, ma siamo sempre un noi. Questo perché con Thomas (Thomas Bidegain, lo sceneggitore ndr) abbiamo riflettuto molto su come rapportarci all'immagine. All'inizio avevamo pensato anche di girare tutto il film di notte, con l'oscurità, quasi che i nostri protagonisti fossero vampiri che si aggiravano nei boschi. Questo per portare all'estrema stilizzazione dell'opera. Poi avevamo pensato anche di far sì che il film fosse tutto sulle note della sequenza d'apertura, che se avete visto potete capire. Avevamo pensato anche di girare tutto in bianco e nero, ma poi ci abbiamo ripensato, scegliendo di optare per un colore molto acceso, quasi da fumetto. Il punto era che dovevamo semplicemente trovare una forma che fosse adatta per tutto quello che volevamo raccontare e, allo stesso modo, che fosse in grado di sposarsi con l'immaginario quasi fiabesco che avevamo scelto di portare in scena per raccontare questa storia.

Questo film segna la sua ennesima collaborazione con Alexandre Desplat, che ha detto che lei è il regista con cui si sente più a suo agio a lavorare. Cosa ci può dire del vostro rapporto?

Innanzitutto direi che è Alexandre è stato molto gentile, se ha detto questo. Anche perché penso che lavorare con Wes Anderson, ad esempio, non sia stato poi così male. Ad ogni modo Alexandre ed io abbiamo cominciato a lavorare già dal mio primo film e ormai siamo amici da oltre trent'anni, e questo va detto subito. Perché la sua amicizia è comunque una componente importante del nostro modo di lavorare insieme. All'inizio, ai nostri primi film insieme, lui mi dava subito la campionatura. Ora, invece, aspetta di vedere le immagini dei film. Di solito c'è da dire che io lavoro molto anche con musica pre-esistente. La uso da accompagnamento quando devo far avanzare la storia e uso i brani inediti di Alexandre per descrivere situazioni particolari o i personaggi stessi. In questo film, invece, l'intera colonna sonora è originale, di Desplat.

 

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