Oh Boy un caffè a Berlino: intervista al regista Jan Ole Gerster


L'intervista fatta a Jan Ole Gerster, il regista del film 'Oh Boy un caffè a Berlino' vincitore al German Film Prize di 6 Premi Lola, dal 24 ottobre al cinema.

Aspettando il 24 ottobre, quando arriverà al cinema Oh Boy un caffè a Berlino, di Jan Ole Gerster, con Friederike Kempter, Marc Hosemann, Ulrich Noethen, Justus von Dohnányi e Michael Gwisdek, vi proponiamo l'intervista fatta dal giornalista Quentin Grosset al regista del film, Jan Ole Gerster.

Le prime scene di Oh Boy un caffè a Berlino ricordano un film della "Nouvelle Vague". In bianco e nero, una stanza, una ragazza con i capelli corti che indossa la stessa maglietta da marinaio di Jean Seberg in Breathless. Qual è il legame con questo tipo di cinema?

Nella sceneggiatura avevo inserito molto riferimenti al cinema francese di quegli anni, specialmente a Truffaut. Ma alla fine, li ho eliminati quasi tutti. È stata semplicemente una coincidenza che questa attrice assomigliasse a Jean Seberg. Ci avevamo scherzato su, mentre facevamo le riprese, ma ho pensato che nessuno lo avrebbe notato. Forse sono un po' ingenuo…

Le scene metropolitane rivestono un ruolo importante nel suo film. Quale aspetto di Berlino desiderava raccontare?

Mi sono trasferito a Berlino 13 anni fa. È una città molto creativa e vivace, sicuramente più attraente di altre città tedesche come Francoforte, che invece è più focalizzata sulle attività commerciali. Ogni luogo di Berlino parla di Storia. Si può camminare vicino ad un grande negozio e imbattersi all'improvviso in un edificio che risale all'epoca socialista. Questo aspetto affascinante, sta scomparendo a poco a poco nelle metropoli più grandi, che ovviamente hanno bisogno di spazio per svilupparsi. In OH BOY, non volevo fare apparire Berlino come una cartolina, ma non volevo nemmeno concentrarmi solo sull'aspetto ultramoderno e avanguardistico della città, volevo catturarne l'aspetto eterno, senza tempo!

E' per questo che ha deciso di girare il film in bianco e nero?

È stata più una scelta istintiva, e sono ben consapevole di non essere il primo regista ad aver ripreso una città in bianco e nero. Il bianco e nero crea una sorta di distanza e mi ha permesso di inserire nella mia sceneggiatura molti elementi personali. Lasciandosi alle spalle un certo naturalismo, si dà allo spettatore la possibilità di scegliere se identificarsi con il personaggio principale o no, se restare nella posizione dell'osservatore o condividerne le esperienze. 

Perché l'uso della musica jazz?

Questo aspetto è emerso durante la fase di editing del film, dopo che avevo provato tutti i generi musicali, ad eccezione forse della musica elettronica. Volevo lavorare con dei musicisti veri. Tante delle mie colonne sonore preferite sono la musica di Simon and Garfunkel per "Il Laureato," quella di Neil Young per "Dead Man"… Il suono diventa un personaggio. Il jazz ha una vena ironica che fa da contrappeso al carattere malinconico del film. È come un commento sonoro alle immagini di Berlino. Mancava solo un mese al primo screening del film ad un festival, e ancora non avevo trovato la musica giusta. Poi ho avuto l'opportunità di conoscere quattro giovani studenti di musica jazz, e in sole due settimane siamo arrivati ai primi brani dimostrativi e alla registrazione finale. Gli ho fatto fretta, ricordandogli che Miles Davis aveva scritto la colonna sonora originale di "Ascensore per il patibolo" in soli tre giorni…

Quanto di autobiografico c'è nel film?

Si tratta di una storia personale, anche se nel film non racconto la mia vita privata. Scrivo per me stesso, ma cerco anche di pensare a chi vedrà il film, di trasportare lo spettatore in un posto dove possa scoprire un po' di sé stesso relazionandosi con i personaggi e le situazioni. Ho raccontato nella mia sceneggiatura quelle cose che avevo provato io stesso in un periodo della mia vita in cui mi sentivo estraneo, scollegato dal mondo e alla ricerca di risposte. 

Ha considerato altri titoli?

C'erano altre idee, ma sono saltate fuori solo al termine del progetto. Ascoltavo costantemente i Beatles mentre scrivevo la sceneggiatura. Mi piace la loro capacità di trasformare la vita quotidiana in piccoli momenti di poesia, e questo mi ha dato una grande ispirazione. Canzoni come "Eleanor Rigby", "Penny Lane" o "A Day in the Life", che inizia con le parole: " Oh boy… Oh boy ". Questo sospiro profondo e sincero dei Beatles è diventato il mio titolo temporaneo, ed è rimasto il titolo fino alla fine. Si è anche imposto in modo più forte rispetto ai titoli tedeschi a cui ho pensato più tardi.

Sappiamo poco di Niko. Sembra un po' come se sia ciò che lo circonda a delineare il suo ritratto… 

Sì, diventa un personaggio più 'afferrabile' man mano che hanno luogo i suoi incontri. Le persone intorno a lui non hanno paura di esprimere le loro frustrazioni e di affrontarle.  Niko tende a vedere quello che non va, invece di capire che cosa dovrebbe fare… In uno dei miei libri preferiti, "Il giovane Holden" di J. D. Salinger, viene usata spesso la parola "phony", ovvero 'falso". Questa parola qualifica sia la mancanza di autenticità sia le persone che mentono a sé stesse. Nel dirigere Tom Schilling, gli dicevo sempre che Niko aveva la capacità di riconoscere le persone "phony". 

Come è andato il casting?

Tom Schilling è uno dei miei più vecchi amici, ma non avevo pensato a lui durante la fase di scrittura. A quell'epoca, circa quattro anni fa, stavo lavorando ad un ruolo di giovane uomo per un film. Io stavo cercando qualcuno più maturo, di circa trent'anni. Ma dopo che lesse la sceneggiatura, Tom mi assillò perché assegnassi a lui quella parte. Nel frattempo, dovevo trovare un produttore e un budget – e Tom è stato un grande supporto in quel periodo. Lo iniziai a conoscere, era quasi paterno nei miei confronti, tutt'altro che infantile, e così alla fine non rimpiango affatto la mia scelta. Il resto del cast è composto da attori del mio quartiere, spesso sconosciuti, e da celebrità tedesche che hanno acconsentito a venire e farsi riprendere per una giornata. 

Il racconto si basa sugli incontri fatti da Niko… 

All'inizio, quando scrivevo sceneggiature, pensavo per lo più alla trama. Man mano che ho acquistato esperienza, mi sono reso conto che è la cosa più noiosa che ci sia. Ciò che mi interessa veramente sono l'atmosfera, le emozioni. Questo è un vero problema per il cinema tedesco contemporaneo, che segue sempre più spesso modelli ispirati alla televisione. Guardare i film della Nouvelle Vague mi ha permesso di respirare, di vedere che era possibile concentrarsi su uno stato d'animo, su un modo di sentire il mondo.

Lei prende in giro il cinema tedesco, specialmente i film che parlano della Seconda Guerra Mondiale…

Sono state realizzate tante produzioni su questo argomento ma continuiamo a confrontarci con una vera crisi artistica. Per me, è più interessante guardare dove sono arrivate le nostre vite. Il passato è ancora uno spettro per questa giovane generazione, che deve sostenere questo peso enorme e al tempo stesso incarnare una nuova Germania. A me interessa il modo in cui questa memoria viene assimilata, in particolare nei film. C'è rispetto nei suoi confronti, ma anche un grande timore. 

Lei affronta in modo diretto questo argomento nella sequenza in cui un uomo in un bar parla a Niko della "Notte del vetro rotto"…

Questo aneddoto rispecchia un fatto che mi è veramente successo.  E quando è accaduto, per la prima volta in vita mia, ho incontrato una persona che aveva vissuto questi eventi. Fu come se questo lontano passato mi avesse raggiunto. Ma a differenza dei film sui nazisti, non cerco di spiegare o di giudicare. Riproduco invece qualcosa di autentico. Anche se non appartengono alla stessa generazione, l'anziano frequentatore del bar e Niko condividono la stessa solitudine. Ho davvero lottato per tenere questa scena, perché le persone attorno a me pensavano che avrebbe appesantito l'aspetto ironico del film. Ma OH BOY in realtà è una tragicommedia. L'umorismo può alleggerire una situazione completamente tragica, e viceversa. I filmmaker britannici che fanno commedie sulla classe lavoratrice sono gli unici che hanno il dono di saper mantenere questo equilibrio. 

Lei sembra anche fare dell'ironia sulla scena artistica del teatro underground di Berlino…

Gli abitanti di Berlino amano esprimersi – questo fa parte dello spirito della città. Tutti hanno qualcosa da dire, qualcosa da scrivere… E lo trovo affascinante. La generazione dei miei genitori ha trovato la propria realizzazione nell'avere un posto di lavoro e nel crearsi una famiglia. Hanno fatto tutto ciò che era immaginabile per offrire questa possibilità ai loro figli. Ma la sequenza alla quale Lei si riferisce, secondo me, è più ambigua di questo. Non volevo mostrare nessun tipo di rappresentazione in particolare messa in scena da una troupe di teatro. Il miglior amico di Niko non è molto sensibile a questo tipo di teatro, e ci ride su. Ma Niko capisce invece che sta succedendo qualcosa con la ragazza che balla sul palcoscenico. È importante riconoscergli questo dono di sapere distinguere fra le cose, di avere una visione più acuta di quello che lo circonda. 

È davvero così difficile trovare una tazza di caffè a buon prezzo, a Berlino?

No, niente affatto. Se Niko non riesce a trovarne una, è perché ritenevo che avesse bisogno di una motivazione, di una meta molto semplice da raggiungere. Questa ricerca della tazza di caffè rappresenta l'unica cosa di cui è certo, mentre sulle altre questioni in cui incappa nel resto del film sembra essere del tutto indeciso. Per quanto mi riguarda, la mia giornata inizia sempre con una tazza di caffè!

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