Rai per Venezia 76
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Venezia 2019: cosa ci ha lasciato la 76a edizione del Festival?


Appena tornati da Venezia, ci soffermiamo a fare alcune riflessioni sulla 76a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica e i protagonisti che hanno acceso il dibattito così come il red carpet.

La Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia è un evento cinematografico che si vive intensamente. Una parola scelta non a caso e di certo non per fare ricorso ad una facile melo-drammaticità. Partecipare al Festival di Venezia come giornalista vuol dire svegliarsi all'alba, sperare che gli orari non si sovrappongano (e si sovrapporranno!), cercare di riuscire a vedere il maggior numero possibile di film, rifletterci sopra, parlarne con chi il cinema lo fa. E tutto questo correndo da una parte all'altra del Lido, sostando ai presidi della polizia per motivi di sicurezza e mangiando ad orari altamente improbabili.

Le luci del red carpet fanno sicuramente parte del fascino di una kermesse come quella veneziana, giunta al suo 76° anno di attività. Un fatto che è stato sottolineato ancora di più quest'anno, quando sul tappeto rosso hanno sfilato quelli che, ad oggi, rappresentano il mito divistico spiegato su tanti manuali di storia del cinema. Brad Pitt e Johnny Depp hanno richiamato al Lido frotte di spettatori: alcuni hanno comprato i biglietti, cooperando all'aumento degli ingressi registrato dagli addetti ai lavori, altri invece si sono accampati fuori dal Palazzo del Cinema, sfidando caldo o nubifragi pur di essere in prima fila davanti non solo ai propri idoli, ma soprattutto a coloro che hanno dato un senso al termine fama nel corso degli ultimi trent'anni.

E la prima cosa che Venezia insegna, a guardarla con lo sguardo un po' più freddo rispetto a quello di uno spettatore medio, è che le persone che riescono ad arrivare in cima al monte fatato di Hollywood sono, presumibilmente, quelle che sono riuscite a rimanere più coi piedi per terra e che non hanno lasciato che la fama gli montasse la testa. Basta pensare a Brad Pitt, che ha regalato sorrisi, autografi e foto a chiunque fosse nelle vicinanze e ne facesse richiesta. Senza mai mostrarsi stanco o seccato – come aveva fatto Ethan Hawke qualche anno fa, dopo la conferenza stampa -, senza mai apparire più che felice di essere al Lido, coi suoi fan. O basti pensare a Johnny Depp, che chiedeva con gentilezza il permesso per fare qualsiasi cosa, come se temesse di essere d'intralcio ai lavori della mostra. Attore che non si è fatto fermare dalla pioggia torrenziale e che è stato più di venti minuti sul red carpet ad accontentare quante più persone possibili.

Sembra forse futile cominciare un articolo che mira a riflettere sul lascito di un evento tanto importante proprio sul reparto delle star. Ma quello che spesso noi addetti ai lavori tendiamo a dimenticare è che il cinema è un'arte viva, un animale che pulsa e che fa le capriole quando sa che c'è qualcuno che lo guarda. Sebbene ci piaccia nasconderci dietro gli André Bazin e i Truffaut che hanno dato linfa vitale tanto alla critica quanto alla storia, il cinema non esisterebbe senza qualcuno che decide di pagare un biglietto per vedere uno spettacolo, per accettare di credere a quello che gli viene mostrato e di lasciarsi emozionare da esso. Ecco perché è lecito (e forse giusto) parlare anche di questo: sottolineare la riconoscenza di chi, nel cinema, ci lavora. E vetrine come quella di Venezia permettono di notare tante cose. Permettono di notare chi è gentile solo sul red carpet, perché sa che ci sono le telecamere a seguirlo e chi invece lo è sempre, anche quando non c'è nessuno a testimoniarlo. Il Festival di Venezia è una vetrina che permette anche di fare paragone tra i grandi divi che hanno sempre tempo per coloro che li hanno portati al successo e i personaggi pubblici che invece pensano di aver già realizzato tutto. Un esempio lo è il rapper Fedez che, in occasione della presentazione del documentario su Chiara Ferragni nella sezione Sconfini di quest'anno, è letteralmente scappato da un gruppo piuttosto ristretto di bambine che avranno avuto all'incirca dieci o dodici anni, senza nemmeno prendersi il disturbo di fare un saluto.

Ma lasciato il lato più glamour e più superficiale del Festival, cos'è che questa nuova edizione ci ha lasciato? Cosa ha portato nel mondo del cinema? Naturalmente la prima cosa su cui ci si può fermare a riflettere è la vittoria del Leone d'Oro di Joker, il bellissimo film di Todd Philips con un Joaquin Phoenix che ha riscritto le regole dell'arte attoriale. È un cine-comic? Non lo è? La natura stessa di Joker sembra voler sfuggire ad ogni possibile catalogazione, proprio come il suo protagonista Arthur. Perché se è vero che il regista recupera dettagli di un mondo fittizio preciso – la famiglia Wayne, Gotham, l'estetica del Joker – è altresì vero che nella sua scelta di creare una origin story del tutto inventate sulla nascita e l'ascesa del joker, il regista sembrava avvicinarsi molto più al cinema d'autore e al lavoro soprattutto di Scorsese, a cui Arthur deve molto, soprattutto per il Travis di Taxi Driver e il plot di Re per una Notte. La pellicola di Philips – conosciuto al grande pubblico soprattutto per la commedia maschile e goliardica Una Notte da Leoni – è una creatura ibrida, che ha tanti respiri dentro sé. Una pellicola che da una parte sembra voler richiamare il lavoro cupo fatto già da Nolan nella Trilogia del Cavaliere Oscuro con Christian Bale prima che il Marvel Cinematic Universe prendesse il sopravvento, dall'altro Joker si presenta come un villain-stand-alone che sembra voler spingere il pubblico a credere che cine-comic non vuol dire necessariamente blockbuster e che si può creare un film nato dal mondo dei fumetti che non abbia e non segua le regole del cinema più mainstream, ma che si avvicini a toni più autoriali, senza che questo significhi dover rinunciare all'intrattenimento. E questo, di per sé, è già una piccola rivoluzione. Meno rivoluzionaria la scelta dei selezionatori di mettere il film in concorso: insomma, dopo averlo visto, si saranno pur resi conto di avere tra le mani una perla rara, di quelle che sono in grado di far respirare il cinema, di farlo ripartire, come una creatura simile alla fenice, capace di risorgere. Ma la vincita del Leone d'Oro segna comunque una tappa fondamentale: è come se in questo modo il Festival di Venezia – che fino a poco tempo fa era percepito egualmente elitario e snob come quello di Cannes – avesse aperto le porte al mondo che cambia, ai nuovi modi di raccontare il cinema. Che era un po' quello che era successo anche l'anno scorso, quando il Leone d'Oro era stato dato a Roma di Alfonso Cuaron, che aveva aperto le strade a Netflix nel circuito dei grandi festival, culminato poi con la presenza massiccia ai Premi Oscar. 

Ed è un peccato che per regolamento della Biennale, il Leone d'Oro a Joker abbia precluso la vittoria della Coppa Volpi per Joaquin Phoenix. Premio che invece è andato a Luca Marinelli per il deludente Martin Eden. Che è un po' quello che è successo quando The Wrestler vinse il Leone d'Oro e Mickey Rourke dovette "accontentarsi" di sentire il regista Darren Aronofsky ammettere che quel Leone era soprattutto suo. In quel caso a vincere la Coppa fu Silvio Orlando per Il papà di Giovanna.

Un italiano, insomma, che ritira un premio per le sue doti istrioniche, magari sospettando che, in un altro contesto, non sarebbe andata così. È importante questo? Be', se sei un attore come Luca Marinelli probabilmente no. Se sei bravo come Luca Marinelli, magari il dubbio non te lo fai neanche venire. E di sicuro Marinelli non è un attore che abbia bisogno di difese o di spiegazioni. Sebbene il ruolo in cui abbia dato il meglio di sé resti lo zingaro di Lo chiamavano Jeeg Robot – di cui il critico Francesco Alò continua a chiedere uno spin-off -, Luca Marinelli ha da subito dimostrato il suo talento: basta riguardarsi qualche frame di La solitudine dei numeri primi per comprenderlo.

Ed ecco un'altra cosa che Venezia ci ha insegnato: che a volte sarebbe meglio ragionare a fondo su quello che si dice. E di certo non ci stiamo rivolgendo alle parole pronunciate da Marinelli quando ha ritirato il premio: parole su chi muore in mare e su chi sta combattendo affinché non accada, difendendoci dalla perdita dell'umanità. Ci riferiamo piuttosto alle parole del Codacons, che ha fatto polemica sul discorso dell'attore, definendolo troppo politico. Ma da quando il cinema non è politico? Oltretutto si è dimostrato di non conoscere affatto il regolamento del festival, dato che come abbiamo scritto qualche riga più in su, un attore non può vincere la Coppa Volpi per un film che vince il Leone d'Oro.

E il discorso sul ragionare bene prima di dire qualcosa è senza dubbio valido anche per la grande polemica che c'è stata intorno al J'Accuse di Roman Polanski, quando Lucrecia Martel ha dichiarato alla conferenza stampa d'apertura che dopo aver fatto delle ricerche aveva preso la decisione di non partecipare alla cena di gala del film in concorso. Ora, è possibile che, come è stato ripetuto più e più volte, le sue parole siano state fraintese, ingigantite da una stampa sempre troppo interessata a fare scalpore che a raccontare la verità. Ma è oltremodo corretto affermare che, in un modo o nell'altro, il presidente di Giuria di questa 76a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia abbia preso posizione riguardo un film in concorso, minando così la sua posizione superpartes. Senza entrare nel merito della vicenda, il punto è questo: la presenza di Roman Polanski è stata annunciata a fine luglio. Se qualcuno non era d'accordo con la sua partecipazione, avrebbe potuto tirarsi indietro. Lucrecia Martel avrebbe potuto rinunciare alla sua presenza in giuria. Invece cosa è successo? È successo che J'Accuse è stato difeso a spada tratta, esaltato anche oltre la sua (innegabile) qualità. È successo che il film è dovuto comunque andare a premio e non solo per i suoi meriti (anche in questo caso, innegabili). Ma perché era impensabile non premiare uno dei film più amati dalla critica internazionale e uno, effettivamente, dei migliori. La sensazione, però, è che non si saprà mai se il film di Polanski avrebbe potuto concorrere per il Leone d'Oro con un altro presidente di giuria, né sappiamo se questo premio sia stato effettivo e ragionato, oppure frutto di una sorta di "contentino" per far felice tutti. Tutto questo a causa di quella dichiarazione iniziale di Lucrecia Martel.

Intendiamoci, il caso Roman Polanski non è un caso facile. Il regista, infatti, ha sulla testa una condanna per aver avuto rapporti con una minorenne. Condanna che non può e non deve essere né giustificata né in qualche modo spiegata, dal momento che Polanski è reo-confesso. Che qualcuno abbia da ridire sulla sua presenza a un festival, è più che giusto. Ma il problema è a monte: il problema di tutta questa polemica è stato il tempismo con cui è stato trattato. Insomma, una volta che il film è in concorso le strade da percorrere sono due: o ci si tira indietro perché non ci si sente in linea con una kermesse che va contro le proprie idee, oppure si accetta che le cose stanno così e si fa il compito che si è chiamati a svolgere. La polemica successiva, che senza dubbio è stata montata dalla stampa di tutto il mondo, è stata abbastanza inutile.

Perché, di base, non bisogna mai giudicare un film prima di averlo visto. Ed è quello che è successo, invece, per il documentario su Chiara Ferragni. Non appena il programma di Venezia è stato reso noto, non c'è stato argomento più chiacchierato che la presenza di un documentario nella sezione Sconfini dedicato ad una delle donne più influenti secondo Forbes. Che piaccia o no, Chiara Ferragni è riuscita a creare un impero con i social, sfruttando un cambiamento che era ancora in atto. Ma il suo successo su instagram – dove è divenuta una sorta di product placement vivente, come viene detto nel documentario – non piace a moltissime persone. Nonostante il grande seguito che ha, sono molte le persone (gli haters, diremmo oggi) che non capiscono il suo successo. E quel che è peggio, non vogliono farlo. Il documentario presentato a Venezia non aiuta a comprendere: il film è deludente proprio per il suo essere quanto un compito di propaganda e di quell'unposted del titolo non c'è assolutamente niente. Ma questo possiamo dirlo adesso, dopo averlo visto. Invece su Chiara Ferragni Unposted è scattato sin da subito una sorta di campagna denigratoria. E qual è stato il risultato? Che di questo documentario si è parlato così tanto che alla fine in sala c'erano persone che giuravano e gettavano veleno sull'intera operazione e poi erano in prima fila a seguire il film.

Oscar Wilde diceva che era importante che si parlasse di qualcosa, a prescindere dalla qualità della conversazione. Bene o male, purché se ne parli: e Chiara Ferragni ha fatto suo questo concetto. E se è vero che ci sono milioni di persone che la seguono, è anche vero che la pubblicità che le fanno gli haters è pubblicità e per di più gratuita. Quello che è certo è che Chiara Ferragni non è affatto la bionda sciocca e svampita che viene descritta. Inoltre, secondo gli addetti ai lavori, è stata anche la più educata e la più puntuale. Probabilmente chi di noi non è appassionato di moda, di imprese digital o che semplicemente appartiene ad un'altra fascia d'età per cui è incomprensibile come una persona possa mettere in mostra ogni cosa, resterà della sua opinione. Ma invitiamo i più malevoli a seguire il nostro esempio: non seguite la Ferragni, non curatevi di lei. Vivrete meglio, no?

Infine, un cenno a quello che Venezia ci ricorda da qualche anno a questa parte: che la diplomazia, l'educazione e la gentilezza sono da sempre le chiavi necessarie per vivere in questo mondo. Valori che sono incarnati alla perfezione di Alberto Barbera, che da metà luglio trova sempre il tempo di rispondere alle molte (moltissime!) domande su twitter di spettatori che chiedono la presenza di un attore piuttosto che di un altro. Un direttore artistico presente e preparato che, anche quando viene attaccato ferocemente, risponde con la placida diplomazia di chi non vuol cedere alle provocazioni. L'applauso più grande va a lui.

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