A Private War, la Recensione
A Private War, lo straordinario ritratto di Marie Colvin, la leggendaria corrispondente estera del Sunday Times che ha dedicato la sua vita alla ricerca della verità raccontando le storie individuali della gente che vive in bilico tra la vita e la morte nei paesi insanguinati dalla guerra che ha ucciso migliaia di migliaia di innocenti. La verità ad ogni costo, anche a costo della vita.
di Marica Miozzi / 21.11.2018 Voto: 9/10
"Mi sembra di fallire se non guardo in faccia con i miei occhi gli orrori della guerra e cerco sempre la verità, quella che tutti vogliono di offuscare. Certo, devi avere abbastanza fiducia nell'umanità per credere che a qualcuno interessi l'articolo che hai scritto. Perchè lo faccio? Forse perchè vorrei convincere gli altri a tenerci così come ci tengo io". Sono queste le parole, ciò di cui ha fatto il proprio credo e modus vivendi la protagonista di questo fantastico biopic, Marie Colvin, la leggendaria reporter di guerra che lavorò per il settimanale britannico The Sunday Times dal 1985 al 12 febbraio del 2012, giorno in cui la giornalista perse la vita tragicamente nella città assediata di Homs, pericolosissima zona situata in Siria proprio nel cuore del conflitto, dove la Colvin si era recata per realizzare l'ennesimo reportage, il più difficile della sua carriera, accompagnata dal fotografo freelance Paul Conroy, che aveva conosciuto per caso a Bagdad, mentre era sulle tracce di una fossa comune in Iraq. Lo scenario è apocalittico e sconvolgente: palazzi in fiamme e distrutti, artiglieria pesante in ogni dove, centinaia di civili senza colpa che giacciono morti sotto gli occhi dei familiari che li piangono disperati. Proprio mentre stava raccogliendo preziose testimonianze sulla guerra civile in atto durante l'ancora odierno regime dittatoriale senza scrupoli di Bashar al Assad, uno dei missili la centrerà, uccidendola.
A Private War è la prima vera opera cinematografica realizzata dal regista Matthew Heineman, che finora si è occupato di documentari per i quali è stato premiato due volte di seguito ottenendo l'ambito premio per la regia -il Documentary Award della Director Guild of America- con The Trade (2018) e City of Ghost (2018). Il regista ha voluto rendere omaggio al coraggio e alla caparbietà di una delle giornaliste più famose del nostro tempo, sempre in prima linea sul campo di battaglia e pronta a tutto pur di far luce sulla verità dei fatti, mostrando al mondo il lato umano della guerra. Marie Colvin negli ultimi sei anni della sua vita, portava una benda nera che le copriva l'occhio sinistro a causa delle schegge di un razzo che l'hanno colpita la durante i duri scontri tra le truppe cingalesi e le Tigri Tamil e che le causarono la perdita parziale della vista; ma, nonostante questo, nulla riuscì a farla desistere dallo scendere per le strade insanguinate della Siria, anzi, di quella benda nera ne fece il suo segno distintivo, "da pirata", come amava dire, autoironica, forte e brillante come era. Non ha mai avuto paura di morire Marie: "La paura viene dopo, mai prima, altrimenti ti precludi di raggiungere il tuo obiettivo", dichiarava impavida durante un'intervista. Il suo profondo desiderio di mostrare la sofferenza umana della guerra attraverso il racconto dei più deboli, degli innocenti superstiti dei territori bombardati, abbandonati a loro stessi, era più forte di qualsiasi altra cosa. Era una missione la sua: alzare la testa contro il potere, voleva che il mondo si preoccupasse tanto quanto lei di quelle atrocità indicibili, che da lontano non sono sufficientemente comprensibili. La sua passione era il suo lavoro, a cui era completamente dedita. Nel farlo, però, ha iniziato piano piano a rimanere profondamente colpita dalle barbarie a cui ha assistito nel corso del tempo, e ben presto tali orrori hanno avuto conseguenze dolorose sulla sua psiche, lasciandole traumi con cui la donna ha dovuto fare i conti, tanto da iniziare lentamente a perdere il controllo della sua vita. Avrebbe potuto scegliere una vita normale, Marie, ma probabilmente neppure sapeva come fare, o cosa farsene; la guerra, paradossalmente, era diventata per lei quasi una droga, un rifugio in cui sentirsi così a proprio agio da non poterne farne a meno.
Una guerra anche privata contro i suoi stessi demoni che le affolavano la mente, dunque, quella che Marie Colvin ha vissuto negli ultimi anni della sua vita e che Matthew Heineman ha saputo ripercorrere minuziosamente, dando vita ad un'opera assolutamente autentica e realistica.
Lo spettatore ha sensazione precisa sia visiva che emotiva di cosa potesse essere la guerra, ci si trova catapultato dentro e la vive attraverso il punto di vista di Marie. Senza mai cadere nella retorica o nella banalità, il filo narrativo del film non perde mai il ritmo. Si è rivelato fondamentale girare le scene nelle zone dei conflitti: la Giordania si è prestata perfettamente da sfondo a paesi come lo Sri Lanka, l'Iraq, la Libia, l'Afghanistan e la Siria con un risultato scenografico impressionante ed impeccabile; per riuscirci, il regista si è avvalso della collaborazione sapiente di uno dei maggiori direttori della fotografia viventi e tre volte Premio Oscar Robert Richardson.
Il ruolo di Marie Colvin è stato fortemente desiderato e poi ottenuto dalla strepitosa Rosamund Pike che ha fatto un enorme lavoro su se stessa per calarsi nel miglior modo possibile nel suo personaggio, modificando la sua voce, la sua andatura e postura per essere il più possibile credibile e somigliante alla Colvin. Stesso discorso vale per l'eclettico e capace Jamie Dornan, che ha fatto tesoro dei consigli del vero Paul Conroy, rimasto solo ferito durante quel maledetto agguato, e che con la sua presenza costante sul set ha fatto in modo che il tutto fosse il più vicino possibile alla realtà dei fatti per poter rendere il giusto tributo alla sua audace collega e amica di cui, a sei anni dalla sua scomparsa, sente ancora fortemente la mancanza.
Il film non vuole essere un'angiografia, bensì il ritratto di una donna estremamente complessa nella sua psicologia ed appassionata fino all'inverosimile del suo lavoro, che ha pagato con la sua vita il prezzo della verità. Non solo, A Private War è "una lettera d'amore al giornalismo" come ci tiene a sottolinare Heineman "che combatte le fake news ed è fatto di verità difficili", e di cui si fanno portavoce coraggiosissimi reporters di cui si parla sempre troppo poco.