Anni felici, la recensione
Anni felici di Daniele Luchetti è una nostalgica revisione degli album e dei filmini famigliari con l'obiettivo di rivivere un'epoca passata responsabile di ciò che ognuno di noi è e sarà.
di redazione / 13.10.2013 Voto: 5/10
"Indubbiamente, erano anni felici. Peccato che nessuno di noi se ne fosse accorto". E' questa l'indulgente frase finale pronunciata da Daniele Luchetti, divenuto, per l'occasione, voce narrante, nel suo ultimo lungometraggio Anni felici, il cui titolo originale sarebbe dovuto essere il più lirico ed evocativo Storia mitologica della mia famiglia. La vicenda è ambientata negli anni '70, fondamentali per la spinta propulsiva di carattere antropologico-culturale che li ha caratterizzati, ed è ripercorsa dallo sguardo fanciullesco di Dario Marchetti (in cui il regista romano ha trasfigurato il suo punto di vista), che vive quegli anni tra liti e riappacificazioni familiari, in un periodo che può essere definito come l'adolescenza italiana, tra dubbi, turbamenti e prime certezze. Fondamentale è stato, nell'infanzia di Daniele, il rapporto burrascoso tra i due genitori, che viene portato in scena in modo ironico e triste, con sferzate di cattiveria volte, però, non a ferire realmente ma solo a sfiorare. Il padre, interpretato magistralmente da un Kim Rossi Stuart in grado di trasmettere una vasta gamma di emozioni attraverso semplici modulazioni del tono vocale, è pittore e scultore sui generis e si dedica ad installazioni visive avenguardistiche più per moda dei tempi che per una vera e propria vocazione artistica, e la madre, interpretata da Micaela Ramazzotti, in costante bilico tra felicità e tristezza, spensieratezza e vuoto interiore, teme, a ragione, che il marito la tradisca con le modelle per le sue opere scultoree.
In questo contesto incerto si muove il giovane Daniele Luchetti, alla ricerca, così come il bel Paese, di una via di indirizzo da imboccare e della propria identità. Anni felici, presentato in anteprima mondiale al Toronto Film Festival, chiude l'ideale trilogia che era stata aperta nel 2007 da Mio fratello è figlio unico, trasposizione de "Il fasciocomunista" di Antonio Pennacchi, e che aveva avuto l'acme di consenso di critica e pubblico nel 2010, con La nostra vita che ha fruttato la Palma d'Oro alla Miglior Interpretazione Maschile ad Elio Germano. Questi tre episodi neorealisti, pur presentando vari tratti differenziati, sono caratterizzati da alcuni elementi peculiari comuni, che tornano sia a livello di messa in scena sia di sviluppo narrativo. Se ciò che salta all'occhio, nella costruzione formale delle sequenze, è il predominio della macchina da presa a mano che frammenta lo spazio filmico, contribuendo a potenziare la sensazione di spigolosità, di durezza e di immediatezza quasi documentaristica, e, per quanto riguarda la scrittura sceneggiaturiale, il fatto che la trilogia focalizzi la propria attenzione e quella degli spettatori su una difficile situazione familiare senza apparenti vie d'uscita felici, che viene sussunta alla rispettiva dimensione storica, è anche evidente che ogni singolo episodio presenta differenti modalità di sviluppo e di approfondimento tematico, che tuttavia conducono, più o meno, alla medesima conclusione. E' come se Luchetti abbia fatto scaturire da un punto comune le tre situazioni di partenza, che poi trovano tre diverse possibilità di sviluppo e si incanalano, infine, sulla "retta via" delle soluzioni finali che tornano, seguendo una sorta di struttura romboidale, a coincidere nello stesso punto, che rappresenta una tregua, una situazione non risolta ma semplicemente in stand-by.
In Mio fratello è figlio unico il fulcro della vicenda è costituito dal difficile rapporto familiare tra due giovani fratelli, uno fascista e l'altro comunista, inserito nel background storico, politico e sociale degli anni Sessanta-Settanta, tra rivolte operaie, confusione ideologica e anni di piombo. La contemporaneità, invece, fa da sfondo a La nostra vita, drammatica vicenda di un operaio edile romano che perde la moglie e che si ritrova a badare da solo ai suoi due figli, sprofondando in un vortice di problemi e dubbi esistenziali. Anni felici sposta la riflessione di Luchetti sul contesto familiare in una dimensione altra, che si colloca nell'ambito emotivo-personale e che trova oggettivazione nell'assunzione del punto di vista del se stesso bambino, il cui sguardo filtra le vicende sociali che, per tale motivo, arrivano allo spettatore quasi attutite, private dei reali clangori roboanti.
Anni felici è, quindi, un'opera semifinzionale, a metà tra fiction e costruzione oggettiva degli eventi, in cui la verità ed il ricordo rielaborato si avviluppano e la stessa scelta del regista di raccontare gli eventi con la propria voce narrante è una decisione che dimostra la commistione di questi elementi eterogenei. Purtroppo, però, la debolezza del film risiede proprio in questo, oltre che nella mediocrità di scrittura, argomento che merita un discorso a parte. Anni felici è un oggetto non identificato, un film che appare solo sfiorato dagli eventi storici del periodo e che scorre senza emozionare lo spettatore, in cui l'uso di inquadrature in soggettiva per potenziare l'identificazione spettatoriale con i personaggi sortisce l'effetto opposto, aumentando il divario tra schermo e fruitore e la voce narrante di Luchetti appare indecisa sul da farsi, indulgente e buonista, con il solo obiettivo di rassicurare lo spettatore su ciò che sarebbe successo in futuro. Il regista romano non è riuscito a trattare la vicenda con il giusto grado di distacco, in modo quasi disinteressato, nè penetrandola fino in fondo, trasportandoci al cuore pulsante ed emozionale di essa.
In Mio fratello è figlio unico si respirava l'atmosfera degli anni Settanta, si vivevano quasi in prima persona le ansie ed i tormenti dei personaggi finzionali, con la giusta dose di ironia e al contempo di distacco disincantato. Anni felici sembra aver costruito degli anni Settanta innocui, quasi paradisiaci, idealizzati all'eccesso e le atmosfere proprie di quegli anni sono descritte in modo forzato e banale perchè sature dei più tipici luoghi comuni che non stati evitati dalla scrittura seriale di Stefano Rulli e Sandro Petraglia. La delineazione dei personaggi, che finiscono per incarnare dei veri e propri tipi fissi (il personaggio dell'artista d'avanguardia interessato unicamente a portare avanti la sua idea di arte indipendentemente dal guadagno economico che ottiene e che non lo tange, il difficile rapporto con la madre severa che lo ha caricato di aspettative e ha orientato in negativo la sua esistenza, la figura della moglie alla ricerca di un'emancipazione che appare più fittizia che reale e che non riesce a lasciare il marito, nonostante sia consapevole dei suoi plurimi tradimenti), risente di un'eccessiva stereotipizzazione che li rinchiude in gabbie costrittive, in una fissità anti-evolutiva da cui faticano ad uscire, alla ricerca di una minima evoluzione che tarda ad arrivare perchè, paradossalmente, snaturerebbe i personaggi dal ruolo statico per cui sono stati costruiti.
Anni felici non riesce ad eguagliare la spensieratezza densa di oscuri presagi di Mio fratello è figlio unico nè la ruvidità drammatica de La nostra vita, affermandosi come una nostalgica revisione degli album e dei filmini famigliari con l'obiettivo di rivivere, in una sorta di revival, un'epoca passata sommamente responsabile di ciò che ognuno di noi è e sarà.