Big Eyes
Big Eyes

Recensione Big Eyes di Tim Burton


Svestendosi del suo stile oscuro e malinconico, ma rimanendo ben ancorato al suo modo di intendere il cinema, Tim Burton, con 'Big Eyes', dirige una pellicola dai colori accesi e incentrata su un'incredibile storia vera, tra una donna che vuol essere indipendente e un marito-orco che sogna di fare il pittore.
Voto: 8/10

Margaret (Amy Adams) è una giovane pittrice che decide di abbandonare il marito e trasferirsi, insieme alla figlia, a San Francisco, dove spera di cominciare una vita autonoma e indipendente dall'ombra del patriarcato. I quadri di Margaret sono pieni dei lineamenti di sua figlia Jeanie ma anche di occhi grandi come frittelle. Il suo talento viene ben presto notato da Walter Keane (Christoph Waltz), un paesaggista che riempie i suoi quadri dei profili sognanti di una Parigi sempre baciata dal sole. Tra i due ben presto nasce l'amore che conduce velocemente al matrimonio. Sebbene sia convinta di sapere chi è l'uomo che ha sposato, Margaret non ha idea che Walter finirà con il prendersi il merito di tutti i suoi lavori con orfani dagli occhi grandi, mettendo su un impero d'arte basato su una frode.

A due anni di distanza dal sublime Frankenweenie, che lo aveva riportato all'alba della sua cinematografia e della sua poetica, Tim Burton torna al cinema con un biopic, un'incredibile storia vera ambientata a cavallo tra gli anni '50 e gli anni '60. Il regista – che, all'inizio, doveva rivestire solo il ruolo di produttore – ha deciso di confezionare una pellicola che, ad un primo sguardo, appare decisamente classica e quasi priva del suo tocco personale e del suo stile riconoscibilissimo. Avvalendosi dell'aiuto degli sceneggiatori Scott Alexander Larry Karaszewski con i quali aveva già lavorato per l'unico altro biopic della sua produzione (Ed Wood), Tim Burton decide di raccontare la storia di una pittrice che conosce, della quale apprezza il lavoro e nella cui arte, forse, riconosce un'anima affine a quel bambino ostrica che ha attraversato tutta la sua poetica sin dall'inizio. Margaret, infatti, riempie le sue tele di bambini dagli occhi grandi, assetati di conoscenza e di meraviglia, che però appaiono sempre soli sullo sfondo, come macchie di colore in un mondo in bianco e nero. Una dicotomia tra meraviglia e normalità che rappresenta il punto fermo di tutta la produzione burtoniana, che si concentra soprattutto sull'esaltazione del diverso, della voce fuori dal coro. In questo senso Margaret rientra senza alcuno sforzo nella galleria dei personaggi tratteggiati dal regista: la donna, con le sue aspirazioni e il suo talento, sembra stonare in modo inquietante in un universo in cui a comandare sono leggi maschili e maschiliste, che non prevedono l'emancipazione femminile. Allo stesso tempo, però, sia Walter che Margaret sono due aspiranti artisti: proprio come Ed Wood, i due protagonisti di Big Eyes hanno ambizioni artistiche, senza però avere tutti i mezzi per dargli una voce. Walter, per mancanza di talento; Margaret per mancanza di quel non so che che fa vendere i quadri. In un certo senso la pellicola parla di questo: della commercializzazione dell'arte, della lotta tra artisti autodidatti e critici e galleristi arroccati su vecchie convinzioni e altrettanto adamitiche tradizioni ormai fuori dal tempo.

Come si diceva poco più sopra, ad un primo sguardo Big eyes non sembra affatto un film di Tim Burton. Sembra mancare quel senso di malinconia diffusa e quell'amore per le sfumature scure a cui la produzione del regista di Burbank ci ha abituato nel corso della carriera. Ma se non ci si accontenta di uno sguardo superficiale e distratto, è possibile notare come, in effetti, Big Eyes è assolutamente una pellicola che porta la firma del regista che lo ha diretto. Basti pensare alla scena iniziale, quando Margaret abbandona la sua casa e la sua vecchia vita: la ripresa della cittadina californiana richiama così da vicino il ritratto di Burbank che Tim Burton ha messo in ogni sua produzione (basti pensare alla cittadina di Edward mani di forbice) che bisognerebbe essere cieci per non notarlo. E questo è solo l'esempio più lampante: basterebbe poi concentrarsi sui colori pastello portati all'estremo, sui capelli biondissimi di Amy Adams, sulla curvatura kitch che colpisce alcune inquadrature e alcuni personaggi, senza dimenticare i quadri pieni di occhi giganti su cui la macchina da presa si sofferma in più di un'occasione. Tutto questo permette al regista di Dark Shadows di fare il proprio tipo di cinema, senza dover ricorrere ad un'estetica necessariamente dark. In questo modo il regista dimostra di essere in grado di trasmettere il suo messaggio senza dover per forza ricorrere ad uno stile che ormai gli viene attaccato addosso come una seconda pelle a volte un po' scomoda. Sotto il tono leggero e la struttura canonica della biografia, Tim Burton riesce comunque a nascondere gli stereotipi di una favola fuori dai canoni, in cui una giovane e ingenua principessa viene tenuta rinchiusa da un marito cattivo e costretta ad ingannare tutto il mondo.

I due attori protagonisti brillano sullo schermo per intensità e talento – anche se dispiace vedere Christoph Waltz imprigionato nel perenne personaggio negativo -, portando il film su un livello ancora più alto per quel che concerne la qualità del risultato finale. A questo si aggiunge il sempre ottimo lavoro svolto dalla costumista Coleen Atwood e le musiche, sempre perfette, di Danny Elfman, a cui si aggiunge la canzone Big Eyes interpretata da Lana Del Rey.

Valutazione di Erika Pomella: 8 su 10
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