Great Freedom, recensione del dramma carcerario austriaco
Franz Rogowski ('Freaks out') è protagonista di un film in cui si mostrano le persecuzioni a danno degli omosessuali nella Germania del secolo scorso, e come i periodi trascorsi in prigione possano cambiare nel profondo un uomo.
di Matilde Capozio / 24.01.2023 Voto: 7/10
Le tribolazioni, nell'arco di oltre un ventennio, di chi viene privato della propria libertà da un'ingiusta e crudele persecuzione, sono al centro di Great Freedom, film diretto da Sebastian Meise, premiato a Cannes 2021 (e in molti altri Festival) e scelto per rappresentare l'Austria agli Oscar tra i migliori film in lingua straniera, che debutta da noi in anteprima su MUBI.
Hans Hoffman (Franz Rogowski) è un uomo che, nella Germania del secondo dopoguerra, viene arrestato più volte a causa del Paragrafo 175, un articolo del codice penale tedesco che criminalizzava i rapporti omosessuali. Il film offre uno scorcio su alcuni momenti di detenzione di Hans, suddivisi in tre fasi temporali, che non ci vengono mostrate in ordine cronologico bensì si intrecciano di continuo, ricostruendo poco alla volta il percorso del protagonista: 1945, all'indomani del trasferimento in carcere direttamente da un campo di concentramento, 1957 e infine 1968, poco prima dell'abolizione del suddetto paragrafo.
Durante questi periodi di reclusione, Hans ritrova periodicamente un altro detenuto, Viktor, condannato per omicidio, con cui dall'iniziale ostilità si passerà a un'inattesa comprensione e complicità reciproca.
Il film non è ufficialmente basato nello specifico su una o più persone reali, ma ricostruisce le circostanze ben poco edificanti di un, seppur recente, passato.
Nell'alternarsi dei differenti periodi, visivamente contraddistinti da qualche alterazione resa dal trucco e dalle pettinature, osserviamo l'evoluzione, sia interiore che esteriore, del protagonista: inizialmente dimesso e taciturno, dallo sguardo intimorito e sospettoso, fino a diventare un uomo ormai avvezzo alle procedure della vita dietro le sbarre. Le esperienze affrontate vanno a marchiarsi sottopelle proprio come l'inchiostro di un tatuaggio, che imprime un'identità alla persona che lo porta impresso, e che dunque si può cercare anche di coprire, cancellare o sovrapporre per dare di se stessi una nuova definizione, ai propri occhi e a quelli altrui.
In una situazione in cui la prospettiva di potersi riunire, all'esterno, con le persone amate si fa lontana e sfuggente, si cercano affetto e compagnia come si può, e cambiano così anche i parametri secondo i quali si vivono i momenti d'intimità e il contatto umano, spesso ridotti a incontri fugaci e clandestini per cercare di afferrare e tenere stretta quella vita altrimenti preclusa.
Il film descrive la realtà carceraria mostrandone anche gli aspetti crudi ma non in modo sensazionalistico, con un impianto minimalista che ritrae con pochi tocchi regole e rituali quotidiani, senza rinunciare a qualche momento di struggente tenerezza.
In bilico tra rassegnazione e speranza, che lascia spazio anche a gesti di solidarietà e generosità, la trama mette inoltre in evidenza le conseguenze, a livello psicologico, di una lunga o ripetuta detenzione: una gabbia che diventa mentale oltre che fisica, in cui la presunta "grande libertà" finisce ormai per diventare q un'utopia quasi quanto un viaggio sulla luna, o perlomeno assumere sfumature diverse.
Great Freedom è un film asciutto e potente, che si affida largamente all'interpretazione di Franz Rogowski (che ricordiamo in Freaks out del nostro Gabriele Mainetti) e a una regia pulita ed efficace.