Recensione Pinocchio di Enzo D’Alò
Recensione di Pinocchio di Enzo D'Alò, pensato per un pubblico forse più adulto, che si concentra sul rapporto tra padre e figlio che diventa percorso di formazione per entrambi i personaggi.
di Matilde Capozio / 19.02.2013 Voto: 6/10
Pinocchio, il burattino creato da Carlo Collodi nel suo romanzo, datato 1881, ha avuto, negli anni, numerose trasposizioni sia cinematografiche che televisive; ultimo, in ordine di tempo, a cimentarsi in quest’impresa è l’italiano Enzo D’Alò, che ritorna alla regia di un lungometraggio di animazione a dieci anni da Opopomoz. Il progetto ha avuto una gestazione travagliata, con una sceneggiatura (scritta dal regista insieme a Umberto Marino) più volte riveduta e corretta, e l’inizio della lavorazione rimandato anche per distanziarsi dall’uscita del Pinocchio diretto da Roberto Benigni.
L’idea decisiva per Enzo D’Alò è stata infine quella di raccontare la storia rileggendola da un’altra angolazione, ovvero quella del rapporto tra padre e figlio, riflettendo sul complesso bagaglio di speranze, aspettative, talvolta disattese, nostalgia e fiducia, che questa relazione si porta dietro.
L’infanzia quindi non solo di Pinocchio, ma anche di suo padre, simboleggiata da un aquilone che volteggia nel cielo fino a ritrovare colui che lo aveva fabbricato, e che, ormai diventato l’anziano Geppetto, si ritrova proprio in quell’istante per le mani un ciocco di legno parlante; è così che il falegname decide di intagliarne un burattino, da crescere come un figlio, simbolo di quel passato perduto ma al tempo stesso di un futuro, di desideri e speranze. Pinocchio però, come è noto, si rivela molto più disobbediente del previsto, sfuggendo a ogni tentativo di educazione del padre, raccontando bugie che gli fanno crescere il naso e cacciandosi in una serie di ben note peripezie prima di imparare la lezione e venire ricompensato con la trasformazione in un bambino vero.
Enzo D’Alò nel creare le ambientazioni e i personaggi si affida alle illustrazioni dell’artista Lorenzo Mattotti, che mescola un realismo fatto di geometrie a suggestioni pittoriche che fanno riferimento alla tradizione italiana, ad artisti come Giotto, il Beato Angelico, i paesaggisti dell’Ottocento fino alla pittura metafisica come quella di De Chirico, con tinte sature come nella pop art.
Per le musiche il regista si è avvalso invece della collaborazione di Lucio Dalla (ultimo lavoro dell’artista bolognese prima della sua morte improvvisa lo scorso marzo); la colonna sonora spazia tra suoni classici e moderni, contaminando citazioni dalla Cenerentola di Rossini con partiture più moderne che mescolano diversi generi musicali.
Nel cast di voci spiccano Gabriele e Mino Caprio nei ruoli di Pinocchio e Geppetto, mentre volti noti del grande e del piccolo schermo ricoprono alcune parti minori, come Paolo Ruffini (Lucignolo), Rocco Papaleo (Mangiafuoco), Pino Quartullo (uno dei carabinieri) e lo stesso Lucio Dalla che dà voce al Pescatore Verde.
Questa rilettura della celeberrima favola si discosta da quella che è probabilmente la versione più nota, il Pinocchio made in Disney del 1940; mira forse ad un pubblico più adulto nello stile e nei numerosi passaggi onirici, al tempo stesso asciugando la storia dei risvolti più cupi e drammatici, per concentrarsi, come detto, sul rapporto tra padre e figlio che diventa un percorso di formazione per entrambi i personaggi; nonostante la presenza nella colonna sonora di alcuni brani originali, il film non diventa un musical come nella tradizione disneyana, ma lascia più spesso parlare le immagini, privilegiando talvolta la raffigurazione di mondi fantastici rispetto alla narrazione.