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Recensione The sessions – Gli incontri

Recensione del film The sessions - Gli incontri di Ben Lewin, ispirato alla storia vera del poeta e giornalista Mark O'Brien. Opera coraggiosa che raccoglie la sfida di conciliare argomenti apparentemente tabù sul grande schermo come sessualità e disabilità.

Dopo i successi mietuti in patria, dove è stato presentato al Sundance Film Festival vincendo il Premio del pubblico e il Premio speciale della giuria per il cast, arriva anche nelle nostre sale The sessions – Gli incontri.

Il film è ispirato alla storia vera del poeta e giornalista Mark O’Brien, già protagonista nel 1996 del documentario Breathing Lessons e autore di un’autobiografia, in cui raccontava la sua vita decisamente particolare: fin da bambino, Mark era infatti stato costretto, a causa della poliomielite, a trascorrere gran parte della sua vita dentro un polmone d’acciaio che gli consentisse di respirare, e dal quale poteva uscire solo per poche ore al giorno; la sua mobilità era inoltre estremamente limitata, e gli consentiva di muovere solo la testa, toccando gli oggetti tramite un bastoncino da tenere in bocca. I suoi tentativi di instaurare una relazione sentimentale con una donna si sono rivelati fallimentari, finché a Mark viene commissionato un articolo sulla sessualità dei disabili; spinto dalle ricerche svolte, Mark decide, all’età di 38 anni, di voler perdere la verginità prima che sia troppo tardi: decide così di rivolgersi a una terapeuta, che gli raccomanda una “partner surrogata”, ovvero una persona che, nel corso di un numero limitato di sedute e attraverso una serie di esercizi, possa educare il suo corpo e iniziarlo a un’attività sessuale. È così che Mark conosce Cheryl Cohen Greene, la donna che lo aiuterà a perdere la verginità e con cui si stabilirà un rapporto speciale.

È stato proprio l’articolo che Mark ha scritto per raccontare la sua esperienza, dal titolo On seeing a sex surrogate, ad attrarre l’interesse del regista Ben Lewin, anche lui affetto dalla poliomielite da bambino, autore anche della sceneggiatura del film.

Opera coraggiosa che raccoglie la sfida di conciliare argomenti apparentemente tabù sul grande schermo come la sessualità e la disabilità, The sessions trova un suo delicato equilibrio fra la sensibilità e il garbo necessari a raccontare una grave condizione come quella di Mark, e la leggerezza ironica che evita cadute nel facile vittimismo cercando, nonostante tutto, quanto di più vicino possa esserci a un happy ending.

La storia cerca poi una propria universalità sviluppandosi su vari livelli: non solo i comprensibili disagi del protagonista riguardo alla propria condizione fisica, ma anche l’umano imbarazzo di chiunque venga per la prima volta a contatto con un corpo estraneo e sconosciuto, i dubbi di un cattolico sulla moralità e la rettitudine delle proprie azioni, la differenza e la contiguità tra amore e sesso, il pudore o la libertà legati alla nudità fisica.

Catturando alcuni degli aspetti fondamentali e complementari tra loro del carattere di Mark, come la sua vena poetica e il suo senso dell’umorismo, The sessions diventa così, più che una completa biografia, una pellicola sentimentale sul bisogno dell’essere umano di trovare e sperimentare l’amore in tutti i suoi aspetti; rimane centrale comunque per la trama il rapporto tra Mark e Cheryl, pur con qualche forzatura, ad esempio nella descrizione in parallelo della gelosia del marito di lei, a rafforzare l’eccezionalità del sentimento venutosi a creare tra la terapista e il suo cliente.

Fondamentali in un progetto di questo tipo sono stati gli attori, con una perfetta coppia di protagonisti: il re del cinema indie John Hawkes nel ruolo di Mark; costretto alla quasi totale immobilità, la sua performance si gioca completamente sulla mimica facciale, in particolare gli sguardi, riuscendo a infondere profonda umanità e simpatia al personaggio; Helen Hunt, candidata tra l’altro ai prossimi Oscar, dona alla sua Cheryl ironia e sensibilità al tempo stesso, non risparmiandosi nelle numerose scene di nudo integrale che affronta con spontaneità. Perfetti anche i ruoli minori, come il prete del grande William H. Macy, confidente privilegiato di Mark, uomo di fede ma contemporaneamente aperto alla comprensione verso le richieste ed esigenze di qualcuno che cerca nella sua fede anche il permesso di perseguire ciò che per sé è il bene più grande; in fondo, a ben sintetizzare lo spirito del film è questa frase, tratta dall’articolo di O’Brien:

“Ho paura di ricevere solo rifiuti, ma temo anche di essere accettato e amato. Perché se questo dovesse mai accadere, mi maledirò per tutto il tempo e tutta la vita che ho sprecato.”

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