Rising Phoenix: la storia delle Paralimpiadi
Rising Phoenix: la storia delle Paralimpiadi

Rising Phoenix: la storia delle Paralimpiadi, recensione del documentario in arrivo su Netflix


Arriverà il 26 Agosto su Netflix 'Rising Phoenix: la storia delle Paralimpiadi', il documentario che racconta la storia di una delle istituzioni sportive più importanti, riscrivendo il concetto di supereroe
Voto: 8/10

Debutterà il prossimo 26 agosto su Netflix Rising Phoenix: la storia delle Paralimpiadi, il documentario sportivo firmato da Ian Bonhôte and Peter Ettedgui che punta a raccontare non solo la nascita delle Paralimpiadi, come è facilmente intuibile dal titolo, ma anche il modo in cui l'istituzione di questo evento abbia modificato la vita di persone che hanno dovuto imparare a vivere di nuovo, a camminare di nuovo. E che sono riusciti anche a insegnare qualcosa al mondo: che non è mai tempo di rinunciare ai propri sogni.

Il documentario si apre con la testimonianza della "nostra" Bebe Vio, e nell'ora e quaranta circa di visione sullo schermo si alternano storie incredibili di persone che non si sono arrese, che hanno avuto tanto la forza quanto il coraggio di reinventarsi oppure di adattarsi al mondo, consapevoli che non sarebbe stato possibile ottenere il contrario.

Nell'immaginario collettivo quando pensiamo agli eroi e, soprattutto, ai supereroi, siamo abituati a pensare a personaggi che in qualche modo rispondono a determinati canoni di bellezza, con un fisico scolpito in un'immaginaria perfezione, senza alcun difetto a disturbare il quadro. Personaggi come Capitan America, Wonder Woman o Thor, tanto per citarne alcuni, sono eroi dal cuore buono, ma dall'aspetto che di certo non stonerebbe sulla copertina di una rivista di moda.

Rising Phoenix: la storia delle Paralimpiadi invece prende il via proprio da questa riflessione, sottolineando che i veri supereroi non sono coloro che rispondono a una certa domanda di perfezione fisica. I supereroi sono coloro che non si lasciano sconfiggere dai propri "limiti", dai tiri mancini del destino. Sono quelli che hanno smesso di chiedersi perché a me e hanno accettato di ricominciare la salita per arrivare alla stessa idea di paradiso. È sempre Bebe Vio che lo racconta, che spiega come il suo allenatore di quando era bambina le raccontasse che il paradiso esisteva e che si chiamava Olimpiadi. La vita poi si è messa di mezzo ma quel paradiso non ha smesso di esistere, ha semplicemente cambiato nome, diventando le paralimpiadi.

Non è un caso, dunque, se nel titolo di questo documentario un ruolo importante lo ha la fenice, leggendaria figura che è in grado di rinascere dalle proprie ceneri. Una simbologia che non avrebbe potuto essere più azzeccata: perché spesso è dalle ceneri di una vita conosciuta e amata che gli atleti risorgono e imparano di nuovo l'importanza di avere un obiettivo e di credere nei propri sogni, anche quando questi nascono dagli incubi. Come nel caso dell'atleta francese Jean-Baptiste Alaize. Originario del Burundi, l'atleta visse gli orrori della Guerra Civile quando era molto piccolo. Venne colpito più volte da un machete quando aveva solo tre anni e stava cercando di scappare insieme a sua madre. I colpi non solo portarono all'amputazione delle gambe, ma lo costrinsero anche ad assistere all'omicidio di sua madre.

Un tormento troppo grande per un bambino così piccolo: eppure, dopo essere stato adottato in Francia, Alaize ha preso quell'orrore, quelle immagini terribili che gli danzavano dietro le palpebre e ha deciso di non lasciarsi sconfiggere di nuovo e ha cominciato a correre per liberarsi la mente, per avere un obiettivo. Per essere una leggenda e, appunto, un supereroe.

A ben guardare è proprio questo la dote principale del documentario Rising Phoenix: la storia delle Paralimpiadi: la scelta di raccontare la storia delle paralimpiadi non (o comunque non solo) attraverso racconti storici pieni di dettagli ma privi di anima, ma di far sì che questa importante competizione sportiva prendesse forma negli occhi degli spettatori attraverso i racconti dei suoi protagonisti, di coloro che hanno continuato ad allenarsi e a migliorarsi nella speranza di sentire il peso di una medaglia intorno al collo.

Per quanto potrebbe sembrare quasi una contraddizione, questo documentario funziona perché l'analisi razionale e lucida dell'argomento viene in qualche modo messa da parte, a favore di un'empatia che annulla la distanza tra chi guarda e chi racconta la propria vita. E questo viene fatto senza dover ricorrere ai fastidiosi ricatti emotivi, senza far leva su un sentimento di compassione che potrebbe quasi stonare, in realtà, con il ritratto di queste donne e di questi uomini che hanno dimostrato che, a volte, l'impossibile è solo un possibile che si deve ancora realizzare.

Valutazione di Erika Pomella: 8 su 10
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