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Take Five, la recensione

Take Five di Guido Lombardi è uno spaghetti gangster che porta avanti quel nuovo cinema napoletano affermatosi dopo Gomorra, la storia di una rapina andata male.

Chi scrive tira un sospiro di sollievo. Dopo L'ultima ruota del carro, I corpi estranei, Il venditore di medicine e La santa finalmente un prodotto italiano degno di nota, scevro dalla terribile mediocrità che fino ad ora aveva caratterizzato il nostro cinema al Festival del Film di Roma. Seconda pelicola italiana in concorso, Take five fa parte di quel nuovo cinema napoletano affermatosi dopo Gomorra, un filone quest'anno ampiamente presente alla manifestazione se si pensa a Song'e Napule dei Manetti Bros. e L'amministratore di Vincenzo Marra.

Terza opera di Guido Lombardi, a parte il documentario collettivo Napoli 24, Take five nasce grazie al successo del precedente Là bas – Educazione criminale e da un'idea dello stesso regista insieme a Gaetano di Vaio, qui anche nelle vesti di attore e produttore. Il titolo deriva da un classico del jazz registrato dal Dave Brubeck Quartet nel 1959 ispirato a sua volta ad un'espressione tipica di quell'ambiente musicale "take five minutes" e cioè "prendiamoci 5 minuti" di pausa dalle prove o da qualsiasi altra cosa. E 5 sono anche i componenti della banda criminale protagonista della storia modellata per alcuni versi sui suoi stessi interpreti (i cui nomi restano invariati) alcuni dei quali con reali precedenti penali alle spalle: O' Sciomèn (Peppe Lanzetta), Sasà (il Salvatore Striano di Cesare deve morire), Ruocco (Salvatore Ruocco), Carmine (Carmine Paternoster) e Gaetano (Gaetano di Vaio).

Da I soliti ignoti a Le iene passando per The big kahuna, Take five è un mix citazionistico di film di genere, uno spaghetti gangster che fra commedia e dramma si serve della trama superficiale della rapina per narrare le storie personali di 5 solitudini scandite da un sapiente utilizzo delle musiche che alternano tonalità classiche, elettroniche, pop a palesi omaggi piazzati ad hoc a Ennio Morricone. Se la sceneggiatura ha il merito di non scivolare nello stereotipo meno originale è la regia troppo legata forse ai riferimenti del genere e poco personale ma, sia chiaro, pur sempre talentuosa. Lombardi riesce nel difficile compito di tenere insieme il passato e il presente dell'archetipo napoletano offrendo allo spettatore uno spaccato contemporaneo in cui gli elementi caratterizzanti non sono solo pizza mandolino e camorra ma anche le ossessione, gli scheletri nell'armadio e le problematiche di una società, cinematograficamente parlando, troppe volte idealizzata in negativo. Peccato solo che ancora non si sappia la data d'uscita nelle sale.

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