A Chiara (2021)

A Chiara
Locandina A Chiara
A Chiara è un film del 2021 prodotto in Italia, di genere Drammatico diretto da Jonas Carpignano. Il cast include Swamy Rotolo, Claudio Rotolo, Grecia Rotolo, Carmela Fumo, Giorgia Rotolo, Antonio Rotolo, Vincenzo Rotolo, Antonina Fumo, Giusi D'uscio, Patrizia Amato, Concetta Grillo, Koudous Seihon. In Italia, esce al cinema giovedì 7 Ottobre 2021 distribuito da Lucky Red.

La famiglia Guerrasio si riunisce per celebrare i 18 anni della figlia maggiore di Claudio e Carmela. È un’occasione felice e la famiglia è molto unita, nonostante una sana rivalità tra la festeggiata e sua sorella Chiara di 15 anni sulla pista da ballo. Il giorno seguente, quando il padre parte improvvisamente, Chiara inizia a indagare sui motivi che hanno spinto Claudio a lasciare Gioia Tauro. Più si avvicinerà alla verità, più sarà costretta a riflettere su che tipo di futuro vuole per se stessa.

Info Tecniche e Distribuzione

Uscita al Cinema in Italia: giovedì 7 Ottobre 2021
Uscita in Italia: 7 Ottobre 2021 al Cinema
Genere: Drammatico
Nazione: Italia - 2021
Durata: N.d.
Formato: Colore
Produzione: Stayblack Productions (presenta), Rai Cinema (presenta), Haut et Court (presenta), Arte France Cinéma (presenta), MK2 Films (in associazione con), MIBACT (in associazione con), Arte France (con la partecipazione di), Aide aux Cinémas du Monde - Centre National du Cinéma et de l'Image animée - Institut Français (con il supporto di), IBC Movie (con il supporto di), Film i Väst (co-produzione), Snowglobe (co-produzione)
Distribuzione: Lucky Red

Cast e personaggi

Regia: Jonas Carpignano
Sceneggiatura: Jonas Carpignano
Musiche: Dan Romer, Benh Zeitlin
Fotografia: Tim Curtin
Scenografia: Marco Ascanio
Montaggio: Affonso Gonçalves
Costumi: Nicoletta Taranta

Cast Artistico e Ruoli:



Produttori:
Jon Coplon (Produttore), Paolo Carpignano (Produttore), Ryan Zacarias (Produttore), Jonas Carpignano (Produttore), Julie Billy (Coproduttore), Carole Scotta (Coproduttore), Anthony Muir (Coproduttore), Katrin Pors (Coproduttore), Eva Jakobsen (Coproduttore), Mikkel Jersin (Coproduttore), Alessio Lazzareschi (Produttore esecutivo)


Supervisore alle musiche: Joe Rudge | Suono: Giuseppe Tripodi.

Immagini

[Schermo Intero]

INTERVISTA AL REGISTA JONAS CARPIGNANO

Considera «A Chiara» come il terzo capitolo di un trittico iniziato con«Mediterranea» (2015) e proseguito con «A Ciambra» (2017)?
Certo. Sono arrivato a Gioia Tauro nel 2010. Due migranti africani erano appena stati aggrediti e quell’episodio ha segnato l’inizio di violenti scontri con gli abitanti della città, scontri che ho filmato in A Chjàna, il cortometraggio che ho realizzato prima di «Mediterranea».
Nel frattempo, mi sono sistemato in città ed è lì che ho incontrato Pio e la comunità rom che ho filmato, più tardi, in «A Ciambra». All’inizio non avevo affatto in mente l’idea di fare un trittico, volevo solo filmare gli scontri razziali. Ma ben presto ho capito che volevo realizzare tre film su tre aspetti di questa città. Il primo era la comunità africana, il secondo, questa comunità rom un tempo nomade, ma divenuta completamente sedentaria e insediata a Gioia Tauro. Infine, la «Malavita», le persone coinvolte nell’economia sotterranea creata dalla mafia. Sapevo che avrei fatto questi tre film senza sapere esattamente quale forma avrebbero preso, ma ricordo di aver terminato il primo trattamento di «A Chiara» tre settimane prima di iniziare le riprese di «A Ciambra», nel 2016.

Nei tre film, lei mostra Gioia Tauro come un laboratorio della globalizzazione.
Penso che l’unico modo di raggiungere l’universale sia di essere precisi, intimi e locali.
Questa città possiede qualcosa di molto particolare. C’è questa economia sotterranea, c’è una grande povertà ignorata dallo Stato e c’è l’arrivo in massa dei migranti. Prima del 2012, nessuno o quasi ne parlava. E io vivevo con Koudous Seihon, una persona che aveva compiuto quel viaggio. La sua realtà, la sua esperienza e quella dei suoi amici sono diventati la mia realtà. Con «A Ciambra» e
«A Chiara», il processo è stato identico.

In «A Chiara», rivediamo i personaggi dei suoi precedenti lungometraggi.
Non ho mai voluto fare un unico grande film che raccogliesse i tre aspetti della vita di Gioia Tauro, i migranti, i rom e la mafia. Al contrario avevo voglia di essere il più preciso possibile, di parlare di individui e non di argomenti generici. E ovviamente, era scontato che i personaggi dei miei primi film, Ayiva di «Mediterranea», Pio e sua cugina Patatina di «A Ciambra», avrebbero fatto un’apparizione in questo nuovo film.

Come ha trovato Swamy Rotolo, che interpreta Chiara?
Ho avuto molta fortuna. Nel 2015 mentre preparavo «A Ciambra» abbiamo fatto un piccolo casting perché c’era una scena, alla scuola, che necessitava di alcuni figuranti. Swamy si è presentata con sua zia. All’epoca aveva nove, dieci anni. Avevo appena terminato la sceneggiatura di «A Chiara». La seconda volta che l’ho vista ho capito che era Chiara.
Si dà il caso che io conosca molto bene sua zia, i suoi cugini, la sua famiglia. Durante tutti questi anni, l’ho vista crescere e non ho mai cambiato parere. Gioia Tauro è una città piccola e l’ho incontrata spesso, sul lungomare, che mangiava gelati con le amiche o una pizza con suo padre. Ho imparato a conoscerla meglio e ho riscritto la sceneggiatura pensando a lei nei panni della protagonista. Tutti i personaggi del film sono della sua famiglia.

Come ha scritto la sceneggiatura? E può descriverci il suo modo di lavorare sul set?
Tutti gli elementi che riguardano la famiglia sono reali, ma li ho inclusi in una struttura fittizia. Per questo non è stato difficile farli recitare: sono scene che hanno già vissuto. Per esempio, Swamy non ha mai avuto un confronto con il padre per parlargli delle sue attività mafiose, come nel film, ma ha già avuto dei faccia a faccia con suo padre su altri argomenti, quindi non è stato difficile per lei ispirarsi a quei momenti.

Ha fatto leggere loro la sceneggiatura prima delle riprese o ha proceduto come nei suoi due film precedenti?
Gli attori non hanno mai letto la sceneggiatura. Ovviamente Claudio e Antonio avevano un’idea della struttura e del soggetto del film. Ma nessuno conosceva la storia in dettaglio. Claudio sapeva per esempio che c’era un bunker sotto la villa. Ma non ne avevamo mai parlato con Chiara. Durante le riprese, abbiamo continuato a ripeterle: «Guarda quel muro, guardalo bene, nasconde qualcosa che va trovato». E alla fine ha trovato il bunker da sola. Il mio rapporto con gli attori è sempre intenso. Non abbiamo mai smesso di frequentarci fuori dal set, quando le riprese sono state interrotte a causa dell’epidemia. E ho parlato loro del film ininterrottamente.

Lavora sempre con la stessa troupe tecnica?
Il 90 % della mia troupe ha lavorato su «Mediterranea» e «A Ciambra». Questa volta le riprese sono state particolarmente intense a causa delle norme anti-covid. Siamo passati da una troupe di 30 persone a 9.

Come ha lavorato al suono e alle musiche del film? A volte le voci svaniscono dietro alla musica, come a volerci far condividere i pensieri e le emozioni di Chiara.
Esattamente. La musica pop che si sente nel film corrisponde esattamente a quello che ascoltano Swamy e le sue amiche. Peraltro, con Benh Zeitlin (*1) e Dan Romer, che hanno composto la colonna sonora originale del film, non volevamo delle musiche che aggiungessero patos o manipolassero lo spettatore. Per me la musica deve essere giusta e riflettere le emozioni di Chiara.

Il film è molto realista, ma ha anche una dimensione poetica. Per esempio, il bunker dove penetra Chiara è come una eco della tana sotterranea dove si nasconde suo padre.
Esatto. È per questo che non faccio documentari. Per me il realismo non è altro che un punto di partenza. Da cui deriva l’idea ricorrente del sonno del film, da cui deriva il bunker. Il padre avrebbe potuto essere ovunque, ma che sia sottoterra e nel cuore stesso della casa di famiglia, aggiunge una dimensione ulteriore.

Nel suo film, i crimini della mafia, la sua violenza, restano sempre fuori campo.
Ho vissuto dieci anni a Gioia Tauro. Qualunque motore di ricerca associa questa città alla mafia. Non appena pronuncio il suo nome, mi si parla di mafia. Come se ci fossero scontri a fuoco per la strada tutti i giorni. Niente di tutto questo accade mai. La violenza intensa associata all’idea di mafia, io a Gioia Tauro non l’ho mai vista.
Per me «A Chiara» è molto più un film sulla famiglia di quanto non lo sia sulla mafia. Non c’è dubbio che per numerosi aspetti la cultura mafiosa infiltri la vita quotidiana. Ma non è dominante, come pensa la maggior parte della gente. Quando vedo film sulla mafia con uomini che se ne vanno in giro con auto sportive e una pistola nella tasca posteriore della giacca, vedo uno stereotipo totale.

Può dirci qualcosa di più sulla legge di cui si discute nel film?
Stavo lavorando a «Mediterranea» quando ho letto per la prima volta un lungo articolo su questa legge. La ‘Ndrangheta, la mafia calabrese, è considerata una delle più pericolose perché contrariamente alla mafia siciliana, alla Camorra napoletana o alle mafie americane, non si basa sui legami di sangue, sulla famiglia in senso stretto. È impossibile entrare in un clan se non si hanno legami di sangue con qualcuno dei suoi membri. A causa di questo, nella Ndrangheta non ci sono mai stati pentiti perché nessuno si ribella contro la propria famiglia.
Per spezzare questo circolo, lo Stato e i servizi sociali calabresi hanno deciso di strappare i minori alle proprie famiglie fino ai 18 anni di età. Idealmente è per dare loro una chance. Ma questa legge mi ha sempre lasciato molto scettico. In teoria funziona, ma sul piano emotivo è una cosa spaventosa. Vivendo a Gioia Tauro, ho visto gli effetti di questa legge su una bambina di sette anni il cui padre era stato arrestato. Non dimenticherò mai il suo volto nel momento in cui ha capito che non avrebbe più rivisto suo padre per moltissimo tempo. In quel momento mi sono reso conto che il modo migliore per raccontare i miei dubbi, il mio scetticismo, era di passare attraverso lo sguardo di una ragazzina.
La mafia ha una struttura molto patriarcale: i padri trasmettono il potere ai propri figli oppure ai propri nipoti e così via. Fare il film dal punto di vista di una ragazza mi avrebbe permesso di sfuggire ai cliché abituali e di raccontare la storia dal punto di vista di una famiglia, non di una famiglia mafiosa, ma di una famiglia.

Possiamo definire «A Chiara» come un film sul coraggio necessario per affrontare la verità?
È un film sulla famiglia, sui rapporti padre-figlia, che racconta anche come le persone imparano a trovare la propria bussola morale, tra il bene e il male, e a tracciarsi un cammino per conquistare la propria libertà. Se dovessi trovare un filo rosso che unisce i miei tre film sarebbe questo.


Intervista raccolta da Elisabeth Lequeret, dal pressbook del film

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