Locandina Vulnerabili

Vulnerabili (2017)

Espèces menacées
Locandina Vulnerabili
Vulnerabili (Espèces menacées) è un film del 2017 prodotto in Francia e Belgio, di genere Drammatico diretto da Gilles Bourdos. Il film dura circa 105 minuti. Il cast include Alice Isaaz, Vincent Rottiers, Grégory Gadebois, Suzanne Clément, Eric Elmosnino, Alice de Lencquesaing, Carlo Brandt, Agathe Dronne, Damien Chapelle, Brigitte Catillon, Pauline Etienne, Frédéric Pierrot. In Italia, esce al cinema giovedì 12 Marzo 2020 distribuito da Movies Inspired.

Tre storie intime si intrecciano per caso in un racconto originale sui rapporti tra genitori e figli. Josephine e Tomasz, giovani sposini, sono apparentemente molto felici. Melanie è una giovane studentessa rimasta incinta e non sa come affrontare la questione col padre. La madre di Anthony viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico dopo esser stata abbandonata dal marito. 

Info Tecniche e Distribuzione

Uscita al Cinema in Italia: giovedì 12 Marzo 2020
Uscita in Italia: 12/03/2020
Genere: Drammatico
Nazione: Francia, Belgio - 2017
Durata: 105 minuti
Formato: Colore
Distribuzione: Movies Inspired

Cast e personaggi

Regia: Gilles Bourdos
Sceneggiatura: Michel Spinosa, Gilles Bourdos
Fotografia: Mark Lee Ping-Bing
Scenografia: Guillaume Deviercy
Costumi: Virginie Montel

Cast Artistico e Ruoli:
foto Alice Isaaz

Alice Isaaz

Joséphine Kaufman
foto Grégory Gadebois

Grégory Gadebois

Joseph Kaufman
foto Suzanne Clément

Suzanne Clément

Edith Kaufman
foto Eric Elmosnino

Eric Elmosnino

Vincent Lamblin
foto Alice de Lencquesaing

Alice de Lencquesaing

Mélanie Lamblin
foto Carlo Brandt

Carlo Brandt

Yann Petersen
foto Agathe Dronne

Agathe Dronne

Marie Lamblin
foto Damien Chapelle

Damien Chapelle

Anthony Gardet
foto Brigitte Catillon

Brigitte Catillon

Nicole Gardet
foto Frédéric Pierrot

Frédéric Pierrot

Laurent Gardet



Produttori:
Kristina Larse (Produttore), Jean-Pierre (Coproduttore), Luc Dardenne (Coproduttore), Delphine Tomson (Coproduttore)

Immagini

[Schermo Intero]

INTERVISTA A GILLES BOURDOS

Cosa ti ha spinto a portare al cinema i racconti di Richard Bausch?
Ho scoperto l'opera letteraria di Richard Bausch un po' per caso, ed è stato un immediato colpo di fulmine per questo autore poco conosciuto in Francia, nonostante sia molto famoso negli Stati Uniti. Nella grande tradizione degli scrittori di novelle americani, Bausch è un maestro nell'arte di raccontare nella forma breve storie di intricati rapporti familiari e di coppie che si separano. Ho portato i libri di Bausch a Michel Spinosa senza avere un'idea precisa di ciò che avremmo potuto trarne dal punto di vista cinematografico. È stato Michel Spinosa ad avere l'intuizione di costruire il film sullo schema di un gioco di carte, il "gioco delle famiglie", in cui le carte vengono continuamente rimescolate. Così, il film funziona seguendo la modalità del confronto e dello shock: confronto tra padre e figlia, tra figlio e madre, tra marito e moglie ecc. I padri sono messi alla prova dalle scelte in amore delle figlie, un figlio affronta la disastrosa vita matrimoniale dei suoi genitori e così via.

Che approccio avete adottato per l'adattamento?
Volevamo subito distaccarci dalla classica costruzione del "film corale". In questo tipo di film, c'è sempre un evento o una situazione iniziale (o finale) che riunisce tutti i personaggi. Durante tutta la scrittura, il nostro impegno è stato quello di creare una tensione costante dall'inizio fino alla fine, senza cedere alla tentazione di creare quel genere di sequenza, più o meno artificiosa, in cui tutti i personaggi reagiscono alla stessa situazione. Abbiamo cercato di creare delle connessioni tra gli eventi senza legarli l'uno all'altro, semplicemente lasciandoci guidare dalla logica dei nostri personaggi. Le situazioni si rispondono, si fanno eco, creano effetti di risonanza e punti di collegamento… Costruire un "film mosaico", per frammenti, vuol dire anche comporre un oggetto dalle molteplici sfaccettature che sfugge così a qualsiasi conclusione globale in termini di significato.

Il film ha un ritmo quasi "pittorico".
So che alcuni registi amano ispirarsi a metodi e tecniche della musica per costruire la loro storia. Io sono più sensibile alle arti visive. Per trovare il ritmo del film, ho pensato molto ai mosaici di Gaudì o alle asimmetrie di Mondrian. Credo con convinzione in un'estetica dell'eterogeneità e nella tensione che deriva da frammenti disparati assemblati insieme, come nelle composizioni di Rauschenberg. Volevo un film che rompesse con la monotonia dei film accademici in cui sequenze della stessa lunghezza si susseguono allineate impeccabilmente come platani in un giardino alla francese. Vulnerabili inizia con due situazioni drammatiche molto diverse e non correlate tra loro – una notte di nozze, la telefonata di una figlia a suo padre – e questo va avanti per più di 30 minuti! È proprio il tipo di sfida che mi dà le più forti motivazioni, come regista.
Uno dei temi centrali sembra essere quello della sottomissione: quella di Joséphine al suo giovane marito, quella del padre di Joséphine a sua moglie, quella di Anthony a sua madre… Costrizioni che non potranno che esplodere.
Preferisco parlare di alienazione. Arriviamo al cuore di ciò che rende i legami familiari così complessi. La famiglia costituisce la cellula più primitiva della nostra società, la più essenziale. Le nostre tre storie di famiglia hanno dinamiche diametralmente opposte: un padre si muove sull'orlo della follia, un altro si riconcilia con la figlia, una moglie si libera delle nevrosi riscoprendo il suo ruolo di madre… È all'interno delle famiglie che alcuni trovano rifugio e altri sprofondano. Questo è il motivo per cui volevo anche un finale aperto a varie interpretazioni. Nell'ultima sequenza, alcuni riconosceranno una ragione di speranza concreta nel volto luminoso di Alice Isaaz, altri preferiranno vederci un finale più cupo. Entrambi possono avere ragione.

Le ambientazioni che scegli per girare sono spesso luoghi di passaggio, dove si transita – un'autostrada, un hotel, una stazione di servizio, un parcheggio, un residence di appartamenti ammobiliati, i corridoi di un ospedale… – e sembrano quasi disabitati…
È la Costa Azzurra filmata l'inverno, dalla quale nasce quella sensazione leggera di desertificazione. Filmare i luoghi di transito è qualcosa di molto naturale per me, non il frutto di una riflessione specifica. Penso di avere un istinto per cercare di esprimere, attraverso questi luoghi, dei sentimenti di solitudine che abitano i personaggi. E poi i luoghi di transito hanno qualcosa di neutro, di scarsamente classificabile da un punto di vista sociologico. E io non volevo inserire il film in un discorso marcatamente sociale.

Nizza, città portuale, frontaliera e turistica, è la città di transito per eccellenza.
Sì, e come tutti i mediterranei, ho anche un rapporto appassionato con la mia città natale. Mi piace il variegato accatastarsi delle architetture. Il rococò si mescola allo streamline, le linee degli edifici funzionalisti degli anni Settanta si intrecciano con le ville moresche… E poi c'è questa autostrada che domina tutta la città e mi affascina da sempre.

Come hai scelto i tuoi attori?
Mi piace lavorare con un ragazzo come Grégory Gadebois, uscito dalla Comédie Française, tanto quanto con un autodidatta come Vincent Rottiers. Probabilmente è un altro modo di manifestare il mio gusto per l'eterogeneo! La scelta di un attore è una scelta d'amore, molto difficile da giustificare di fronte agli altri. È un'alchimia misteriosa. Per esempio, non avevo mai visto recitare Alice Isaaz, che ha fatto dei provini di una forza impressionante. Mi ha stupito subito con la sua sorprendente maturità artistica, che è stata confermata durante le riprese. Sono stato fortunato, in questo film, a poter fare le mie "scelte d'amore" senza preoccuparmi delle contingenze commerciali, senza dovermi preoccupare della notorietà degli attori. E queste scelte da cineasta libero le ho potute fare solo grazie al sostegno incondizionato di Kristina Larsen (Les Films du Lendemain) e Stéphane Célérier (Mars Films).

Qual è il tuo modo di lavorare con gli attori?
Quando decido di lavorare con un attore, ho solo una richiesta: che conosca il suo copione per filo e per segno. Non credo molto alle improvvisazioni, penso che di norma indeboliscano la tenuta del film. I dialoghi sono stati studiati minuziosamente da uno sceneggiatore, bisogna rispettare la partitura. D'altra parte, non faccio letture né prove, perché cerco di non bloccare l'attore in uno schema psicologico o drammaturgico troppo rigido. Se in una sequenza non si verifica qualche imprevisto, rimango sempre un po' deluso. Mi piace quando l'energia e la fantasia di un attore "vanno oltre" la partitura iniziale. Amo gli incidenti di percorso, e con degli attori pieni di fantasia come Eric Elmosnino, Brigitte Catillon o Damien Chapelle, sono sempre molto divertenti. È essenziale che i miei collaboratori si approprino delle mie proposte iniziali e le rimescolino. Ma poi finisco sempre per assorbire tutto… e ricondurlo ai miei scopi! Mi piace sviluppare sul set un modo unico di comunicare con ciascuno di loro. Sono tanti piccoli fili segreti e intimi che tiro con la loro complicità. Quindi per me è sempre una gioia ritrovare attori con cui ho già lavorato come Brigitte Catillon, Frédéric Pierrot o Carlo Brandt. La loro lealtà, come quella dei miei più stretti collaboratori artistici, è forse la cosa più preziosa nel mio lavoro.

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