Poster Un altro mondo

Un altro mondo (2021)

Un Autre Monde
Locandina Un altro mondo
Un altro mondo (Un Autre Monde) è un film del 2021 prodotto in Francia, di genere Drammatico diretto da Stéphane Brizé. Il film dura circa 96 minuti. Il cast include Vincent Lindon, Sandrine Kiberlain, Anthony Bajon, Marie Drucker, Guillaume Draux, Olivier Lemaire, Christophe Rossignon, Sarah Laurent, Joyce Bibring, Olivier Beaudet, Jean-Pierre Gauthier, Didier Bille. In Italia, esce al cinema venerdì 1 Aprile 2022 distribuito da Movies Inspired.

Un manager dalla vita privata disastrosa entra in crisi quando riceve un delicato incarico dalla sua azienda.

Un dirigente d'azienda, sua moglie, la sua famiglia, in un momento in cui le scelte professionali di uno cambiano la vita di tutti. Philippe Lemesle e sua moglie si separano, un amore danneggiato dalla pressione del lavoro. Dirigente di successo in un gruppo industriale, Philippe non sa più come rispondere agli ordini incoerenti dei suoi superiori. Ieri volevano che fosse un leader, oggi vogliono che sia un esecutore. È questo il momento in cui deve dare un senso alla propria vita. 

Info Tecniche e Distribuzione

Uscita al Cinema in Italia: venerdì 1 Aprile 2022
Uscita in Italia: 1 Aprile 2022 al Cinema
Genere: Drammatico
Nazione: Francia - 2021
Durata: 96 minuti
Formato: Colore
Produzione: Nord-Ouest Films, France 3 Cinéma (cp-produzione), Diaphana (in associazione con), Wild Bunch International (in associazione con), Canal+ (partecipazione), Ciné+ (partecipazione), France Télévisions (partecipazione), Sofitvciné 7 (in associazione con), La Banque Postale Image 13 (in associazione con), Cineventure 5 (in associazione con), Manon 10 (in associazione con), Regione Île-de-France (con il sostegno di), Regione Nouvelle-Aquitaine e Dipartimento di Lot-et-Garonne (con il sostegno di), CNC (in partnership con)
Distribuzione: Movies Inspired

Cast e personaggi

Regia: Stéphane Brizé
Sceneggiatura: Olivier Gorce, Stéphane Brizé
Musiche: Camille Rocailleux
Fotografia: Eric Dumont
Scenografia: Pascal Le Guellec
Montaggio: Anne Klotz
Costumi: Isabelle Pannetier

Cast Artistico e Ruoli:
foto Vincent Lindon

Vincent Lindon

Philippe Lemesle
foto Sandrine Kiberlain

Sandrine Kiberlain

Anne Lemesle
foto Anthony Bajon

Anthony Bajon

Lucas Lemesle
foto Marie Drucker

Marie Drucker

Claire Bonnet Guérin
foto Guillaume Draux

Guillaume Draux

Direttore Risorse Umane Francia
foto Olivier Lemaire

Olivier Lemaire

Olivier - direttore delle operazioni
foto Christophe Rossignon

Christophe Rossignon

Direttore del sito #1
foto Sarah Laurent

Sarah Laurent

Rappresentante sindacale #1
foto Joyce Bibring

Joyce Bibring

Juliette Lemesle
foto Olivier Beaudet

Olivier Beaudet

Direttore del sito #2
foto Jean-Pierre Gauthier

Jean-Pierre Gauthier

Direttore del sito #3
foto Didier Bille

Didier Bille

Direttore del sito #4
foto Valérie Lamond

Valérie Lamond

Avvocato di Anne
foto Mehdi Bouzaïda

Mehdi Bouzaïda

Avvocato di Philippe
foto Myriam Larguèche

Myriam Larguèche

Psichiatra della clinica
foto Daniel Maslo

Daniel Maslo

Psichiatra del pronto soccorso
foto Jerry Hickey

Jerry Hickey

Sig. Cooper



Produttori:
Philip Boëffard (Produttore), Eve François-Machuel (Produttore), Stéphane Brizé (Produttore esecutivo), Vincent Lindon (Coproduttore), Christophe Rossignon (Coproduttore)


Segretaria di edizione: Marion Pin | Casting: Coralie Amadeo | Aiuto regista: Emile Louis | Suono: Emmanuelle Villard ed Hervé Guyader | Direttore di produzione: Christophe Desenclos | Location Manager: Ignazio Giovacchini | Responsabile post-produzione: Julien Azoulay.

Immagini

[Schermo Intero]

INTERVISTA A STÉPHANE BRIZÉ

Cosa ti ha spinto a raccontare la storia di questo dirigente?
Il film descrive la perdita di significato della vita di un dirigente di azienda che, nello stesso periodo in cui il suo matrimonio sta affondando, fatica sempre più a trovare coerenza in un sistema che serve da anni. Un sistema nel quale è divenuto estremamente complicato per lui eseguire gli ordini che riceve dall'alto. Molti dirigenti hanno raccontato a me e a Olivier Gorce, il mio co-sceneggiatore, della loro vita personale e professionale a cui sono sempre meno in grado di dare un senso perché non viene più chiesto loro di pensare ma semplicemente di eseguire. Abbiamo voluto dare conto delle conseguenze dell'operato di coloro che sono considerati il braccio armato delle società in cui operano mentre, in realtà, non sono che individui presi tra l'incudine e il martello.

Il film è stato ovviamente concepito prima della crisi del Coronavirus. Ma è in perfetta risonanza anche con il momento attuale, nel mostrare un sistema essenzialmente incoerente che si esaurisce.
Nessuno avrebbe potuto immaginare l'inusitata crisi sanitaria che stiamo attraversando oggi. Ma se può essere vista come una fonte di caos quasi senza precedenti, può anche essere letta come un'opportunità per metterci in discussione. Trasformare il limite in vantaggio per non restare solamente i perdenti della Storia. È come quando i nostri corpi o la nostra psiche collassano per costringere la macchina a fermarsi, indicando che abbiamo dimenticato di mettere in discussione qualcosa di essenziale ma intangibile, un punto cieco nella nostra vita. È una metafora su scala individuale del nostro caos mondiale; i profondi sconvolgimenti vissuti dal protagonista lo costringeranno a mettere in discussione le sue azioni, le sue responsabilità e il suo posto all'interno dell'azienda e della sua famiglia.

Anche se riconosciamo gli aspetti realistici dei tuoi film precedenti, notiamo subito una netta rottura nella tua messa in scena, in particolare con La legge del mercato e In guerra.
Aggiungerei alla tua lista anche Una vita. Perché la messa in scena di questi tre film riflette l'idea di catturare la realtà. È come se fosse stato fatto un accordo con i protagonisti, chiedendo loro di accettare la presenza di una macchina da presa nella loro vita quotidiana. Qui ho voluto reintrodurre un elemento di finzione molto più forte, pur continuando a lavorare con un cast di non professionisti accompagnati da tre attori di mestiere – Vincent Lindon, Sandrine Kiberlain e Anthony Bajon. La cinepresa non è più posizionata in un luogo che si tradurrebbe con "mi metto dove posso", è ora collocata dove può restituire un resoconto molto più soggettivo della situazione, intima o professionale che sia. I molteplici punti di osservazione in alcune scene riflettono la sensazione di accerchiamento, di confinamento provata dal personaggio. I problemi arrivano da ogni parte, non ha tregua, come un uomo in mare su una barca che ha falle in ogni lato e che cerca di impedire all'acqua di penetrare da tutte le fessure.

Quindi, più cineprese in determinate sequenze?
Tre al massimo, anche se sembrerebbe essercene molte di più. Non assegno agli operatori nessuna posizione prefissata, in modo che siano liberi di riesaminare costantemente la propria inquadratura per trasmettere l'elasticità, la tensione di certe situazioni. Le scene richiedono molto tempo per essere girate, molto più di quello che traspare dal montaggio, è un momento estremamente fisico per tutti. Per l'immagine, per il suono e per gli attori. Moltiplico gli angoli, infrango la regola dei 180°, mi trovo a mio agio con i falsi raccordi, un espediente che deve trascrivere il senso di oppressione e soffocamento del personaggio, la sensazione che il cappio si stia stringendo intorno al suo collo.

Come hai costruito la storia?
Ovviamente, non considero l'azienda, così come la famiglia, un luogo di sole nevrosi, tensioni e violenza. Ma ci sono storie di treni che arrivano in ritardo e un film, un libro o un'opera teatrale possono aprire una finestra sulle zone disfunzionali. E sono le ragioni del fallimento quelle che devono essere osservate. Con questo nuovo film, abbiamo voluto comporre una sorta di controcampo rispetto al precedente, In guerra. Tutti i manager che abbiamo incontrato con Olivier Gorce sono stati allontanati dalle loro funzioni, in un modo o nell'altro, anche se per molti anni hanno seguito le direttive del sistema senza fare domande. Hanno lavorato nell'ingegneria industriale o negli stabilimenti metalmeccanici, nelle banche, nel settore della salute, della pubblicità, delle assicurazioni o dei cosmetici. Tutti dotati di enormi competenze intellettuali o gestionali. Tutti al servizio di multinazionali e società quotate in borsa. Ci hanno parlato del loro disagio, della sensazione dolorosa e insopportabile di essere semplicemente diventati la cinghia di trasmissione di un sistema aggressivo e pieno di disposizioni contraddittorie. Ci hanno parlato della loro ansia da prestazione, del timore di non essere all'altezza delle aspettative altrui. Non sono nati carnefici ma hanno avuto la sensazione che la perdita della loro vita personale e professionale li stesse gradualmente trasformando in carnefici. Alcuni hanno vissuto un completo esaurimento, altri erano a disagio nel rapporto con i loro superiori e sono stati messi da parte, e alcuni se ne sono andati prima di crollare. Tutti ci hanno parlato dell'inevitabile impatto avuto sulle loro famiglie. Philippe Lemesle è uno di loro, un individuo pieno di buona volontà; ormai con l'acqua alla gola arriva finalmente a chiedersi cosa sia lecito sacrificare della vita personale per il lavoro.

E, con questa storia, siamo dentro la vita tragicamente ordinaria di uno di questi dirigenti?
Philippe Lemesle, il protagonista, occupa una posizione vincente nella nostra moderna civiltà, la posizione della meritocrazia, la posizione che di prassi chiamiamo "grande successo". Come puoi dire di provare sofferenza quando ti trovi lì? Come puoi dire d-i soffrire quando fai parte dell'élite sociale? Lamentarsi sarebbe riprovevole agli occhi di chi sta più in basso, e sembrerebbe anche un segno di debolezza inaccettabile agli occhi dei propri pari, e ai propri stessi occhi. Quando, nel mondo, occupi una tale posizione, non puoi e non devi essere fragile. È vietato, pena la retrocessione e la sostituzione con qualcuno più giovane e dinamico, o qualcuno che non ha intenzione di discutere ciò che gli viene detto di fare. Un luogo di enorme solitudine dove forse non hai più scelta. Viene anche affrontata la questione della libertà personale.

Il film racconta la storia di un'azienda poco prima di un ridimensionamento. In guerra riguardava i licenziamenti collettivi e la negoziazione del relativo piano sociale, e La legge del mercato descriveva la quotidianità di uno di questi dipendenti emarginati. Abbiamo una trilogia che si snoda in tre periodi chiave che testimoniano i meccanismi di distruzione dei posti di lavoro e il relativo costo umano.
Ogni film è costruito sul precedente. Un soggetto che porta a incontri, incontri che portano a nuovi pensieri, pensieri che portano a un nuovo soggetto. L'ordine cronologico del dramma sociale è stato quindi costruito a ritroso. Prima i disoccupati a lungo termine e infine la storia di chi organizza tale disoccupazione attraverso la lotta impari dei dipendenti contro l'azienda. L'obiettivo era quello di raccontare le cause e le conseguenze di questa immensa macchina frantumatrice dalla prospettiva degli esseri umani. Sia dal punto di vista di chi colpisce sia di chi viene colpito. E tuttavia, se un filo di pensiero ha permesso di costruire e collegare questi tre film, non necessariamente essi devono somigliarsi. Rispetto ai precedenti due, Un altro mondo attinge più profondamente alla finzione narrativa e all'intimità con i personaggi. Ma alla fine, l'osservazione ci permette di lasciarci alle spalle la dialettica riduttiva dei cattivi manager contro i buoni operai, per evidenziare un problema sistemico che va ben oltre le posizioni di ciascun individuo.

In che modo Philippe Lemesle, il personaggio interpretato da Vincent Lindon, riesce a sottomettersi a un sistema di cui comprende appieno l'incoerenza?
Non capisce subito l'incoerenza del sistema. In ogni caso non è in grado di fornire a se stesso una spiegazione coerente. Vive quindi una situazione in un luogo della sua vita – il lavoro – che ha conseguenze su un altro luogo – la famiglia. All'inizio del film, è assolutamente impossibile per lui sentirsi dire e ammettere a se stesso che l'obbligo di ridimensionamento del Gruppo Elstonn impostogli sarà molto difficile, se non impossibile, da attuare. All'inizio, è solo in grado di fare ciò che gli viene chiesto di fare. Non per ideologia, non per attitudine alla brutalità, ma perché ha integrato il grande concetto del mondo aziendale secondo cui il problema non è il sistema di per sé, ma la difficoltà per i suoi membri di adattarsi ad esso. Ma il suo stabilimento, così come la maggior parte di quelli in Francia e in tutta Europa, è ora a un punto di rottura. Fare di più con meno sta diventando impossibile. I dipendenti – dirigenti e operai – hanno raggiunto i loro limiti. Philippe deve accettare di non essere lui il problema prima di poter affrontare la gerarchia. Deve intraprendere una Rivoluzione Copernicana se non vuole perdere tutto: la sua famiglia, la sua salute mentale e fisica.

Questo "altro mondo", che suggerisce il titolo, è il mondo che il protagonista sta perdendo o il mondo in cui sta per precipitare?
Entrambi. Il personaggio si sta allontanando inesorabilmente da un mondo in cui il suo posto e le sue azioni avevano un senso, e si sta muovendo verso un mondo in cui l'etica che lo struttura a un livello profondo sta scomparendo. Sia personalmente che professionalmente. Questo "altro mondo" rappresenta la scelta che il personaggio di Vincent Lindon e, contemporaneamente, quello di Sandrine Kiberlain si trovano a dover affrontare: la questione di cosa siamo disposti a fare personalmente e professionalmente per essere nel posto che sentiamo più intimamente giusto per noi. Dopo oltre un anno di pandemia globale, il titolo è ancor più in risonanza, quasi ironicamente, con il "mondo nuovo" di cui tanto si parlava, invocandolo senza dubbi, fino a qualche mese fa… Quel "mondo nuovo" che dovrà essere costruito sulle domande evocate da questa crisi imprevista.

La vita personale del personaggio occupa qui un posto più ampio, molto più che nei tuoi film precedenti.
Non sono un accademico. Quello che mi interessa sono le donne e gli uomini e le conseguenze sulla loro vita personale delle loro scelte professionali. In questo film, gli individui – i dirigenti – devono prendere decisioni che inevitabilmente portano le altre persone a soffrire. Pezzo dopo pezzo, viene loro chiesto di rinunciare a parte della propria umanità. E non puoi tirare impunemente quel filo senza il rischio che si spezzi. Non avviene tutto senza ansia, angoscia, tumulto interiore. È quello che portano a casa questi dirigenti e, a poco a poco, ciò che per anni è stato equilibrato diventa sbilanciato e improvvisamente, tutto l'edificio crolla.

Per Philippe Lemesle, una delle conseguenze è il divorzio. Ma anche se sua moglie Anne lo abbandona, continua comunque ad amarlo.
Sì, perché quando lascia l'uomo con cui conviveva da più di 25 anni, non è perché tra loro non ci sia più amore, ma perché deve salvare la propria pelle. Si rende conto che la sua vita quotidiana ha perso ogni coerenza, quindi corre il rischio e se ne va. L'idea del coraggio in ambito professionale torna più volte nel film. Ma il vero coraggio è mostrato da Anne. Perché se ne va, anche se ha paura per il suo futuro. Se ne va perché la coppia è diventata luogo di rinuncia e di dolore. Lei, che ha sacrificato parte della sua ambizione professionale affinché il marito avesse successo nella sua carriera, si sente ingannata. Il tacito accordo che aveva con Philippe, il compromesso, non ha più senso, e lei ha il coraggio di rinunciare a uno stile di vita agiato che molte persone non vorrebbero mai mettere in discussione. Il modo sorprendentemente sottile con cui Sandrine Kiberlain rivela le contraddizioni interiori di Anne è semplicemente mozzafiato, devastante.

Il film ha offerto l'opportunità di una riunione tra Vincent Lindon e Sandrine Kiberlain con cui avevi girato Mademoiselle Chambon, dodici anni fa.
Una riunione molto potente perché vi è tra loro ammirazione e non avevano più lavorato insieme per tutti questi anni. E anche se ho fatto tre film con Vincent Lindon in questo lasso di tempo, aspettavo il momento in cui avrei potuto fare un altro film con Sandrine, che reputo un'attrice straordinaria. Che questo film sia stato fatto con entrambi rappresenta un regalo ulteriore. Perché, senza svelare grandi segreti, la natura della loro relazione passata risuona in modo particolare nelle parti che devono interpretare. È un privilegio godere della loro fiducia e poter lavorare in questo modo con loro.

È il tuo quinto film con Vincent Lindon. Temi la ripetizione, raccontando storie con lo stesso attore?
Un film è un soggetto, una storia e dei personaggi, ma per me è anche un documentario su uno o più attori. Non credo assolutamente alla nozione di personaggio. Il personaggio è prima una costruzione dello sceneggiatore e poi dello spettatore. In quanto regista, sul set, mi occupo solo della materia viva che ho di fronte. A volte faccio film con la rabbia di Vincent, con i suoi dubbi, la sua tenerezza; qui ho la sua fatica e la sua angoscia. Non invento niente con un attore, mi occupo solo di ciò che mi permette di avere. Il talento dell'attore è la sua capacità di essere disponibile. Vincent si rende immensamente disponibile ad investire in spazi e storie che immagino ogni volta in modo diverso.

Si conta anche la partecipazione di Anthony Bajon, che interpreta il figlio.
È stato un incontro straordinario con un giovane attore dotato. La parte è difficile e sul filo del rasoio. Anthony è il "bambino-sintomo" della disfunzione della propria famiglia e di quella della nostra società; vuole essere all'altezza delle aspettative della sua famiglia e del suo ambiente ma esplode a mezz'aria perché "scompensa". Anthony cammina sulla corda tesa con un'intelligenza recitativa impressionante.

E la sorprendente partecipazione di Marie Drucker al suo primo ruolo cinematografico…
Marie ha dovuto affrontare la fase di casting come tutti gli attori non professionisti che sono stati scelti nel film. Ha smesso di essere una giornalista e conduttrice televisiva già qualche anno fa, perciò non è gravata dalla sua immagine e da ciò che ci si aspetta da lei o da ciò che dovrebbe rappresentare. Ha l'età giusta, ha il fisico giusto, l'intelligenza e anche la padronanza del linguaggio degli affari. E qui si diverte a incarnare il braccio armato del sistema, colma di sicurezza, quella dei vincitori della globalizzazione. Le faccio affermare cose impensabili come quando dice a Vincent che tutto nella vita è precario: amore, salute e… perché non il lavoro? Mi sarebbe piaciuto avere la fantasia per scrivere questa frase da me, ma in realtà queste sono le parole di Laurence Parisot, l'ex dirigente dell'unione francese dei datori di lavoro MEDEF.

La musica gioca un ruolo importante, forse più che nei tuoi fi lm precedenti.
Già ne In guerra avevo il forte desiderio di andare oltre il puro racconto della realtà, e permettevo alla musica di esprimere la rabbia, il rimbombo sotterraneo dell'indignazione operaia. La questione qui era di trasporre il permanente tumulto interiore del personaggio. Chiaramente se ne fa carico l'attore, ma è fortemente suggerito anche dalla musica che considero un ulteriore strumento di scrittura. Per ogni fi lm cerco un compositore con cui non ho mai lavorato. Mi piace lavorare con artisti che non siano specializzati in musica da fi lm. Questo era il caso di Camille Rocailleux che aveva composto solo pochissime colonne sonore. Avevo ascoltato il suo lavoro per il teatro. Gli ho chiesto di lavorare sull'idea di tensione e isolamento. Ha poi proposto qualcosa che non è pura melodia, senza entrare nella musica concreta. Un lavoro con gli archi che sviluppa nel tempo ed esalta poi audacemente con un canto lirico, che traduce un luogo lontano dalla psiche del personaggio. Quasi un paradiso, forse un paradiso sognato, completamente inaccessibile. Un luogo di purezza ormai perduta.

Il personaggio di Vincent Lindon si confronta più volte con la questione del coraggio. È un concetto importante nel mondo aziendale?
È un concetto fondamentale. Con Oliver Gorce abbiamo incontrato Christophe Dejours, psicoanalista esperto di salute e lavoro, dopo aver letto alcune delle sue pubblicazioni, in particolare Souff rance en France. È un libro in cui riprende il concetto di banalità del male sviluppato da Hannah Arendt, il modo in cui i cosiddetti individui normali possono gradualmente diventare carnefi ci. Come possono certi soggetti che potrebbero essere descritti come "persone perbene" accettare, senza protestare, vincoli sempre più severi che rischiano di mettere in pericolo la propria integrità mentale, fi sica e morale, nonché quella degli altri? Il coraggio viene poi off erto come fattore di integrazione e rispettabilità all'interno del gruppo. Il coraggio di fare ciò che in fondo ci ripugna per non essere individuati, o peggio, respinti dal sistema.

Allora, per te, dove risiede il coraggio?
Non sta a me dare una risposta certa. La situazione nel fi lm mette in discussione un uomo in un momento della sua vita in cui verità che sembravano immutabili crollano una dopo l'altra. Lo costringe a mettere in discussione le proprie paure, che deve accettare di aff rontare per rompere con ciò che lo ferisce. Abbandonare ogni idea della propria umanità o fuggire dal luogo della costrizione e della soff erenza, rinunciando contemporaneamente allo status sociale e all'idea della propria forza? Sono queste le domande intorno alle quali è stata costruita la storia e alle quali questo personaggio fornirà le sue risposte.


intervista dal pressbook del film

Eventi

• Presentato in Selezione Ufficiale – In Concorso alla 78a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (2021). 

• Presentato alla XII edizione di Rendez-Vous, il festival dedicato al cinema francese, a Roma, venerdì 1 aprile 2022 con la presenza del regist Stephane Brizé in sala.

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