Due reporter del New York Times, Megan Twohey e Jodi Kantor, danno voce insieme ad una delle storie più importanti di questa generazione, cambiando per sempre la cultura americana.
Carey Mulligan e Zoe Kazan vestono i ruoli delle due reporter del New York Times, Megan Twohey e Jodi Kantor, che insieme hanno presentato al mondo una delle storie più importanti degli ultimi decenni, una vicenda che ha diradato nebbia e silenzio sul tema delle aggressioni sessuali a Hollywood, mettendo in moto un cambio culturale che ancora oggi scuote la società americana.
Il film nasce dall’indagine pubblicata sul New York Times e condotta da Jodi Kantor, Megan Twohey e Rebecca Corbett e dal libro She Said: Breaking the Sexual Harassment Story That Helped Ignite a Movement a firma di Jodi Kantor e Megan Twohey.
A dimostrazione dell’incalcolabile importanza del giornalismo investigativo, Anche Io – She Said segue il percorso di due giornaliste e redattrici impegnate nell’ostinata ricerca della verità ed esalta il coraggio di sopravvissute e testimoni che hanno scelto di farsi avanti per mettere fine alle molestie di un predatore seriale. Insieme, la loro dedizione ha dato il via a un dibattito in tutto il mondo capace di generare il movimento #MeToo e di mettere in discussione un sistema corrotto.
In concreto, Anche Io – She Said è una fonte di ispirazione legata a persone, molte delle quali donne, molte delle quali madri, che hanno saputo trovare il coraggio di parlare e cercare giustizia, non solo per loro stesse, ma anche per le generazioni future, tanto negli Stati Uniti che in giro per il mondo. Il film è una dimostrazione emozionante quanto commovente del potere delle singole persone, armate di determinazione e grinta, e per questo in grado di cambiare il mondo se coordinate insieme alle persone al loro fianco.
Info Tecniche e Distribuzione
Uscita al Cinema in Italia: giovedì 19 Gennaio 2023Uscita in Italia: 19 Gennaio 2023 al Cinema
Genere: Drammatico
Nazione: USA - 2022
Durata: N.d.
Formato: Colore
Produzione: Plan B Entertainment, Annapurna Pictures
Distribuzione: Universal Pictures
Soggetto:
Tratto dal bestseller del New York Times 'She Said: Breaking the Sexual Harassment Story That Helped Ignite a Movement'.
Classificazioni per età: ITA: 6+ (MIC)
Cast e personaggi
Regia: Maria SchraderSceneggiatura: Rebecca Lenkiewicz
Musiche: Nicholas Britell
Fotografia: Natasha Braier
Scenografia: Meredith Lippincott
Montaggio: Hansjörg Weißbrich
Costumi: Brittany Loar
Cast Artistico e Ruoli:
Produttori:
Brad Pitt (Produttore), Dede Gardner (Produttore), Jeremy Kleiner (Produttore), Megan Ellison (Produttore esecutivo), Sue Naegle (Produttore esecutivo)
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Squarciare Il Velo
Dall’indagine al movimento
Il 5 ottobre 2017, le reporter investigative del New York Times Jodi Kantor e Megan Twohey hanno pubblicato un articolo a pagina intera che ha scosso il mondo del cinema e dell’intrattenimento per poi ripercuotersi attraverso tutto il paese: “Harvey Weinstein Paid Off Sexual Harassment Accusers for Decades – Harvey Weinstein Ha Pagato Accusatrici di Molestie Sessuali Per Decenni.” Il produttore di Hollywood, Harvey Weinstein, aveva per lungo tempo avuto uno dei ruoli più potenti nell’industria cinematografica. Vincitore di sei Premi Oscar per Miglior Film, e produttore di film del calibro di Sesso, Bugie e Videotape – Sex, Lies and Videotape, Pulp Fiction e Will Hunting – Genio Ribelle – Good Will Hunting, Weinstein è stata una figura di riferimento nel settore, in grado di definire il destino di una carriera, e per anni, come raccontato da Kantor e Twohey, ha usato deliberatamente questo potere per molestare e costringere donne a rapporti sessuali non consenzienti.
In 3,321 ponderate parole, le giornaliste hanno descritto minuziosamente accuse di comportamenti sconvenienti presentate negli ultimi 30 anni e finora tenute sotto silenzio. L’indagine è stata costruita tramite interviste condotte con vecchi e nuovi dipendenti e professionisti del settore, oltre a documenti ufficiali, e-mail e documenti interni degli affari condotti dal potente dirigente che ha guidato Miramax e la Weinstein Company, società che ha per anni fatto la storia di Hollywood. Le loro scoperte si sono rivelate inattaccabili. Grazie alla perseveranza mostrata e alla collaborazione di molte coraggiose sopravvissute e altre fonti che si sono fatte forza, sono riuscite alla fine a rivelare la verità.
Pettegolezzi e voci sui suoi comportamenti erano circolati attorno a Weinstein per anni, ma i giornalisti che avevano tentato di scardinare la difesa per ottenere la verità si erano scontrati con la riluttanza delle fonti e delle dure azioni d’intimidazione perpetrate dallo stesso Weinstein. Le vittime erano spesso troppo impaurite dall’idea di farsi avanti o venivano preventivamente bloccate con la proposta di accordi di non divulgazione. Anche chi ha trovato il coraggio di dichiarare quanto successo, non è riuscita a trovare l’attenzione del grande pubblico. Nel corso della storia americana e globale, le donne che hanno denunciato comportamenti sessuali inappropriati da parte di uomini potenti sono spesso state marchiate come frustrate, scaricate, avide o bugiarde. Gli uomini sono sempre rimasti al proprio posto. Così, nonostante i tentativi di affermati giornalisti nel corso del lungo regno di Weinstein su Hollywood, l’aura di silenzio che ha circondato lui e uomini come lui è rimasta letteralmente intatta. Nessuno è mai riuscito ad arrivare al cuore della storia.
Solo la straordinaria combinazione d’informazioni ed esperienza condivisa fra Twohey e Kantor, misto alla tenacia di portare alla luce questi fatti, ha permesso di far emergere un’indagine lunga mesi nelle accuse di comportamenti molesti e inopportuni nei confronti di Weinstein.
Nel corso delle loro carriere, Twohey e Kantor si erano già dedicate al racconto di storie potenti, in particolar modo dedicate alla protezione di donne e bambini. Nel 2016, un reportage di Twohey aveva dato voce alle donne che accusavano Donald J. Trump di molestie e altre forme di comportamento inappropriato. Inoltre aveva in passato scoperto una pericolosa rete di genitori che dava via bambini adottati e non voluti o rivelato le vicende di dottori che abusavano dei pazienti e riuscivano comunque a continuare a esercitare. Sempre Twohey è stata una delle prime giornaliste a raccontare come la polizia e i procuratori abbiano iniziato a usare il DNA per raccogliere prove di crimini sessuali, dando così alle vittime il diritto di poter finalmente avere giustizia. I suoi articoli hanno contribuito a mandare in prigione i colpevoli e a garantire le migliori protezioni legali per le vittime.
Le storie raccontate da Kantor sulle madri lavoratrici anche durante l’allattamento ha ispirato due lettrici a creare delle aree dedicate che oggi sono disponibili negli aeroporti e in altri luoghi in giro per gli Stati Uniti. Il suo articolo dedicato al caos causato dai sistemi di programmazione automatizzati negli ambienti di lavoro Starbucks ha dato il via a un movimento di protesta. Il lavoro dedicato ad Amazon ha avuto un impatto ripetuto, soprattutto dopo che, nel 2015, insieme a David Streitfeld, ha rivelato le punizioni inflitte nei quartieri generali, la società ha deciso di introdurre il congedo di paternità. L’indagine condotta nel 2021 in un magazzino a Staten Island warehouse in 2021, firmata da Kantor, Karen Weise e Grace Ashford, ha presentato i profondi problemi che hanno i sistemi di assunzione, con un turnover annuo che supera il 150% e uno storico di errori nelle paghe e sospensioni scorrette, anche per lavoratori in congedo parentale. I lavoratori del magazzino hanno costruito anche grazie a questo reportage il percorso di una storica decisione di sindacalizzarsi.
Insieme, Kantor e Twohey hanno lavorato sul caso Weinstein, con il supporto editoriale di Rebecca Corbett, guidando una lunga lista di articoli, inclusa l’inchiesta di Ronan Farrow pubblicata sul The New Yorker lo stesso mese, con ulteriori accuse nei confronti di Weinstein. Nelle settimane e nei mesi che sono seguiti, altre donne hanno trovato la forza di condividere le proprie strazianti esperienze sugli abusi sofferti da Weinstein e altri uomini in posizione di potere. Il movimento #MeToo, fondato dall’attivista Tarana Burke nel 2006, ha dato voce a queste testimonianze e velocemente è diventato una questione nazionale, e poi mondiale, che ha permesso di dare ascolto alle voci alle migliaia di vittime di abusi e molestie in tutto il globo. All’improvviso si è squarciato il velo. Dopo decenni in cui molte denunce di violenze e addirittura stupri sono cadute nel vuoto, le persone hanno finalmente cominciato ad ascoltare e a credere alle donne.
L’inchiesta di Kantor e Twohey ha vinto un Premio Pulitzer e ha poi portato nel 2019 all’uscita del libro campione di vendite, She Said.
Per Questa Generazione e Le Prossime
La Storia Diventa Film
Pochi mesi dopo l’uscita dell’indagine di Jodi Kantor e Megan Twohey sul New York Times, nell’aprile 2018, i produttori Dede Gardner e Jeremy Kleiner della Plan B Entertainment e le produttrici esecutive Megan Ellison e Sue Naegle di Annapurna Pictures si sono assicurate i diritti cinematografici della storia. “Il lavoro di Jodi e Megan è stato un passaggio spartiacque, non solo per l’industria cinematografica ma anche per l’intera società, perché si è compreso quanto fosse necessario conoscere la storia, anche nelle vesti di un film,” spiega Dede Gardner. “È apparso come un momento generazionale in cui abbiamo acquisito consapevolezza su un tema che ha colpito, e continua a colpire, le vite di milioni di donne e uomini, e siamo molto orgogliosi che Jodi e Megan si siano fidate di noi per raccontare quelle vicende sul grande schermo.”
Questa storia ha avuto una risonanza che va oltre i fatti dell’inchiesta. “Tante donne di questa esperienza, incluse Jodi e Megan, sono madri,” prosegue Gardner. “Ovviamente, il primo obiettivo delle due giornaliste era di raccontare la verità e di presentarla nella maniera più corretta, ma nel profondo di questo lavoro giornalistico c’è stato anche un intenso elemento emotivo. Per loro, quanto per le vittime e le testimoni che hanno parlato con loro, la speranza era di trovare giustizia. Siamo ancora molto lontani dal vedere cancellati questi comportamenti, ma è stato essenziale provare a mostrare grazie al giornalismo di Jodi e Megan che ci sono canoni diversi da lasciare ai nostri figli.”
Per le giornaliste, riporre la propria fiducia in una produzione cinematografica ha rappresentato un atto di fede. Entrambe si sono sentite incoraggiate dal fatto che Plan B ha una lunga serie di film che nascono come adattamenti di eventi e persone reali, come 12 Anni Schiavo – 12 Years a Slave, Selma – La Strada Per La Libertà e La Grande Scommessa – The Big Short. Comunque, le giornaliste hanno richiesto piena assicurazione che la storia di questa indagine sarebbe stata raccontata in maniera veritiera e rispettosa. “Dal primo momento in cui abbiamo parlato con Dede e Jeremy, siamo rimaste colpite,” confessa Twohey. “A impressionarci non c’è stato solo il numero di pellicole di alta qualità, ma soprattutto l’impegno che hanno dimostrato nel volere costruire un progetto il più possibile accurato e fedele. Da giornaliste, non c’è dubbio che queste cose sono state di fondamentale importanza per noi.”
Aggiunge Kantor: “Siamo convinte che questa storia appartenga alle persone di tutto il mondo, in particolare alle donne di tutto il mondo.”
Gardner e Kleiner, dopo le loro conversazioni con Twohey e Kantor, hanno costruito un’ipotesi in qualche modo contro intuitiva per la conclusione del film, suggerendo un climax improvviso e drammatico, piuttosto che un epilogo più classico. “Tutti sanno cosa è successo dopo l’uscita dell’articolo,” ricorda Gardner. “Quello che pochi sanno, ed è il tema del film, è cosa è costato a tutte le persone coinvolte far uscire questa storia. Le prospettive rappresentavano una scommessa e noi abbiamo voluto rimanere fedeli alla visione presentata già nelle premesse. Il finale, a nostro modo di vedere, parla a che deteneva il potere in quel momento.”
Una volta che sono state definite le questioni relative ai diritti, i produttori hanno cominciato a cercare la figura che potesse scrivere la sceneggiatura cinematografico come adattamento della storia. “Prima di tutto, volevamo che questa vicenda fosse raccontata con integrità e onestà,” spiega Jeremy Kleiner. “Io e Dede eravamo convinti che fosse fondamentale mantenere l’obiettivo sull’inchiesta, sulle vittime e sulle testimoni, e cercavamo un professionista che fosse in grado di combinare un punto di vista fortemente emotivo con una prospettiva particolarmente tecnica e legale.”
La ricerca li ha portati a contattare l’autrice e sceneggiatrice britannica, Rebecca Lenkiewicz, il cui lavoro per il teatro e per il cinema, con film come Ida e Disobedience sembravano darle tutte le credenziali per essere la scelta giusta. “Rebecca è in grado di lavorare su situazioni che affrontano temi molto profondi e renderle estremamente personali e viscerali,” afferma Kleiner. “Volevamo vivere l’inchiesta e tutte le sue emozioni. Abbiamo da subito creduto che Rebecca fosse in grado di ottenere questo obiettivo, contribuendo con alcuni interventi strutturali totalmente imprevisti, che sono senza dubbio la sua cifra stilistica.”
Lenkiewicz si è da subito dichiarata onorata di poter scrivere questa storia. “È stato un terremoto,” chiarisce Lenkiewicz. “Ho da subito percepito l’importanza dell’inchiesta e i suoi risultati hanno avuto conseguenze tanto personali che su una scala mondiale. Ho sempre ammirato il coraggio e la resilienza delle vittime, oltre alla forza e alla determinazione delle giornaliste. Credo che abbia offerto un esempio e un’ispirazione a tante persone, nonostante la durezza di questa esperienza.”
Kantor e Twohey stavano lavorando sul proprio libro quando per la prima volta hanno incontrato per la prima volta Lenkiewicz, impegnata nella preparazione della sceneggiatura. “Ho iniziato a scrivere sulla base delle nostre conversazioni e molto presto hanno cominciato a condividere con me i capitoli del libro in bozza,” racconta Lenkiewicz. “Così ho iniziato a inserire dettagli ed elementi nati dalla loro prospettiva, inclusi alcuni dialoghi estrapolati fedelmente. Il coraggio e la disponibilità delle persone coinvolte sono stati fondamentali per la sceneggiatura, tanto quanto l’assoluto rispetto che le giornaliste hanno mostrato per la loro determinazione a far uscire questa storia. Per troppi anni è stata tenuta sotto silenzio. Poi, al di là del libro, ho puntato ad aggiungere alcuni elementi delle vite personali delle giornaliste, per mostrare il contrasto fra l’immagine pubblica e professionale delle persone e il loro profilo più intimo.”
Nei tre anni successivi, Gardner e Kleiner hanno collaborato direttamente con Lenkiewicz. Kantor e Twohey hanno definito l’impianto, le intenzioni e le linee guida su come questa storia sarebbe stata raccontata sul grande schermo. La figura di Harvey Weinstein non sarebbe stata mostrata. Non ci sarebbero state molestie presentate in scena e la descrizione di ogni evento sarebbe stata offerta direttamente dalla voce delle vittime. “Il lavoro con Rebecca, Jodi e Megan ha portato ad avere più versioni della sceneggiatura, anche per il bisogno di produrre un progetto che garantisse profondità e accuratezza,” spiega Gardner. I produttori stessi hanno preso contatto con vittime e testimoni. “È stato di vitale importanza per noi essere certi che le persone realmente coinvolte fossero parte del processo,” spiega Gardner. “Senza dubbio questo approccio ha permesso di raccontare una versione accurata, autentica e ricca sotto ogni punto di vista.”
Il film non si concentra esclusivamente sull’estenuante ricerca e indagine condotta da Kantor e Twohey, ma presenta anche alcune informazioni sulle loro vite private, inclusa le difficoltà vissute da Twohey con la depressione post parto dopo la nascita della figlia. Per due giornaliste esperte come loro, trasformarsi improvvisamente nell’oggetto della storia è stato per certi versi destabilizzante. “Abbiamo costruito un rapporto inconsueto con questa produzione,” racconta Kantor. “Diventare protagoniste di un film, ci ha portato a dover mollare parte del controllo sul progetto e non è stato di certo facile conoscendo la delicatezza del materiale. Siamo rappresentate in scena e il film è un adattamento di un libro che abbiamo scritto, per cui abbiamo un evidente coinvolgimento. Eppure non ci sentiamo di dire di aver realizzato questo film, come non è stato prodotto dal The New York Times. Siamo entrambe abituate ad avere il pieno controllo su ogni singola virgola di ogni articolo. Assistere al lavoro realizzato da un autore diverso sul nostro materiale è stata una completa novità.”
Dopo che Lenkiewicz ha completato la sua prima bozza, l’intero gruppo di lavoro si è incontrato in una sala conferenze del New York Times per affrontare ogni dettaglio della sceneggiatura. La riunione si è tenuta all’alba della pandemia, a febbraio 2020, poco prima che Harvey Weinstein fosse giudicato dal processo nello stato di New York. Come poi è emerso, inoltre, Anche Io – She Said è stato il primo film a essere girato all’interno degli ambienti reali del New York Times. “Fra i pochi aspetti positivi della pandemia, posso dire che c’è stata l’opportunità di sfruttare l’assenza dei giornalisti che lavoravano da remoto,” confessa Gardner. “Abbiamo colto la sfida di poter girare all’interno del palazzo, si è trattata di una priorità irrinunciabile.”
Le giornaliste volevano che il film riportasse in maniera onesta il lavoro dietro alle quinte che un’inchiesta comporta, soprattutto per il New York Times, senza dimenticare il lavoro fondamentale garantito da professionisti come Rebecca Corbett, che ha affiancato l’indagine Weinstein con grande dedizione, e Dean Baquet, che ha contribuito con un supporto inestimabile e una guida sempre lucida.
“Non abbiamo puntato a offrire soltanto un’accurata rappresentazione di cosa voglia dire lavorare al The New York Times,” chiarisce Kantor. “Ma abbiamo voluto dare un contributo culturale in un momento storico in cui i giornalisti sono messi sotto accusa, criticati, attaccati, non creduti, addirittura marchiati come produttori di fake news. Il The New York Times non è perfetto. I giornalisti qui non sono perfetti. Ma crediamo nella sincerità e nella professionalità di questo luogo, votato alla sacra ricerca della verità, e abbiamo sempre sperato di poter vedere un film che rappresentasse il nostro posto di lavoro e i nostri colleghi esattamente come li vediamo.”
Aggiunge Twohey: “La nostra premura non è rimasta circoscritta esclusivamente ai giornalisti del New York Times, è stato fondamentale poter presentare con accuratezza e integrità anche le nostre fonti, donne, vittime e qualsiasi altra persona che abbia trovato il coraggio di partecipare all’inchiesta.”
Agli inizi del 2021, la sceneggiatura di Lenkiewicz era praticamente completata ed è iniziata la ricerca del regista. L’ipotesi di una candidata è emersa senza lasciare grossi dubbi: Maria Schrader. Tanto attrice che regista, Schrader aveva tutte le caratteristiche per interpretare con la propria visione l’energia e la cura del testo di Lenkiewicz, oltre a tutti i vari livelli emotivi che la storia conteneva. “Sono rimasta scioccata dalla sceneggiatura, dalla sua complessità, dall’intelligenza, dalle scelte nette in termini di aderenza ai dettagli per un processo così complesso come un’inchiesta giornalistica, per non parlare del vasto numero di personaggi che appaiono per offrire un reale contributo alla storia,” commenta Schrader. “La sceneggiatura di Rebecca mi ha immediatamente messo in chiaro che questo film non raccontava Weinstein, ma piuttosto le donne e le giornaliste che hanno permesso di far uscire questa storia. È un progetto che ha uno sguardo più ampio e non si concentra solo su Hollywood.”
Dalla Pagina Allo Schermo
La Verità Dentro La Macchina Da Presa
La regista Maria Schrader ha dovuto affrontare una serie di sfide uniche per portare Anche Io – She Said sullo schermo. Per iniziare, si è rivelato necessario dover rappresentare le esperienze vissute dalle due giornaliste, Jodi Kantor e Megan Twohey, al centro della narrazione, oltre alle complessità dell’inchiesta. “Questa storia affronta l’importanza del giornalismo investigativo,” spiega Schrader. “Descrivere lo sforzo, fra livello di dedizione, ricerca, perseveranza, oltre all’impatto che può avere, è una testimonianza importante da lasciare. Volevo accompagnare il pubblico nell’esperienza che hanno vissuto queste due giornaliste per affrontare una storia così complessa, con tutti i passaggi e i momenti critici, oltre agli elementi più personali vissuti da Jodi e Megan in termini di successi e delusioni.”
Per arrivare a questa via è stato opportuno drammatizzare tutto il ciclo di raccolta di informazioni che prevede un processo molto intenso di telefonate, mail, stesura di documenti e riunioni, per trasformarlo in un modo che apparisse credibile e interessante. La scelta della regista e dei produttori del film ha guardato ad alcuni schermi definiti da alcuni dei thriller più belli fra quelli dedicati al giornalismo investigativo, come il film nominato come Miglior Film per gli Oscar nel 1976 Tutti Gli Uomini del Presidente – All the President’s Men e il vincitore per Miglior Film nel 2015, Il Caso Spotlight – Spotlight.
“Il nostro film risponde a tutta una serie di criteri del film di genere, come la posta in gioco, la paranoia, il muro di difesa in cui fare breccia,” illustra Schrader. “È una storia decisamente drammatica, con personaggi forti che devono affrontare situazioni critiche e un antagonista potente, che gira per il mondo e riesce ad eclissarsi sempre al momento giusto. Il materiale era così ricco, da doversi concentrare anche sui dettagli più piccoli, evitando di sovraccaricare quanto fosse già a disposizione.”
Elemento importante per la squadra di lavoro era rispettare il concetto di realismo senza però rendere Anche Io – She Said un documentario. Il processo narrativo, secondo Schrader, ha avuto il ruolo di riuscire a far emergere la forza emotiva e personale di questa storia, “comprese le parole non dette, i sacrifici, i dubbi, le immagini, le facce, il linguaggio del corpo, i comportamenti.”
Non è indifferente la scelta di evitare nel film scene di molestie e violenze, usando semplicemente le parole della vittima. “Non mi interessa aggiungere un’altra scena di stupro nel panorama visivo di questo mondo,” spiega Schrader. “Ne abbiamo gia avute abbastanza.” E lo stesso Harvey Weinstein ha un ruolo decisamente contenuto. Il film include solo una registrazione audio con la sua voce e per quelle poche scene in cui è presente, appare solamente di spalle. Il pubblico non vede mai la faccia dell’attore che lo interpreta. “La nostra fonte erano il libro e le vite delle giornaliste,” chiarisce Schrader. “A guidarci sono state le loro esperienze, viste dalla loro prospettiva, e le testimonianze raccolte nel corso del tempo. Immagino che anche il lavoro di Jodi e Megan sia andato nella stessa direzione. Con Weinstein presente nello sfondo solo a causa delle sue azioni.”
Mentre Schrader e produttori costruivano la squadra per le riprese, in ogni reparto si è cercato di costruire una distribuzione di figure a maggioranza femminile. “Non abbiamo mai perso la volontà di scegliere le persone migliori per questo ruolo,” chiarisce Schrader. “Ma questa storia affronta una presa di coscienza nell’universo femminile, il coraggio di parlare e di pretendere i propri spazi, per cui ci è sembrato giusto avere più donne possibili. Detto questo, sono ansiosa di vedere il giorno in cui una troupe tutta al femminile non sarà più una notizia.”
Impatto e Conseguenze
Come Una Storia Ha Cambiato Il Mondo
L’8 ottobre 2017, solo dopo tre giorni dall’inchiesta pubblicata dal New York Times e firmata da Jodi Kantor e Megan Twohey, la Weinstein Co. ha annunciato il licenziamento con effetto immediato di Harvey Weinstein. Il 31 maggio 2018, il Tribunale di New York ha annunciato il processo nei confronti di Weinstein con le accuse di stupro e crimini di stampo sessuale. Il 24 febbraio 2020 è stata proclamato colpevole per le molestie e la violenza carnale, l’11 marzo 2020 il 67enne Harvey Weinstein è stato condannato a 23 anni di prigione.
Un secondo processo, in cui il produttore affronta 11 accuse fra stupro e molestie, che coinvolge cinque vittime confermate, è cominciato a Los Angeles il 10 ottobre 2022. Ad agosto dello stesso anno, a Weinstein è stato concesso l’appello sul procedimento a New York, con le udienze previste per il prossimo anno. In entrambi i casi, Weinstein ha continuato a proclamarsi innocente e ad affermare di aver solo vissuto esperienze di sesso consensuale.
Grazie al lavoro condotto da Twohey e Kantor, altre testimonianze miste alla crescente attenzione rivolta al movimento #MeToo hanno contribuito a un cambiamento culturale a Hollywood, in molte maniere diverse. Sempre più vittime si sono fatte avanti, accusando uomini potenti di molestie che hanno così dovuto lasciare le proprie posizioni. Il mondo del lavoro ha aumentato la propria attenzione sul tema, e in particolare sui set televisivi e cinematografici è stata introdotta la figura dei coordinatori delle scene intime per evitare questioni su tutte le scene che avessero una natura sessuale.
“L’impatto dell’articolo e del movimento che è seguito è stato enorme,” ricorda la regista Maria Schrader. “Ci sono stati dei cambiamenti necessari, anche nella maniera in cui gli studios, i festival cinematografici, le varie organizzazioni hanno inteso e diversificato il proprio lavoro.” Ma l’onda del cambiamento ha superato la stessa Hollywood. “Forse, il passaggio più importante è stato proprio nel modo in cui uomini e donne hanno rivalutato la personale visione dell’esperienza di molestia e abuso sessuale,” considera Schrader. “È nell’ambito più personale e intimo che credo che la rivoluzione sia stata epocale. Siamo molto più liberi di condividere le nostre esperienze; ora non c’è più il timore di rimanere in silenzio e tutti si stanno comportando di conseguenza. Credo che ci sia maggiore consapevolezza sui propri comportamenti e su quelli di chi ci circonda. Sono certa che questa visione si diffonderà anche ai nostri figli e oltre.”
A livello mondiale, abbiamo assistito a un effetto a cascata, con sempre più donne pronte a denunciare ingiustizie e discriminazioni.
Gli autori e il cast sono speranzosi del fatto che Anche Io – She Said possa contribuire a nutrire una maggiore consapevolezza del ruolo del giornalismo investigativo, in un momento culturalmente turbolento, che vede i giornalisti sempre più sotto attacco. Come già è stato sottolineato più volte, un lavoro credibile può portare giustizia e contribuire a cambiamenti reali. “È il nostro lavoro riuscire a costruire la giusta fiducia nelle persone, e la nostra grande speranza è di poter aiutare in questo verso,” testimonia Jodi Kantor. Aggiunge la collega Megan Twohey: “La mia speranza è che questa pellicola non punti l’attenzione sui sistematici fallimenti che hanno portato le molestie e gli abusi a essere così diffusi, ma che possa anche essere anche fonte di ispirazione ed esempio per individui coraggiosi che credono nella verità come fonte di cambiamento.”
Per le attrici di Anche Io – She Said, l’opportunità di far parte in questo progetto è stata una prospettiva che va oltre alla loro esperienza di attrici. “L’aspetto per me più importante del film è poter osservare queste due donne, Jodi e Megan, al modo in cui lavorano con tale dedizione, con standard altissimi, per modellare una storia con margini di alto rischio, ma per la quale sono a totale supporto delle persone che hanno accettato di testimoniare,” afferma Zoe Kazan, che interpreta Jodi Kantor. “Poter comprendere cosa sia successo, vedere come è stato costruito il percorso, pezzo dopo pezzo, con grandi dosi di fiducia, assistendo al coraggio di tutte le persone coinvolte, ha significato moltissimo per me.”
Carey Mulligan, che interpreta Megan Twohey, è rimasta colpita dal coraggio collettivo che è servito per rendere questa storia una realtà. “È motivo di grande emozione per me poter vedere donne così eroiche che accettano di mettersi a rischio,” spiega Mulligan. “Questo film è pieno di riferimenti iconici a un’esperienza che valeva assolutamente la pena raccontare.”
I Personaggi
Megan Twohey / Carey Mulligan
Nell’ottobre 2016, quasi un anno dopo alla pubblicazione della storia che coinvolgeva Weinstein, Megan Twohey ha firmato insieme al reporter Michael Barbaro un articolo che presentava dettagliate accuse all’allora candidato per la Presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump, concernenti comportamenti sessuali scorretti nei confronti di due donne. A seguito di questo episodio, Twohey si è ritrovata a diventare il target di buona parte dei sostenitori più accesi di Trump, per cui ha anche ricevuto numerose minacce sulla sua sicurezza fisica. Nulla che abbia messo in discussione il suo impegno nel lavoro: figlia di due giornalisti, il padre per Chicago Tribune e Washington Post, la madre in un notiziario televisivo, non si è mai trattenuta dal cercare la verità nelle proprie inchieste, anche quando puntavano figure od organizzazioni potenti
Al contrario, ha con costanza affrontato senza alcun timore il confronto con comportamenti da denunciare, oltre a garantire una calda e genuina empatica parlando con le vittime.
Questa combinazione unica di tratti ha colpito l’attrice due volte nominata per il Premio Oscar Carey Mulligan, che ha accettato di interpretare Twohey in Anche Io – She Said. “Questo film mi ha permesso di comprendere meglio i meccanismi mentali che si innescano quando sei un giornalista investigativo,” racconta Mulligan. “Con Megan, ho avuto l’impressione che il giornalismo fosse per lei una sorta di vocazione. Non è un lavoro. Non avrebbe potuto fare nulla di diverso. È incredibile il coraggio che devi avere per presentarti a casa di qualcuno, bussare alla porta e dire, “ciao, sono qui per farti qualche domanda su qualcosa che è probabilmente il più grosso segreto della tua vita. Voglio che tu mi dica tutto e garantirti che questa chiacchierata potrà aiutarci a cambiare in meglio le cose.”
Mulligan ha avuto anche una forte connessione personale su un dettaglio molto personale della vita di Twohey. Entrambe hanno combattuto la depressione post parto dopo la nascita delle loro figlie, e per loro il lavoro ha rappresentato un’opportunità determinante per ritrovare un equilibrio gestibile. La storia di Weinstein è stata la prima inchiesta condotta dopo il congedo di maternità.
“In occasione della distribuzione di Suffragette, sette anni fa, mia figlia aveva appena tre settimane e io dovevo affrontare un tour per la promozione del film con la stampa,” ricorda Mulligan. “Per le prime tre settimane avevo pianto ogni santo giorno. Mi ero quasi convinta di non poter partire, ma poi mi sono resa conto di averne bisogno. Le cose sono andate molto meglio anche grazie al mio lavoro e alla comunità di persone che mi hanno affiancato. Mi ha tolto un peso. Quando ho letto questa sceneggiatura, ho capito di aver vissuto le stesse difficoltà. Quel passaggio mi è apparso molto familiare.”
Durante la preparazione, Mulligan ha letto molte delle inchieste scritte da Twohey, e ha ascoltato interviste e podcasts in cui la giornalista spiegava nel dettaglio alcuni dei suoi lavori, incluso quello descritto in Anche Io – She Said. Mulligan e la sua famiglia hanno anche passato del tempo con la famiglia di Twohey, uscendo insieme a Brooklyn, dove una vive e l’attrice si era trasferita per le riprese. Il suo obiettivo era approfondire la conoscenza della donna, anche al di fuori del suo ambiente di lavoro.
“Avrò fatto a Megan un milione di domande,” scherza Mulligan. “È molto sicura, comunica calma. Può raccontarti una storia con una certa dose d’ironia, ma sa essere anche molto secca. Esprime una grande passione per il proprio lavoro, ma non è una persona emotiva. La maggioranza dei personaggi che ho interpretato nella mia carriera passavano metà del film piangendo, perciò ho vissuto come una liberazione poter entrare in un ruolo senza dovermi struggere. Megan è una donna molto intensa, ma per rendere questo elemento ho dovuto lavorarci molto conoscendola.”
Per Twohey, è stato strano dover condividere così tanti aspetti della propria vita, ma è rimasta soddisfatta di come Mulligan l’abbia impersonata. “Da giornalisti, siamo sempre noi a lavorare di osservazione e poi raccontare quanto abbiamo visto. Poter ribaltare la prospettiva, mi ha permesso di aumentare la consapevolezza di me stessa,” racconta Twohey. “Quando ho poi visto il film, è stato un colpo vedere tutta questa ricerca fatta da Carey essere espressa sul grande schermo.”
Jodi Kantor / Zoe Kazan
Cresciuta a Staten Island, nello stato di New York, con i nonni sopravvissuti all’Olocausto in New Jersey, Jodi Kantor è da sempre logorata da dubbi sul confine fra giusto e sbagliato. Da ragazza, ha da subito trovato nel quotidiano una finestra sul mondo. Così dopo aver lasciato gli studi in legge per prendere la via del giornalismo, Kantor, a 28 anni, è approdata al New York Times, per curarne la sezione Arts & Leisure. Ma la sua passione era comunque il giornalismo d’inchiesta, in particolare legato a tematiche di genere, anche se all’epoca erano molti a dirle che non erano questioni di interesse per il pubblico.
Kantor è passata al ruolo di reporter proprio nel momento in cui è diventata madre, ed ha poi cresciuto le sue due figlie, conciliando le due figure. Nel giornalismo Jodi ha visto una via per alimentare il dibattito culturale e il cambiamento sociale, per cui ha dedicato il proprio percorso professionale a un lavoro che potesse avere un impatto su ineguaglianze e ingiustizia.
Negli anni spesi come giornalista investigativa, anche prima della storia su Weinstein, Kantor ha usato le questioni di genere come filtro per comprendere le dinamiche sui posti di lavoro e denunciare situazioni di trattamento ineguale e ingiusto. “Per anni mi sono interrogata sulle dinamiche di poter fra impiegati e datori di lavoro e su cosa abbia rallentato la crescita delle figure femminili nei contesti professionali?” spiega Kantor. “Il genere non è una prerogativa fine a sé stessa, ma può aiutare a scardinare dinamiche incancrenite. Comprendendo quello che le donne vivono all’interno di un contesto lavorativo, si può capire meglio come il potere si manifesta e afferma.”
Questa combinazione di passione e prospettiva ha ispirato Kantor nel proporre ai propri redattori di iniziare a investigare sulle denunce sommerse. Questa indagine si è rivelata una sfida senza paragoni, almeno per la sua carriera. “Il mio lavoro consiste nel costruire un rapporto di fiducia con le persone da cui ho bisogno di conoscere la verità, ma nel caso Weinstein ci siamo imbattute in un muro di paura,” ricorda Kantor. Durante l’inchiesta, Kantor è stata presa di mira da alcuni ex agenti militari israeliani, che hanno provato a screditarla per conto dello stesso Weinstein. Nonostante i pochi contatti che Kantor avesse nel mondo del cinema, è riuscita a creare dei rapporti di confidenza con Zelda Perkins, Laura Madden, Ashley Judd, Gwyneth Paltrow e Amy Israel, alimentando una piena fiducia nell’inchiesta, e arrivando a convincere Irwin Reiter, per 30 anni responsabile dell’amministrazione per Weinstein, a fornire alcune informazioni chiave.
Per interpretare Kantor è stata scelta l’attrice e scrittrice Zoe Kazan, che ha già lavorato su lavori come la mini serie Il Complotto Contro l’America – The Plot Against America, la commedia nominata per l’Oscar The Big Sick – Il Matrimonio Si Può Evitare….L’Amore No, pluripremiata serie Olive Kitteridge, per il quale ha ricevuto una nomination per l’Emmy, e il film Ruby Sparks, che Kazan ha interpretato, scritto e di cui ha curato la produzione esecutiva.
Anche Io – She Said rappresenta la terza collaborazione artistica fra Kazan e Carey Mulligan, che si sono conosciute e sono diventate amiche nel 2008 in occasione della messinscena di Il Gabbiano a Broadway. Un decennio dopo, Mulligan ha lavorato in Wildlife, che Kazan ha adattato dal romanzo di Richard Ford con il regista del film, il marito Paul Dano. Per Kazan, l’opportunità di lavorare nuovamente con Mulligan ha rappresentato un grande incentivo, in particolare per la vicinanza dei loro due personaggi nel corso del film.
“Eravamo convinti che il rapporto fra Jodi e Megan fosse uno degli aspetti più cruciali della pellicola da raccontare,” spiega Kazan. “Non è così comune descrivere un rapporto del genere sul grande schermo. Di fatto è molto raro trovare una storia con due protagoniste che camminano una al fianco dell’altra. La simbiosi fra queste due donne e gli obiettivi che sono riuscite a raggiungere, aiutandosi a vicenda e facendo ognuna tesoro dell’intelligenza, dell’integrità e della perseveranza dell’altra, sono stati una vera fonte di ispirazione per me.”
Per potersi conoscere meglio, Kazan e Kantor sono uscite per cena a Brooklyn, vicino a dove entrambe vivono, per poi passare sempre più tempo assieme con l’avvicinarsi dele riprese. “L’aspetto più importante di poter incontrare Jodi è di aver avuto una conoscenza reale del suo modo di essere,” spiega Kazan. “Tutti i dettagli del lavoro giornalistico sono presenti nel loro libro. Io avevo domande sulla sua infanzia, sul modo in cui si siede quando fa un’intervista, se si porta un’agenda o un registratore. Mi interessano molto più gli aspetti pratici, evitando le imitazioni dei modi o della voce. Ho voluto conoscere le qualità di Jodi, la sua intelligenza acuta, la sua empatia e la sua perseveranza, oltre al profondo bisogno di intervenire quando c’è qualcosa di sbagliato.”
In particolare, Kantor ha apprezzato la sincerità che Kazan è stata in grado di esprimere sullo schermo. “I giornalisti sono a volte descritti come opportunisti, se non peggio, e sono grata a Zoe per aver mostrato la devozione che molti di noi cercano di garantire in questo lavoro,” spiega Kantor. Allo stesso modo è stata apprezzata la chiarezza che Kazan ha portato nella costruzione del personaggio. “Zoe è stata una guida generosa e lucida,” raccnta Kantor. “Una delle cose che mi ha voluto comunicare da subito è che non avrebbe proposto una mia replica. Ci sono sicuramente degli aspetti che sono presi dalla mia vita reale, ma non mancano dettagli che nascono dalle sue esperienze personali o dalle emozioni scaturite dal ruolo.”
Ancora, sottolinea Kantor, ci sono scene, inclusa quella che vede Ashley Judd annunciare alla giornalista di esser pronta a testimoniare, in cui Kazan è riuscita esattamente a catturare le emozioni vissute in quel momento. Non di meno, anche sulle scene di finzione, Kazan è riuscita a catturare il legame fra il lavoro e il suo ruolo di madre. “I figli a volte ti riescono a distrarre dal lavoro, ma per certi versi ti riempiono anche di energie,” spiega Kantor. “Non è frequente vedere una rappresentazione credibile sulla fatica di dover gestire lavoro e famiglia, e sono enormemente grata a Zoe per la dignità e la sensibilità che ha garantito.”
Rebecca Corbett / Patricia Clarkson
Rebecca Corbett, vice capo redattore al New York Times all’epoca dell’inchiesta e oggi redattrice nell’ufficio dedicato alle indagini, ha una carriera impressionante di lavori seguiti e poi premiati con il Premio Pulitzer. Prima di approdare al New York Times, ha passato due decenni al The Baltimore Sun. La sua intelligenza formidabile, combinata con un istinto giornalistico unico, la rende un esempio di etica del lavoro pronta a tutto per riuscire a portare a termine un’indagine. La notte prima che venisse pubblicata la storia di Weinstein, Corbett ha lavorato fino all’alba per rileggere ogni singola parola dell’articolo e assicurarsi che l’articolo fosse il più possibile chiaro e conciso.
Nel film, Corbett è interpretata da Patricia Clarkson. “Ho parlato con diverse persone che conoscono Rebecca e hanno lavorato con lei, raccogliendo informazioni fondamentali e a tratti commoventi,” spiega Clarkson. “È una donna stimata, ma è senza dubbio una lavoratrice che si fa apprezzare per il suo contributo quotidiano, e ho provato in ogni modo a far emergere questo suo lato.” Clarkson si definisce una persona dipendente dalle notizie. “Avere l’opportunità di ricreare il dietro le quinte di una redazione giornalistica era da sempre una mia fantasia,” confessa l’attrice.
Clarkson ha preferito non incontrare Corbett prima del film. Piuttosto che basare la propria interpretazione su una persona reale, Clarkson ha preferito lavorare sul personaggio in maniera organica con le altre attrici, lavorando in prima battuta sulle pagine della sceneggiatura scritta da Lenkiewicz, per mettere in scena una persona motivata da alcune ragioni personali e un impegno incondizionato a supportare il lavoro di Twohey e Kantor.
“Ho fatto questa scelta perché ci tenevo a non interpretare un qualcuno, ma volevo arrivare a esserlo, e può essere una sfida molto difficile quando si tratta di figure reali con un tale coraggio,” spiega Clarkson. “Ho provato a renderla una mia espressione, e per questo ho dovuto fare ricorso al meglio che ho per riproporre una donna così forte da accettare di navigare acque così torbide al fianco delle proprie colleghe.”
Dean Baquet / Andre Braugher
Nel suo ruolo di caporedattore esecutivo del New York Times‘ durante le settimane dell’inchiesta, Dean Baquet ha avuto una supervisione su tutti i passaggi, anche i più complessi, vissuti in redazione. Per Jodi Kantor, Megan Twohey e Rebecca Corbett, hanno potuto confrontarsi con Baquet che è stato capace di creare un contesto che garantisse il miglior clima possibile per lavorare, consigliandole quando necessario e proteggendole dalle pressioni esterne via via che le indagini andavano avanti. Nel film, è stato interpretato da Andre Braugher.
“La qualità che più mi ha colpito di Dean è stata l’ambizione di raggiungere l’eccellenza nella scrittura giornalistica senza mai perdere una solida autorevolezza,” spiega Braugher. “Ho tentato di riproporre il suo desiderio di condividere questa necessità di lavorare con integrità e rigore per poter raccontare le storie correttamente.”
Per preparare questo ruolo, Braugher ha studiato The Fourth Estate, una serie documentaria del 2018 dedicata alla copertura data dal The New York Times‘ alla Casa Bianca, che comprende anche un’intervista con lo stesso Baquet. Questo materiale ha aiutato Braugher a costruire il personaggio trovato sulle pagine della sceneggiatura e del libro di Twohey e Kantor. “Sono certo che Dean abbia compreso l’enorme sfida di cui le giornaliste si sono fatte carico. Questa inchiesta non è servita semplicemente a riempire le colonne di un giornale, ma anche a cambiare il mondo,” conclude Braugher.
Laura Madden / Jennifer Ehle
L’irlandese Laura Madden si trovava a Swansea, in Galles, durante la battaglia contro un cancro al seno, quando è arrivata una telefonata dal passato. Madden ha infatti ricevuto una serie di messaggi da una vecchia collega che tirava fuori gli anni in cui aveva lavorato per Harvey Weinstein cercando di capire se qualche “giornalista rompipalle si era messa a cercare qualche storia.” Poco dopo, Jodi Kantor ha chiamato Madden, per verificare se fosse stata disponibile a discutere alcune esperienze del suo passato da dipendente Miramax.
Motivata dalla volontà di rappresentare un esempio per le sue figlie, e potenzialmente proteggere altre donne da una molestia sessuale, Madden ha assunto il difficile ruolo di testimone nella storia di Jodi Kantor e Megan Twohey. Nel film è interpretata da Jennifer Ehle. “Per costruire il personaggio di Laura abbiamo puntato su una madre appassionata e soprattutto su una figura che nella propria vita non ha mai cercato visibilità,” spiega Ehle. “Ogni persona che si è esposta in questa storia ha mostrato un grande coraggio personale e nel caso di Laura il maggiore ostacolo era la necessità di affrontare il giudizio pubblico.”
Ehle aveva già letto il libro di Twohey e Kantor quando è uscito ed era stata un’importante fonte d’ispirazione, al punto da volere a tutti i costi il ruolo di Madden in Anche Io- She Said. “Ho vissuto come un grande onore poter far parte del cast dedicato a questa storia che vede protagoniste giornalisti tenaci e impegnate al fianco di fonti coraggiose che si sono fatte avanti,” conferma Ehle, aggiungendo di aver trovato una speciale sintonia creativa con la regista Maria Schrader. “Lavorare su un progetto con un gruppo di lavoro così pieno di talento è stata un’esperienza di cui ho fatto tesoro.”
Zelda Perkins / Samantha Morton
Zelda Perkins era una giovane assistente impiegata negli uffici londinesi di Miramax, quando una collega, Rowena Chiu, le confidò di essere stata violentata da Harvey Weinstein. Secondo quanto scritto da Kantor e Twohey nell’articolo pubblicato nel 2017 sul New York Times e poi nel libro del 2019, Perkins si è confrontata in maniera violenta con Weinstein e poi ha denunciato le sue azioni ai dirigenti della società. Invece che agire nei confronti del produttore, Miramax ha costretto immediatamente Perkins a firmare un accordo di non divulgazione, proibendole di poter parlare di questa storia con chiunque, compresa la propria famiglia. Zelda Perkins decise così di abbandonare il mondo del cinema.
Per due decenni, sempre secondo il racconto di Kantor e Twohey, Perkins si è attenuta ai termini dell’accordo, uno strumento che Weinstein aveva usato con frequenza per bloccare chiunque volesse rivelare i suoi comportamenti alla stampa o alle autorità. Nonostante questa premessa, Perkins ha trovato il coraggio di parlare con Jodi Kantor dando il via all’inchiesta uscita nel 2017 sul New York Times, anche se nel film i tempi sono compressi. Perkins ha poi verificato con Kantor che l’accordo non fosse intaccato dall’inchiesta. Perkins è stata interpretata da Samantha Morton.
Morton conosceva già il lavoro di Kantor e Twohey, anche prima di essere contattata per il ruolo, e aveva già avuto modo di conoscere precedentemente Perkins, molto prima di essere scelta. Nella decisione di accettare questa opportunità, Morton confessa di aver sentito un grande peso di responsabilità e di voler garantire un’interpretazione veritiera e rispettosa. “Zelda ha fatto un gesto molto potente,” afferma Morton. “Mi sono sentita incredibilmente onorata di poter rappresentare Zelda. Sono certa che sia fondamentale dare la giusta visibilità a queste donne.”
Rowena Chiu / Angela Yeoh
Rowena Chiu lavorava come assistente a Londra per Miramax nel 1998, quando, secondo l’inchiesta pubblicato nel libro di Jodi Kantor e Megan Twohey, Harvey Weinstein ha tentato di violentarla in occasione del Festival del Cinema di Venezia. Dopo essersi confidata con la collega Zelda Perkins, c’è stato un confronto con Weinstein. Sotto costrizione, entrambe hanno firmato un accordo di riservatezza blindato e sono state messe nella posizione di non poterne parlare mai più nella vita. Negli anni seguenti alla violenza, Chiu racconta di aver lottato con forti problematiche psicologiche dovute al trauma provato e al silenzio forzato. Alla fine, ha lasciato la carriera nel cinema, si è sposata e ha costruito una nuova vita in California, senza però mai condividere con il marito quanto successo in Italia negli anni precedenti. Anche se Chiu non ha contribuito all’inchiesta di Kantor e Twohey nel 2017, poi ha deciso di parlare per il loro libro uscito nel 2019. Nel film, che vede una distribuzione temporale compressa, Chiu è interpretata da Angela Yeoh.
“Ho lavorato per mostrare la resilienza e la vulnerabilità di Rowena,” spiega l’attrice. “Ho provato a catturare la forza e la grazia con cui gestisce l’esperienza, oltre alla complessità di dover convivere con il trauma di un abuso, fino a voler finalmente prendere la difficile scelta di parlare.”
Yeoh ha permesso di avere una prospettiva unica nel progetto, avendo lavorato da giovane come giornalista fra Brasile, Francia e Cina. “Ho sempre avuto una grande passione legata al giornalismo per la sua capacità di portare luce lì dove c’è il buio, di sorprendere le persone, di rivelare la verità e ispirare un cambiamento.” Inoltre, lei stessa è stata vittima di un abuso.
Nella preparazione del ruolo, Yeoh spiega “che interpretare una vittima sopravvissuta a un tae storia, comporta una responsabilità ancora più grande tesa a rendere onore alla verità di Rowena. Ho cercato di guardare e leggere tutte le interviste che mi fosse possibile trovare. Ho assunto un insegnante per affiancarmi durante la preparazione e ho accettato di inserire anche le mie esperienze personali in termini di abuso. E sono stata fortunata a poter incontrare Rowena di persona.”
Prima delle riprese, Yeoh e Chiu hanno potuto incontrarsi dal vivo e condividere “esperienze comuni di giovani cresciute in famiglie immigrate, fra le aspettative dei genitori, le differenze generazionali e culturali, e fraintendimenti a volte dolorosi, a volte ironici,” spiega Yeoh.
Quando si sono incontrate a Londra, dove Chiu stava visitando la propria famiglia, Yeoh ha scelto un bar al centro di Londra per una colazione. All’inizio dell’appuntamento, Chiu ha confessato una coincidenza accidentale totalmente inattesa. Il ristorante, ma in particolare il tavolo in cui erano state fatte sedere, era affacciato direttamente sulla porta d’ingresso dei vecchi uffici di Miramax a Londra. “Era un luogo in cui Rowena non tornava dal 1998,” ricorda Yeoh. “Ero sconvolta. A volte l’universo sembra allinearsi nella maniera più inattesa.”
Durante le loro conversazioni, Yeoh è rimasta rapita dalla forza, dall’ironia, dall’eloquenza e dall’intelligenza di Chiu. “Più l’ho conosciuta, più triste è stata la consapevolezza del fatto che avesse lasciato l’industria cinematografica,” sottolinea Yeoh. “Mi chiedo che storie saremmo riusciti a raccontare se Rowena e Zelda, entrambe aspiranti produttrici caratterizzate da forza, integrità e passione, fossero state nelle condizioni di continuare a fare il proprio lavoro.”
Ashley Judd / Nei panni di sé stessa
L’attrice più conosciuta che ha voluto offrire la propria testimonianza sulle esperienze vissute con Twohey e Kantor, nell’inchiesta del 2017, Ashley Judd, ha avuto un ruolo fondamentale nella storia e la sua decisione di parlare pubblicamente ha convinto molte altre donne coinvolte a parlare apertamente di quanto subito. Una volta che l’adattamento cinematografico di Anche Io – She Said era in procinto di arrivare in produzione, gli autori l’hanno invitata a partecipare. Alla fine, Judd ha accettato a prendere parte al film e interpretare se stessa nel film.
La Scenografia
Per creare il mondo in cui è ambientato Anche Io – She Said, la scenografa Meredith Lippincott ha lavorato sulla giornalista che è in lei, iniziando a intervistare Megan Twohey e Jodi Kantor, a osservarle nelle loro rispettive case, così da poter sviluppare i giusti involucri in cui inserire le attrici Carey Mulligan e Zoe Kazan. Lippincott ha voluto lavorare su un quadro di similitudini e contrasti fra Kantor e Twohey, raccogliendo informazioni che andavano dal loro percorso giornalistico all’arredamento casalingo, fino agli elettrodomestici usati nella quotidianità. L’obiettivo era di creare una base solida per la scenografia del film, con elementi ricercati e precisi.
“Il film è così profondamente legato all’esperienza universale di essere una donna in un ambiente lavorativo dominato dagli uomini, ma non si sottrae dall’evidenziare le differenze chiare che esistono fra donna e donna,” afferma Lippincott. “Jodi e Megan, all’inizio del film, si trovano in passaggi diversi delle rispettive vite e volevamo esprimere questo momento: Jodi ha già due figli ed è proprietaria della casa con il marito Ron Lieber, anche lui giornalista al New York Times. Megan invece sta iniziando il proprio percorso con il marito Vadim Rutman, nel corso del film la vedremo diventare madre e di conseguenza vivere anche trasformazioni fisiche e mentali.”
Lippincott ha anche lavorato con grande attenzione per presentare la casa delle testimoni in maniera veritiera e precisa per dimostrare che “si trattava di persone normali, con una famiglia e un lavoro, oltre a preoccupazioni di tutti i giorni,” sottolinea la scenografa. “Abbiamo approcciato il design di queste case con un’attenzione al realismo e al dettaglio, così da creare scene in cui Jodi e Megan si confrontano con persone reali interrompendo vite reali in case reali. Osserviamo così queste donne fermare le proprie responsabilità di tutti i giorni per raccontare le proprie storie.”
Per catturare il più possibile delle scene all’interno della redazione del New York Times, la produzione si è trasferita per due settimane negli uffici a Midtown Manhattan. “Il Times è stato un partner entusiasta, al punto da darci la possibilità di girare nel loro straordinario palazzo nei pressi di Times Square,” spiega la regista Maria Schrader. “È la prima volta che un film di questa scala viene realizzato nei loro ambienti.”
In quel periodo, molti dei giornalisti e dei redattori lavoravano da casa a causa della pandemia, così da permettere alla troupe di muoversi in uno spazio relativamente vuoto e di fatto rimasto intatto come era nella primavera 2020. “C’era un elemento effettivamente curioso quando ci aggiravamo nell’edificio per trovare le giuste location, con centinaia di scrivanie rimaste cristallizzate, con le copie dei giornali del marzo 2020 ancora lì a ingiallirsi,” ricorda Schrader. “Era come una visita a Pompei.”
Per Lippincott, quei sopralluoghi sono stati una miniera d’oro. “Ho passato molto tempo nella redazione di Giornalismo Investigativo, dove si trovavano le scrivanie di Jodi e Megan, per studiare ogni dettaglio relativo al loro spazio,” conferma Lippincott. “C’è un caos visivamente meraviglioso in quella redazione. Carta dappertutto, pile di libri e tutto ciò che serve per presentare come si costruisce una narrazione. Gli ambienti erano completamente diversi da tutti gli altri uffici dell’edificio.”
Per le riprese, però, si è scelto di ricreare l’area d’azione negli ambienti della sezione culturale del quotidiano. “La forma e la luce naturale erano senza dubbio più congeniali alle riprese, e ci garantivano un pieno controllo dello spazio in cui si muovevano le attrici,” spiega Lippincott, che si è occupata anche di progettare un’esatta replica della sala conferenze e dei corridoi del New York Times’ per una serie di scene che non era stato possibile terminare durante le due settimane di lavoro.
• Per Anche Io – She Said Lippincott ha creato 100 set distribuiti fra venti anni e tre continenti, molti dei quali in luoghi nel raggio di 50 miglia dalla città di New York.
• Alcune selezionate riprese sono state fatte con la seconda unità fra Los Angeles, Venezia e Londra per ricreare al meglio gli ambienti esterni e interni citati nel film.
• Lippincott ha scelto una palette di colori molto sobria e contemporanea per riflettere la realtà della redazione e lo stesso è valso per gli spazi personali delle due giornaliste.
I Costumi
• Come ogni singolo aspetto di Anche Io – She Said, l’attenzione al dettaglio è stata la principale chiave che ha guidato l’azione degli autori. Megan Twohey e Jodi Kantor hanno condiviso con la costumista Brittany Loar le loro fotografie in ufficio, alle cerimonie in cui sono state premiate e in contesti più intimi. Twohey ha addirittura mandato a Loar una foto di cosa indossava in occasione del suo primo appuntamento con l’uomo che sarebbe diventato suo marito, un evento che poi è stato incluso nel film. “Ho chiesto di avere tutto quello che poteva essermi utile a costruire il loro guardaroba,” spiega Loar. “Poter vedere cosa una persona sceglie di indossare in ufficio e cosa invece in un qualsiasi weekend, ti dice molto sulla sua identità e sul suo stile personale.”
• La regista Maria Schrader e Loar hanno concordato che i costumi non dovevano apparire perfetti. “Molte di queste donne sono sotto pressione quando le incontriamo, sono persone vulnerabili e stressate, e anche il mio ruolo poteva contribuire a rendere l’idea,” spiega Loar. “Ho volontariamente scelto tessuti che potevano mostrare il sudore nervoso durante le interviste, come gli indumenti stropicciati per sottolineare le ore di lavoro sostenute da Megan, Jodi e le altre giornaliste.”
• Loar ha scelto di ripetere spesso i costumi, in particolare per i personaggi interpretati da Carey Mulligan e Zoe Kazan. “Jodi aveva due figlie all’epoca e volevo esprimere il concetto che probabilmente il look all’epoca non fosse una delle sue priorità. Evidentemente tutta la sua attenzione era rivolta all’inchiesta che stava portando avanti,” spiega Loar. “Lo stesso vale per Megan. Rivelare la verità sotto questa storia ha veramente stravolto la loro vita all’epoca.”
Eventi
Presentato al Torino Film Festival il 27 novembre 2022.
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