Una Famiglia (2017)

Una Famiglia
Locandina Una Famiglia
Una Famiglia è un film del 2017 prodotto in Italia, di genere Drammatico diretto da Sebastiano Riso. Il cast include Marco Leonardi, Micaela Ramazzotti, Fortunato Cerlino, Patrick Bruel, Matilda De Angelis, Ennio Fantastichini. In Italia, esce al cinema giovedì 28 Settembre 2017 distribuito da BIM Distribuzione. Disponibile in homevideo in DVD da giovedì 1 Febbraio 2018. Al Box Office italiano ha incassato circa 41100 euro.

Vincent è nato cinquant'anni fa vicino a Parigi ma ha tagliato ogni legame con le sue radici. Maria, più giovane di quindici anni, è cresciuta a Ostia, ma non vede più la sua famiglia. Insieme formano una coppia che non sembra aver bisogno di nessuno e conducono un'esistenza appartata nella Roma indolente e distratta dei giorni nostri, culla ideale per chi vuole vivere lontano da sguardi indiscreti. In più, Vincent e Maria sono bravi a mimetizzarsi: quando prendono il metrò, si siedono vicini, teneramente abbracciati. A volte cenano al ristorante, più interessati a guardarsi negli occhi che al cibo nei loro piatti. Quando tornano a casa, fanno l'amore con la passione degli inizi, in un appartamento di periferia che lei ha arredato con cura. Eppure, a uno sguardo più attento, quella quotidianità dall'apparenza così normale lascia trapelare un terribile progetto di vita portato avanti da lui con lucida determinazione e da lei accettato in virtù di un amore senza condizioni. Un progetto che prevedere di aiutare coppie che non possono avere figli. Arrivata a quella che il suo istinto le dice essere l'ultima gravidanza, Maria decide che è giunto il momento di formare una sua vera famiglia. La scelta si porta dietro una conseguenza inevitabile: la ribellione di Maria a Vincent, l'uomo della sua vita. 

Info Tecniche e Distribuzione

Uscita al Cinema in Italia: giovedì 28 Settembre 2017
Uscita in Italia: 28/09/2017
Genere: Drammatico
Nazione: Italia - 2017
Durata: N.d.
Formato: Colore
Produzione: Indiana Production Company, Manny Films (in collaborazione con), Rai Cinema
Distribuzione: BIM Distribuzione
Box Office: Italia: 41.100 euro
In HomeVideo: in DVD da giovedì 1 Febbraio 2018 [scopri DVD e Blu-ray]

Recensioni redazione

Una Famiglia, la recensione
Una Famiglia, la recensione
redazione, voto 5/10
Punto di forza del film è indubbiamente legato alla tecnica di ripresa ma non basta a rendere il film sufficiente: film artificioso e non viene sfruttato a pieno il potenziale del dramma.

Immagini

[Schermo Intero]

NOTE DI REGIA

Questo film è stato ispirato da storie vere. Esiste un mercato nero di bambini anche in Italia, come in molti paesi del cosiddetto Terzo Mondo, che si tiene in piedi grazie a una fortissima richiesta. Prova ne sono le numerose inchieste che si sono susseguite in questi ultimi anni dal Nord al Sud di Italia. Nel corso delle nostre ricerche, abbiamo avuto modo di ricevere spunti e suggerimenti dal Procuratore Raffaella Capasso, che ha seguito alcuni casi, quando era alla procura di Santa Maria Capua Vetere. Sincerità e discrezione sono alla base del mio approccio alla messa in scena: senza risultare invadente, volevo essere presente, sempre accanto a Maria. La macchina da presa è sempre presente in scena, fisicamente addosso ai protagonisti, operata interamente a mano e pronta ad accompagnarli nella loro performance. Una macchina da presa che volerà via durante una scena cruciale e violenta, in modo da riflettere sulla nostra indifferenza, sul nostro essere ciechi e sordi al dolore che ci circonda, alla violenza che si consuma nell'appartamento accanto al quale viviamo. Il mio desiderio, in quel momento così delicato, era dare discrezione e pudore alla MDP, che in un'altra scena fondamentale si allontana per rispettare il dolore che prova una madre davanti alla salma della propria figlia. Ed è proprio per pudore che il corpicino della bambina e la sofferenza della madre non vengono mostrati. Abbiamo cercato di sintetizzare regia e fotografia, ad esempio attraverso la scelta di focali Macro, che ci hanno permesso di raccontare attraverso i dettagli la vita della protagonista. Ho cercato inoltre di fare un uso calibrato della musica, così da evitare inutili sottolineature, quell'enfasi che non appartiene al mio stile di regia, fatto soprattutto di sottrazione (ma senza rinunce). È una scelta ben precisa, un punto d'arrivo: mi sembra di poter dare, in questo modo, maggiore importanza alla narrazione, che rischierebbe di essere compromessa dall'esibizione forzata della MDP. Era importante per me e per il mio DoP Piero Basso nonché Operatore, che si creasse una fusione tra noi osservatori e chi la storia la viveva dal di dentro. Il set è così diventato un mondo dove gli attori si muovevano liberamente. Io ed il DoP eravamo in costante contatto via radio durante le riprese e potevamo scegliere quello che al momento ci sembrava la prospettiva più interessante per la nostra indagine. Non volevamo raccontare la periferia romana, che per essere descritta richiede un rispetto e una abilità che spero un giorno di poter possedere. Volevamo raccontare una Roma più astratta, se vogliamo più mentale. Roma, altrove così realistica e persino carnale, nel nostro film è un luogo quasi metafisico. Prendiamo per esempio il "viaggio" di Maria a Ostia: per me non era importante raccontare la "vera" Ostia, quella che anche recentemente è stata raccontata in modo così diretto e naturalistico, su tutti mi viene in mente Claudio Caligari con il suo ultimo film. Qui invece Ostia è sì riconoscibile ma rimane sullo sfondo, il mare dove Maria si perde con lo sguardo meditando forse una fuga impossibile non è il mare di Ostia, ma è "il" mare, come uno se lo immagina quando lo configura mentalmente. Stesso discorso per Roma. Abbiamo operato una stilizzazione della realtà che nella dimensione spaziale (ma anche in quella temporale) è particolarmente evidente. Solo nelle dinamiche tra i personaggi, e ancora di più, nei dialoghi, ci siamo attenuti a un realismo stretto, e il risultato di questo incontro – messa in scena anti naturalistica e scrittura mimetica – è a mio avviso uno dei punti di forza del film.

Il vero tema di questo film non è l'utero in affitto né le madri surrogate né le adozioni illegali. Un film parte sempre da un argomento, in questo caso di sicura quanto controversa attualità, ma poi, almeno per quanto ci riguarda, va ad approfondire una dinamica umana, una relazione, dei personaggi che siano il più possibile rappresentativi. In questo film la dinamica umana è quella della dipendenza, la relazione è un rapporto morboso tra un uomo e una donna che si amano ma di un amore malato, che genera sofferenza, non serenità, disagio, non armonia. E i personaggi sono quelli di Vincent e Maria, lui un uomo distruttivo e in realtà anche autodistruttivo (fino a vendere i suoi stessi figli), lei una donna fragile e a lui soggiogata a tal punto da perdere la libertà sul proprio corpo, ma che nel corso della storia troverà la forza di ribellarsi.

INTERVISTA A SEBASTIANO RISO

Dopo i consensi e il successo internazionale arrivati con "Più buio di mezzanotte" questo tuo secondo film era particolarmente atteso ma ha avuto una gestazione ponderata e dai tempi lunghi: come e quanto hai lavorato con i tuoi cosceneggiatori Andrea Cedrola e Stefano Grasso e che cosa ti stava a cuore raccontare questa volta?"

Abbiamo iniziato a riflettere su questo film nel maggio del 2014, nello stesso periodo in cui "Più buio di mezzanotte" veniva proiettato alla Semaine de la Critique, al Festival di Cannes.
È un film che nasce dall'unione di diverse suggestioni e necessità, prima tra tutte quella di affrontare un fenomeno che esiste da sempre, ma di cui non si parla quasi mai. Perché anche in Italia, come in molti paesi del cosiddetto Terzo Mondo, c'è un mercato nero di neonati che si tiene in piedi grazie a una fortissima richiesta, proveniente dal Nord e dal Sud. Però, nonostante siano emersi moltissimi casi, è difficile fornire un dato preciso, essendo difficile tenere sotto controllo questo tipo di fenomeno. Per farlo si dovrebbe chiedere, insieme ai documenti del figlio, il test del DNA a qualsiasi coppia ritenuta sospetta.
Se una richiesta del genere esiste, naturalmente, è per un vizio legislativo, perché adottare è complicatissimo per le coppie eterosessuali e vietato per quelle omosessuali. Io e il mio compagno, se lo volessimo, non potremmo adottare un bambino, non ci ritengono idonei alla genitorialità anche se di noi non sanno nulla, il veto è posto esclusivamente sulla base del nostro orientamento sessuale, e non per valutazioni che riguardano la nostra persona. Per questo motivo, coppie come la mia sono costrette a porsi almeno una volta la fatidica domanda: come possiamo fare ad ottenere quello che ci spetterebbe di diritto? Forse raggirando la legge?
Perché registrare un bambino è veramente facile, basta recarsi in qualsiasi ufficio anagrafe ed è fatta. Anche nel caso di coppie omosessuali non è poi così complicato, serve soltanto l'aiuto di una amica che testimoni di essere la madre naturale, per poi rinunciare successivamente alla maternità, magari in cambio di denaro. È una dinamica che abbiamo appreso da intercettazioni telefoniche che abbiamo consultato e studiato, e che riguardano casi di questo genere. I documenti sono stati forniti dal Procuratore di Grosseto.
Insieme a Stefano Grasso e Andrea Cedrola, gli sceneggiatori con i quali lavoro e con i quali condivido i miei pensieri, siamo partiti da questa riflessione iniziale (anche privata, ma non solo, perché il privato in questo caso è politico), accompagnandola a considerazioni di carattere strettamente etico sul ruolo della donna nella nostra società. Sono stati mesi appassionanti, di scrittura e riscrittura, perché con Stefano e Andrea lavoriamo uniti durante tutte le fasi di quelli che amo chiamare i nostri film. È a tutti gli effetti un lavoro collettivo, il nostro, ed è così che amici e colleghi si rivolgono a noi, ci chiamano "il collettivo", dicono: "Il collettivo che cosa ne pensa?", "il collettivo che cosa ha deciso?". Perché credo profondamente nel metodo che abbiamo adottato fin dall'inizio e affinato nel corso degli anni, cementificato da una fortissima e comune passione per il cinema, che tutti e tre riteniamo qualcosa di estremamente importante.

Si tratta di una storia dura e senza sconti che fotografa senza ipocrisie la complessa realtà dell'Italia e di altri Paesi ancora arretrati per i diritti familiari e sociali: che tipo di ricerche avete compiuto sull'argomento delle adozioni?

Siamo stati molto fortunati ad avere tre produttori come "gli Indiani". Fabrizio Donvito, nello specifico, è stato fondamentale, grazie a lui e al procuratore di Grosseto abbiamo avuto la possibilità di accedere a intercettazioni telefoniche che documentavano la tratta dei bambini partoriti ad esempio in una provincia casertana e poi venduti in tutta Italia (una dinamica molto simile è stata registrata in provincia di Pavia).
I diversi casi sui quali ci siamo documentati hanno dei tratti comuni, come ad esempio la figura di un medico accondiscendente, anzi complice, che dava alle coppie – per lo più giovani e in difficoltà economica – la possibilità di cedere il figlio in cambio di denaro.
Abbiamo anche cercato di raccontare come venivano avvicinate e circuite le ragazze partorienti, quasi sempre della stessa tipologia: fragili e bisognose.
Non esagero se dico che il risultato di quelle letture è stato un vero e proprio shock: emergeva una realtà brutale, atroce, che sapevamo di dover maneggiare con cautela per poterla rendere materia narrativa. Siamo sprofondati in quelle realtà per assorbirne al meglio atmosfere e dinamiche, poi ne siamo riemersi e abbiamo sentito il bisogno di distanziarci durante la scrittura della nostra storia e dei nostri personaggi. Abbiamo sempre cercato di sospendere il giudizio, di evitare dannosi moralismi, abbiamo capito che per raccontare una storia come questa sarebbe bastata una sincerità assoluta, ponendo domande più che fornendo risposte, così che ogni spettatore potesse avere la possibilità di elaborare le proprie considerazioni.

Maria vive un amore totale per il suo Vincent che la porta ad ignorarne o a rimuoverne lo spietato cinismo: se lo asseconda nella spaventosa impresa di "sfornare" figli da vendere a coppie che non possono averne lo fa solo per amore e per dedizione irrazionale? Che cosa la porta a ribellarsi al suo destino?

Tra Maria e Vincent va fatto un importante distinguo. Sebbene entrambi siano parte di un meccanismo complesso e colpevole (proprio perché assurdo nel suo conformismo), Vincent ne è parte attiva, mentre Maria è una sorta di pedina, anche se consapevole, mossa (manovrata) dall'uomo che ama, senza però sottrarsi a quella che si può definire un'attività criminale.
Vincent, Il Francese, sa che da noi certe leggi sembrano fatte apposta per essere facilmente raggirate, che la modernità fatica a varcare le alpi e fare il suo ingresso nel bel paese, lo stesso che ha svenduto il "made in Italy" accettando che fosse dilaniato dalle grandi organizzazioni criminali, riducendolo così a qualcosa di effimero, di aleatorio, addirittura d'inesistente. Tutte queste dinamiche Vincent le conosce benissimo: adesso che non c'è più nulla da vendere, lui offre il corpo di una donna, della sua donna, come una fabbrica di ossa e di carne, ovvero ciò che resta ancora di invenduto, dunque di vendibile. Il motore, per lui, sono i soldi, gli hanno creato una sorta di dipendenza, e per questo è incapace di smettere.
Maria, invece, è spinta dalla sua dipendenza emotiva per Vincent, che ha annullato quasi del tutto la sua persona. Maria non è proletariato, non è neppure sottoproletariato, è stata privata persino della prole. Non vogliamo in questo modo giustificare il nostro personaggio (che pure amiamo più di noi stessi), perché Maria sa benissimo di essere complice, non se lo nasconde, è consapevole che sta capitalizzando il suo "dono", quello di poter dare alla luce dei figli che saranno poi cresciuti da altri genitori. Questa sua consapevolezza si è evoluta nel corso degli anni, è passata attraverso la negazione, si è palesata sotto forma di lancinanti sensi di colpa, adesso è diventata un martello troppo insistente per essere ignorata. Ed è proprio questo il cuore del film, quello che avviene in lei durante l'ultima gravidanza: il risveglio della sua coscienza. Maria sente di aver sbagliato per una vita intera, forse lo ha fatto senza avere (appunto) coscienza delle proprie azioni, ma quando tutto si fa chiaro non può star ferma e continuare, si rende conto di essere stata trascinata più a fondo del fondo, nel nulla assoluto. Allora reagisce, si muove, combatte, mette a rischio la sua vita per interrompere la supremazia innanzitutto mentale di Vincent, prova a cambiare gli equilibri all'interno della loro coppia. Se Maria ci riesce è perché si rivela in grado di combattere due battaglie contemporaneamente, dentro e fuori di sé.
Abbiamo cercato di raccontare un personaggio silenzioso e fiero che vive in uno stato di continua oscillazione, tra la lucidità e la confusione. Maria mette insieme i pezzetti di carta come delle tessere di un puzzle, necessari a tenere il conto dei bambini che ha perduto. Le serve per non dimenticare, ma senza lasciare tracce, senza insospettire il suo partner.
Durante tutto il film, Maria proverà a disobbedirgli, scappando, mentendo e cercando di boicottare il piano di Vincent mediante il suo corpo. È una donna capace di ferirsi per rimanere lucida, per affermare che quel figlio che porta in grembo vuole tenerlo a tutti i costi, perché sa che potrebbe essere l'ultimo.
Mi piaceva che il corpo di Maria non fosse morbido e materno, che non portasse su di sé i segni delle gravidanze precedenti. Un corpo bloccato in una specie di limbo, perché quei figli effettivamente non li ha mai vissuti né allattati.

Come avete costruito con Micaela Ramazzotti questo nuovo ruolo così intenso e sfaccettato? Che tipo di intesa speciale si è creata tra voi nel tempo da un punto di vista creativo sia prima che durante le riprese dei vostri due film?
Il cinema italiano è fortunato ad avere un'interprete come Micaela, che nello stesso tempo è sensuale ma con occhi profondi e narrativi, nel senso che raccontano quelle inquietanti consapevolezze che ogni vero artista si porta addosso.
Il mio rapporto con lei è così forte e profondo che meriterebbe un'intera intervista, seppure difficilmente le parole riuscirebbero a raccontare l'essenza del nostro legame, che sembra somigliare di più a una promessa. È stata lei che mi ha aiutato a lavorare in profondità, a evitare di mettere in scena emozioni semplicistiche e soggette a compiacimento, e insieme abbiamo provato ad afferrare (e mostrare) i sentimenti più complessi dell'animo umano.
Micaela è stata l'essenza del film ancor prima di scriverlo. La vidi una sera, ad Ischia, con un vestito a fiori, mentre rincorreva i suoi figli, lo faceva con amore e con un pizzico di disperazione e quell'immagine, dentro di me, si fermò e iniziò a risuonare come una splendida melodia. Ancora non lo sapevo, ma la sensazione che ho provato mi stava dicendo che quella madre sarebbe diventata la mia Maria.
Durante tutte le riprese Micaela è stata un'amica, una complice, un sorriso improvviso e trascinante, di quelli capaci d'infondere fiducia nei momenti difficili e la voglia di fare meglio quando le cose vanno bene. Ha recitato seminuda in un parco, a meno cinque gradi, senza mai lamentarsi, al contrario invogliando la troupe a non mollare. Si è messa il film sulle sue spalle e ha corso lontano.
Micaela è la mia musa, la donna che sento di amare e con la quale ho deciso, insieme ai miei sceneggiatori, di raccontarvi storie che facciano pensare ed emozionare allo stesso tempo. D'altronde non è questo che si dovrebbe provare a fare facendo cinema?

Come e perché hai scelto Patrick Bruel per il personaggio di Vincent? Era ideale per dar vita ad un uomo dallo sguardo solo in apparenza sereno ma inquieto e impenetrabile e per la lucida e terribile determinazione del suo "investimento"?

Lavorare con Patrick è stata una sfida, quella che si affronta ogni volta che si lavora con un attore straniero. Ma ho deciso di affrontarla, quella sfida, perché poteva dare al film una potenza che senza di lui sarebbe mancata. La sua nazionalità, come già accennato, era fondamentale per parlare dell'Italia in maniera più distaccata, perché quelle leggi assurde e quel bigottismo sarebbero state viste dall'esterno, con un occhio partecipe ma non coinvolto fin dalla nascita, non abituato a certe dinamiche che troppo spesso gli italiani danno per scontate, come se fossero naturali.
Fin dal nostro primo incontro, avvenuto a Marsiglia, ho capito che Patrick sarebbe stato perfetto per interpretare Vincent perché "ha gli occhi buoni", come dice di lui un personaggio del film, ha tutt'altro che l'aspetto del mostro (quale può essere considerato il personaggio che interpreta), condizione necessaria per conquistare la fiducia delle persone. Un uomo come lui, in apparenza così fragile, è in questo senso molto più pericoloso, può potenzialmente trasformare nella nuova Maria altre donne che incontra, può potenzialmente trasformare nella nuova Maria ogni spettatore che lo guarda in quegli occhi.
Patrick, in Francia, è un attore rassicurante e amatissimo, oltre che un cantante capace di riempire gli stadi. Quando ha accettato d'interpretare un padre che manipola la propria donna per vendere i suoi figli sapeva di essersi calato in un contro ruolo che nel suo paese farà discutere. Ma è anche questo un modo per squarciare il velo, come se dicessimo ai nostri bambini che Babbo Natale non solo non esiste, ma che addirittura è senza scrupoli.
Patrick è stato sempre generoso, e riguardando il film ancora trovo nuove sfumature e dettagli emozionanti che hanno reso la sua interpretazione potente e universale. Perché si è rivelato capace, con il solo sguardo, di essere complesso ed emozionante, recitando in una lingua che non conosceva, ma che ha saputo utilizzare con disinvoltura. L'uso del francese nei momenti di tensione, momenti così delicati e determinanti per la storia, diventa per Vincent un'arma in più. È stata un'occasione per noi sceneggiatori di riflettere sulla lingua e sulla cultura, e sulla sua assenza, capace di generare un disorientamento che ha radici profonde in Maria.

Quanto contano gli altri personaggi principali nella vicenda, come hai scelto gli attori che li interpretano e che cosa hai chiesto ad ognuno di loro di portare in scena?

Con Matilda De Angelis abbiamo cercato raccontare una delle dinamiche più feroci tra quelle che abbiamo appreso dalle intercettazioni: dare al business una continuità. Chi gestisce questi affari, solitamente, non si limita a portarli avanti, decide d'ingrandirli. Un modo per riuscirci è avere due donne contemporaneamente, così da non perdere tempo (quello necessario alla propria compagna per riprendersi dal parto precedente), secondo un principio di fondamentale importanza per il capitalismo, che non concede pause nella produzione.
Fortunato Cerlino, nel ruolo del medico, è una figura di fondamentale importanza, è il tramite tra chi vende e chi compra. Nessuno meglio di un ginecologo, con la sua rete di contatti e pazienti disposti a tutto, può ricoprire quel ruolo.
Ennio Fantastichini e Sebastian Gimelli Morosini (con il quale avevo già lavorato in "Più buio di mezzanotte"), formano una coppia omosessuale, Giorgio e Federico, che abbiamo cercato di raccontare e trattare senza ipocrisie, dunque come una coppia normalissima. Abbiamo preso spunto da una coppia di miei conoscenti che provarono ad adottare un figlio in Thailandia, ma solo alla nascita seppero che il bambino era affetto da una grave malattia. La coppia del film ci pone davanti a un inquietante interrogativo al quale non è facile rispondere: saremmo disposti a pagare ottantamila euro per realizzare un sogno, per avere un figlio a cui ci legheremo in maniera viscerale pur sapendo che è destinato a morire presto? Il personaggio di Giorgio fornisce una risposta: "Alla mia età non mi riprenderei più da un dolore così grande ".
Giorgio e Federico si trovano in quella situazione così difficile e dolorosa per colpa di uno stato che discrimina le persone soltanto perché omosessuali, non concedendo loro il diritto di essere genitori. Per quanto riguarda la scelta degli attori, vale quello che ho detto per il lavoro di sceneggiatura. Un film funziona se tutti i suoi elementi si muovono all' unisono, se tutti sono "accordati" sulla stessa nota, se tutti portano la propria anima e la propria professionalità all'interno di un progetto comune. Differenziarsi nell' unità, chiedo questo a chiunque faccia parte di un film.

Come si sono svolte le riprese? Sei riuscito a rendere in scena esattamente quello che volevi sia da un punto di vista artistico che produttivo?

Sincerità e discrezione sono alla base del mio approccio alla messa in scena: senza risultare invadente, volevo essere presente, sempre accanto a Maria. La macchina da presa è sempre presente in scena, fisicamente addosso ai protagonisti, operata interamente a mano e pronta ad accompagnarli nella loro performance. Una macchina da presa che volerà via durante una scena cruciale e violenta, in modo da riflettere sulla nostra indifferenza, sul nostro essere ciechi e sordi al dolore che ci circonda, alla violenza che si consuma nell'appartamento accanto al quale viviamo.
Il mio desiderio, in quel momento così delicato, era dare discrezione e pudore alla MDP, che in un'altra scena fondamentale si allontana per rispettare il dolore che prova una madre davanti alla salma della propria figlia. Ed è proprio per pudore che il corpicino della bambina e la sofferenza della madre non vengono mostrati.
Abbiamo cercato di sintetizzare regia e fotografia, ad esempio attraverso la scelta di focali Macro, che ci hanno permesso di raccontare attraverso i dettagli la vita della protagonista. Ho cercato inoltre di fare un uso calibrato della musica, così da evitare inutili sottolineature, quell'enfasi che non appartiene al mio stile di regia, fatto soprattutto di sottrazione (ma senza rinunce). È una scelta ben precisa, un punto d'arrivo: mi sembra di poter dare, in questo modo, maggiore importanza alla narrazione, che rischierebbe di essere compromessa dall'esibizione forzata della MDP.
Era importante per me e per il mio DoP Piero Basso, nonché Operatore, che si creasse una fusione tra noi osservatori e chi la storia la viveva dal di dentro. Il set è così diventato un mondo dove gli attori si muovevano liberamente. Io ed il DoP eravamo in costante contatto via radio durante le riprese e potevamo scegliere quello che al momento ci sembrava la prospettiva più interessante per la nostra indagine.
Non volevamo raccontare la periferia romana, che per essere descritta richiede un rispetto e una abilità che spero un giorno di poter possedere.
Volevamo raccontare una Roma più astratta, se vogliamo più mentale. Roma, altrove così realistica e persino carnale, nel nostro film è un luogo quasi metafisico. Prendiamo per esempio il "viaggio" di Maria a Ostia: per me non era importante raccontare la "vera" Ostia, quella che anche recentemente è stata raccontata in modo così diretto e naturalistico, su tutti mi viene in mente Claudio Caligari con il suo ultimo film. Qui invece Ostia è sì riconoscibile ma rimane sullo sfondo, il mare dove Maria si perde con lo sguardo meditando forse una fuga impossibile non è il mare di Ostia, ma è "il" mare, come uno se lo immagina quando lo configura mentalmente. Stesso discorso per Roma. Abbiamo operato una stilizzazione della realtà che nella dimensione spaziale (ma anche in quella temporale) è particolarmente evidente. Solo nelle dinamiche tra i personaggi, e ancora di più, nei dialoghi, ci siamo attenuti a un realismo stretto, e il risultato di questo incontro – messa in scena anti naturalistica e scrittura mimetica – è a mio avviso uno dei punti di forza del film.

Ti sei sempre dichiarato ammiratore e debitore del grande cinema morale di Francesco Rosi: su quella scia ideale ricorre nelle scelte tematiche ed estetiche dei tuoi film l'aspirazione ad essere testimone civile delle cruciali questioni sociali del tuo Paese?

Rosi, come molti dei registi che ho amato sin da quando ero un adolescente e che poi ho approfondito quando ero uno studente di cinema, mettono al centro una riflessione sulla società, invitano lo spettatore ad aprire gli occhi e non si limitano a intrattenerlo con uno spettacolo da "panem et circenses".
Come "Più buio di mezzanotte" anche "Una famiglia" ed anche il terzo film che stiamo scrivendo insieme a Stefano Grasso e Andrea Cedrola, cerca di fare la stessa cosa, ovvero essere un film politico nel senso più alto ma allo stesso tempo più indiretto del termine. Provando a raccontare la società di cui facciamo parte, spogliandola dagli sguardi comodi, conformisti e rassicuranti, ma senza derive ideologiche e senza messaggi invadenti allo spettatore. È impossibile non avere un punto di vista sul mondo per un regista, e anche Rosi lo sapeva bene. Quindi un'indicazione per lo spettatore c'è e a mio avviso non può non esserci ma è suggerita, non urlata. Non appendiamo manifesti né parliamo per slogan, creiamo invece delle connessioni tra fatti e idee, e da quelle connessioni nasce lo sguardo sul mondo. A pensarci bene è proprio quello che dovrebbe fare la politica ma anche al tempo di Rosi questo incarico stava cominciando a essere dismesso, figuriamoci oggi. Per questo il cinema, soprattutto questo tipo di cinema, è ancora così importante.

INTERVISTA A MICAELA RAMAZZOTTI

Chi è la Maria che interpreti in questo film e che cosa le succede in scena?

Maria sembra non avere un passato, sembra non avere nessun altro se non quell'uomo, Vincent, che è tutto per lei: suo padre, suo fratello, il suo amante, suo marito, il suo fidanzato, il suo padrone, il suo carceriere. È schiava di un progetto che non sembra aver deciso ma che ha accettato da sempre, eppure, fin dalle prime scene, sembra che Maria stia meditando qualcosa, un progetto di ribellione, un'emancipazione da quella storia d'amore malata e crudele, che tuttavia il film non giudica, ma osserva e racconta senza emettere sentenze. Così nel corso del racconto ho cercato di lavorare su questi pensieri segreti di Maria che man mano prendono forma e forza e che la porteranno alla scelta finale di buttare all'aria quel rapporto e quel folle e ossessivo reiterarsi di sesso, gravidanza, vendita del neonato, insomma quella che è stata la sua vita di schiava inconsapevole, ignara, per diventare finalmente una persona.
La solitudine di Maria sembra quasi una forma di autismo, un disturbo che la proietta in una specie di realtà immaginaria e fittizia, dove s'immerge in minuscoli percorsi ossessivi: sbriciola fogli di carta per farli diventare strade, paesaggi, luoghi immaginari che forse sono la sua maniera di fuggire da quella sua realtà di prigionia. Ma quello stesso disturbo, quella sua specie di autismo in realtà la protegge dalla violenza di quella sua condizione. Maria è una persona fragile, candida, mite, puerile, è come se fosse venuta al mondo quel giorno stesso, come se non avesse vissuto nient'altro che quello che sta vivendo, come se non ci fosse niente al di fuori di Vincent, di quelle loro giornate. Così succube, così innocente, da diventare una criminale, o la complice di un criminale, e sfornare a ripetizione figli da vendere in cambio di alcune decine di migliaia di euro.

Che cosa ti ha interessato e coinvolto in questo personaggio così intenso, fragile e commovente e come lo hai costruito? Quanto l'hai sentita vicina e quanto ti ha coinvolto emotivamente?

Maria non è mai stata madre, non ha mai vissuto l'esperienza della maternità. O meglio: ha sperimentato solo la gravidanza e la brusca espulsione del bambino dal suo corpo, il momento del parto, ma non ha mai tenuto un bambino tra le braccia. Infatti non ho immaginato per lei un carattere materno, al massimo Maria è madre di se stessa: infatti è sempre abbracciata stretta al suo maglioncino di lana rosa pallido, come per proteggersi, per darsi coraggio e conforto. Diventerà una persona compiuta soltanto nel momento in cui si libera con rabbia da Vincent, e diventerà madre nel tenersi quel figlio, quel bambino che nessuno vuole più.

Quale intesa è nata sul set con Patrick Bruel? Come avete interagito tra voi e cosa pensi della sua interpretazione e del suo approccio al personaggio?

Patrick nella vita è tutto il contrario di Vincent: è una persona leggera, solare, scherzosa, entusiasta, vitale, molto divertente. Quando arrivava sul set si trasformava in Vincent ed era molto concentrato, ma un attimo prima ed un attimo dopo era Patrick, lo chansonnier seducente e lieve che ama far ridere le ragazze. Ho molto ammirato il suo sforzo di recitare in una lingua che non è la sua. E' una cosa che non mi è mai capitata e forse non ne sarei capace. Ma Patrick lo faceva con slancio e anche con divertimento, da vero artista.

Avevi già girato con Sebastiano Riso "Più Buio di Mezzanotte": che tipo di collaborazione speciale, di intesa e di creatività comune si è stabilita con lui?

Io e Sebastiano non ci siamo più persi di vista da quando sono finite le riprese del nostro primo film insieme. Con lui è stato subito un comprendersi reciproco. Mi sento totalmente accolta, capita, amata da lui, il suo entusiasmo verso di me mi commuove, mi riempie di orgoglio e nutre la mia autostima che solitamente, come quella di molti attori, è sotto terra. Invece quando mi sento guardata da Sebastiano, sul set, mi viene un coraggio che non credevo di possedere, una spudoratezza che in realtà è tutta sua, ma che diventa anche un po' mia. Divento insomma caparbia e spericolata, un po' come lui, che è uno dei registi più liberi, determinati e audaci coi quali abbia mai lavorato. Ed è un godimento, sul set, nel momento delle riprese, gasarsi e sentirsi intelligentissimi e bravissimi. Fa venire voglia di buttarsi, di rischiare l'osso del collo. Insomma quando giro con Sebastiano, grazie a lui, mi sento Meryl Streep, finito il film torno a sentirmi insicura, fragile e un po' stupida. Mi piacciono le sue idee, mi piace la sua determinazione e mi diverte il suo essere brusco. Abbiamo girato "Una famiglia" in poche settimane, quindi in questa occasione lui spesso doveva sbrigarsi, correre, prendere decisioni improvvise rapidamente. Io mi sentivo totalmente al suo fianco, in certi momenti ci guardavamo senza dirci nulla per incoraggiarci a vicenda. Sentivo, specie in quei momenti di fatica, di non poterlo deludere. E' curioso come un regista che in fondo non ha una lunga esperienza, e che è addirittura più giovane di me – ed io in genere sono stata abituata a lavorare con cineasti sapienti, esperti e anche maturi – abbia questa sua forza ostinata e questa sua capacità di trasmetterla, è sorprendente il suo carisma, quello slancio che mi è sembrato di percepire. Mi sentivo forte grazie alla sua forza, coraggiosa grazie al suo coraggio. Interpretavo un ruolo molto drammatico e Sebastiano non si stancava mai di ricordarmi prima di ogni singola scena dell'enorme dolore che aveva dentro Maria, ero quindi concentrata su questa infelicità, su questo suo cammino per cercare di scrollarsi di dosso quell'oppressione che la rende prigioniera di un rapporto morboso. Ero insomma alle prese con un personaggio abitato da una struggente infelicità eppure la sera, dopo il set, quando tornavo a casa ero felice e in macchina cantavo a squarciagola canzoncine stupide. Come se, esprimendo sul set tutta quella rabbia, quel dolore, mene fossi poi liberata e mi sentissi quindi subito leggerissima e di buon umore. Altre volte invece mi è capitato il contrario, ovvero di portarmi a casa il dolore del personaggio che stavo interpretando, ma con l'esperienza dopo quaranta film, ho capito che è una cosa un po' sciocca, che può peggiorare moltissimo la vita di chi fa il mio mestiere.

INTERVISTA A PATRICK BRUEL

Quali sono i motivi che l'hanno portata ad accettare di recitare in questo film: un personaggio ambiguo e multiforme, un regista interessante, la storia di un fenomeno sociale inquietante…
Ci sono state molte sfide da superare per me in questo progetto: un ruolo impegnativo, una storia da raccontare insolita, una lingua diversa dalla mia in cui recitare, e – dato il basso budget del film – una lavorazione aspra, difficile e senza rete. Ero molto incuriosito e mi ha commosso molto la possibilità di interpretare un uomo complesso e duro come Vincent, ho sentito che questa storia potesse portarmi altrove e che avrebbe rappresentato per me una avventura umana molto intensa.

Che rapporto ha instaurato con Sebastiano Riso? C' è stata una sorta di creatività comune sul set, avete costruito insieme il ruolo di Vincent e la sua personalità introversa e imperscrutabile?
Con Sebastiano tutto è iniziato quando ci siamo incontrati la prima volta a Marsiglia. Avevo visto il suo primo film "Più buio di mezzanotte" e avevo capito subito che mi trovavo di fronte ad un grande regista, sono stato subito colpito dal suo punto di vista, la sua determinazione, la sua capacità di ascolto, il suo desiderio di condividere tutto con me e soprattutto dal fatto che mi considerasse l'interprete ideale per quel personaggio così lontano da qualsiasi altro io avessi interpretato prima. Non si può andare avanti se non si ha grande fiducia nelle proprie sensazioni immediate e il mio istinto mi ha suggerito di intraprendere subito questa nuova esperienza. Io e Riso abbiamo lavorato a lungo e in profondità prima e durante le riprese per affinare le caratteristiche di Vincent, un uomo mutevole, spesso impenetrabile, calcolatore, freddo, cinico, violento…

Quanto è stato coinvolto emotivamente nell' impersonare una figura così lontana da lei?
Non si può uscire indenni da un viaggio emotivo del genere. Io, ovviamente, ho cercato di capire e comprendere Vincent, le sue motivazioni, le ragioni della sua personalità così complessa. Come può un uomo arrivare a questo punto…? mi sono chiesto. E per inquadrare e sentire meglio sulla mia pelle il personaggio sono stato costretto a immaginarmi e a raccontarmi una sua storia, un passato, una sofferenza, una ferita… Ho incorporato molti elementi e dettagli che non erano espressi esplicitamente nella sceneggiatura ma mi hanno permesso di convivere dall'interno con quest'uomo, nonostante fosse molto distante da quello che io sono e sento.

Ricorda qualche sequenza particolare che si è rivelata essere più complessa e difficile di altre?
Ce ne sono diverse, ma ricordo soprattutto la scena della spirale, la cui violenza sia morale che fisica mi terrorizzava, alla fine però ci ha permesso di creare secondo me un momento di straordinaria creatività cinematografica.

Come mai ha recitato in presa diretta in italiano?
Perché no? Sarebbe stato difficile immaginare e proporre in altro modo Vincent, un cittadino francese che però è vissuto a Roma per 35 anni…certo, lui conserva un leggero accento del suo Paese d'origine ma bisognava che il suo italiano fosse perfetto. Non si è trattato di un caso, abbiamo lavorato molto con la nostra dialogue coach, Paola, e grazie a lei l'italiano della mia tenera infanzia è riemerso magicamente… Lavorare in una lingua diversa dalla propria rappresenta per un attore una vera sfida ma alla fine è molto gratificante che il tuo regista non ti chieda di doppiare in post-sincronizzazione nessuna delle scene recitate in presa diretta…

Che tipo di collaborazione artistica avete creato con Micaela Ramazzotti?
Molto intensa, così come lo sono i nostri personaggi, tra noi è nata presto una bella complicità. Micaela è una delle attrici più istintive e creative con cui io abbia mai recitato, ti può condurre molto lontano, bisogna essere sempre pronti a seguirla… In questo film ci sono momenti davvero rari e folgoranti.

Cosa pensa lei della vendita illegale di neonati, è un fenomeno che pone argomenti di riflessione e di dibattito anche in Francia?
In Francia e altrove la vendita illegale di neonati è un flagello, necessariamente legato, in parte, alla grande difficoltà di adottare. Anche se si tratta di un vero e proprio dramma molto diffuso in Italia si estende in realtà a tutta l'Europa e non si risolverà molto facilmente. Il nostro film può aprire (o riaprire) un dibattito troppo a lungo ignorato e rappresenta secondo me uno sguardo importante su una problematica così grave. "Una famiglia", in fondo, è una riflessione amara su un capitalismo che non prevede più l'esistenza del proletariato come accadeva nel secolo scorso. Oggi il "nuovo proletariato" non può nemmeno contare sull'unico potere che tradizionalmente il popolo aveva sempre avuto: i loro figli! I bambini possono diventare mercanzia, merce scelta, esattamente come tutto il resto, e la forza della nostra storia è che racconta tutto questo attraverso una coppia franco-italiana, formata da due persone originarie della Francia e dell'Italia, il cuore della nostra civiltà e della nostra Europa moderna. In "Una famiglia" non si parla di un uomo e una donna inseriti in un contesto di guerra, povertà e senza speranza. No, qui si tratta di persone che, in teoria, possono vivere nella casa accanto alla nostra, si parla più che di una povertà materiale, di una vera e propria miseria interiore e spirituale…

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